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Mondiale 2023

Zaugg: “Non ho mai avuto paura di dire quello che penso, scrivere è ciò che mi dà tanta gioia”

A 66 anni la passione del giornalista è intatta: “Non ho mai fatto carriera, sono sempre rimasto uno scribacchino. Non avevo ambizioni di scalare le gerarchie, un cambiamento avrebbe comportato più riunioni e meno articoli”

RIGA – Fa ormai parte integrante da decenni dell’inventario dell’hockey svizzero. Klaus Zaugg è una vera istituzione. Amato, odiato, la verità è una sola: praticamente tutti lo leggono. Ecco alcuni numeri da capogiro che ben testimoniano la sua grande carriera da giornalista: presente a 42 Mondiali maggiori, 8 Olimpiadi, 2 Canada Cup.

Oltre à ciò pure tante presenze ai vari Mondiali giovanili: ad esempio in Finlandia nel 1998, quando l’idolo locale Olli Jokinen segnò in finale il gol decisivo contro la Russia, oppure a Füssen nel 1992, con la presenza di futuri campioni come Peter Forsberg, Michael Nylander ed Eric Lindros. In quella compagine svizzera giocavano tra gli altri i ticinesi Pauli Jaks, Tiziano Gianini, Nicola Celio, Ivan Gazzaroli e l’attuale direttore sportivo del Bienne, Martin Steinegger.

“La mia prima competizione iridata fu ancora durante la Belle Epoque dell’hockey, ovvero nel 1981. Si trattava del Mondiale del Gruppo B, si svolse a Ortisei. La Svizzera, tra le favorite, terminò al terzo posto. Gli italo-canadesi, i primi di una lunga generazione, davano spettacolo, in porta per gli azzurri c’era il grande Jim Corsi”, ci racconta Klaus Zaugg.

“In quella mia prima esperienza imparai subito qualcosa d’importante giornalisticamente parlando. Lasse Lilja, l’allora allenatore della nostra Nazionale, prese per il collo l’autista del bus a causa di un ritardo. Io pensai “ecco una bella storia da scrivere, il selezionatore che picchia l’autista”. Un collega più anziano mi prese da parte e mi disse, “Klaus ci sono scene e avvenimenti che non si scrivono e si tengono per sé”. Rinunciai dunque alla mia storia, la Federazione elvetica regalò per farsi perdonare un bell’orologio all’autista”.

Sei nel giro da oltre 40 anni, quando iniziasti pensavi a una simile longevità in questo campo?
“No, ma quando sei giovane non sai mai cosa ti riserva la vita. A differenza di altri che iniziarono a scrivere di hockey con me, io non ho mai fatto carriera. Ad esempio Roger Köppel è ora consigliere nazionale, Markus Eisenhut è diventato caporedattore, io invece sono sempre rimasto il semplice scribacchino, ma è quello che mi piace e che mi dà maggior gioia. Non ho mai avuto ambizioni di scalare gerarchie, mi è sempre bastato guadagnare il minimo indispensabile per pagare le fatture. Ho avuto altre offerte, ma alla fine della fiera in sostanza un cambiamento avrebbe comportato più riunioni e meno articoli”.

Hai 66 anni, ma di andare in pensione non ne vuoi sapere, ti sei dato un’asticella limite prima di appendere la penna al chiodo e goderti più tempo libero?
“Sino a quando la salute me lo permetterà, continuerò. Oltre a ciò ovviamente ci deve sempre essere qualcuno che voglia pubblicare i miei contenuti. Queste sono le condizioni. Ci si può godere la vita anche scrivendo, ora faccio un pochettino meno, ma la passione è intatta ed è un privilegio poter continuare questa passione anche dopo l’età del pensionamento”.

Sei popolarissimo in tutte le zone linguistiche della Svizzera, sei quasi un unicum, tutti ti conoscono, come te lo spieghi?
“Non so se sia davvero come dici tu. Sicuramente l’anzianità di servizio è una componente. Un altro fattore probabilmente è che io scrivo quello che penso… Per meglio dire, sono uno dei pochi che ha il coraggio di dire la sua senza paura di ritorsioni. Non ho mai cercato un’accoglienza gioiosa nelle varie piste e ho sempre messo in conto di essere a volte una persona non grata. Automaticamente hai più risonanza rispetto a un giornalista che scrive quello che un club vuole leggere”.

Ti sei fatto più amici o nemici?
“I miei amici non sono nel mondo dell’hockey. La mia compagna non si reca mai in una pista, per lei quello hockeistico è un mondo sospetto. Non posso dunque rispondere alla domanda. E poi cosa sono gli amici? C’erano tempi a Berna che per arrivare alla tribuna stampa dovevi attraversare la zona vip. Una volta mia figlia mi seguì a 20 metri di distanza. Al mio passaggio la gente mi salutava, mi faceva i complimenti per gli articoli, qualche secondo più tardi al passaggio di mia figlia le stesse persone dicevano “ma diciamogli una volta a sto buffone della merda che scrive”. Avere amici nell’hockey, nella sfera lavorativa, non è possibile”.

Hai mai ricevuto divieti di entrata, minacce anonime oppure subìto attacchi fisici?
“Divieti mai, una volta sola sono stato aggredito da un gruppo di tifosi, ma sono robusto. Lettere o mail di odio ogni tanto arrivano, per non parlare dei vari blog e forum. Ma fanno parte del gioco. Il mio principio è comunque quello di cercare il dialogo e di non nascondermi. Anche quando critico pesantemente un dirigente o un club, non mi faccio problemi ad andare alla partita della società in questione. È importante vedere la gente negli occhi, affrontarla, se non hai il coraggio di farlo vuol dire che hai fatto o scritto qualcosa di sbagliato”.

Tanta gente si chiede come fai ad avere sempre così tante news di mercato…
“È semplice, in qualità di giornalista non sai niente, quindi devi domandare, fare telefonate. È un mondo piccolo, stai attento a qualsiasi frase dei vari protagonisti, componi il puzzle e arrivi alla soluzione. Quando a fine febbraio ho scritto che Raffainer era al capolinea, cosa poi avvenuta un mesetto dopo, non è che qualcuno me lo abbia testualmente detto. Semplicemente mi sono accorto dell’evidenza dopo aver appunto discusso con diverse persone”.

Sei diventato un giornalista migliore in oltre 40 anni di attività, come sei cambiato?
“Sarebbe tragico se non fossi progredito, io penso di sì, perlomeno lo spero. L’esperienza aiuta tanto e il know-how aumenta. Adesso sono diventato un po’ più soft con la critica, l’età mi ha addolcito”.

Come vedi lo sviluppo di questo mestiere? Ci sono sempre meno giornalisti sul posto, tanti lavorano dalla redazione e seguono le partite alla televisione, sei preoccupato da questa tendenza?
“Preoccupato è forse la parola errata. La pressione di dover diminuire i costi comporta avere meno gente nella redazione sportiva e quindi è un effetto domino. Ormai ogni partita arriva nelle case, per non parlare di internet con tutte le informazioni, quindi sempre più giornalisti si aggrappano a questi due appigli. Ma se io come giornalista mi baso sulla TV o sui portali internet ho le stesse informazioni dei miei lettori. Non va bene, il principio di base è che tu dovresti avere più informazioni, altrimenti non puoi dare nulla di più al tuo utente. Purtroppo oggi si va verso la velocità della notizia. Un giornalista invece deve avere il tempo di poter parlare con le persone, dovrebbe poter avere magari anche una settimana di tempo per una ricerca prima di pubblicare una storia. Oggi non è più possibile, è peccato, ma egoisticamente parlando questo va a mio favore, io da indipendente non ho questi problemi, sono in sostanza il capo di me stesso. E pure qui, sono un privilegiato. Tu puoi avere frequentato tutte le università che vuoi, ma il giornalismo va oltre. Il vero giornalismo è uscire dalla redazione, andare alle partite, parlare con le persone, solo così si può fare questo mestiere. Restare in una redazione è sinonimo di segretariato”.

Non sarà facile rispondere, ma quale è stata la tua intervista più speciale, quella che ti è rimasta nel cuore?
“Non è legata all’hockey quella che non dimenticherò mai. Fu con Wayne Rainey, il Valentino Rossi dell’epoca, era la star del motomondiale. Nel 1993 cadde a Misano e a causa dell’incidente fu costretto alla sedia a rotelle. Io e un collega fummo i primi giornalisti a poter fare un’intervista con lui dopo il tragico accaduto, ci recammo a casa sua in California. Prima di fare l’intervista non sapevamo come comportarci, cosa chiedergli. Ci chiedevamo, chissà che persona incontreremo, chissà il suo stato d’animo. Non dimenticherò mai la sua forza, il suo ottimismo, come accettò il suo destino. Parlò apertamente, senza veli, fu impressionante captare i suoi sentimenti, quelli di un grande sportivo di fama mondiale che da un secondo all’altro si ritrova paraplegico”.

Oggi è sempre più difficile avere interviste clamorose con dichiarazioni che escono dalla norma…
“È peccato, se io avessi voce in capitolo la prima cosa che vieterei assolutamente sono le formazioni che ricevono i giocatori per parlare con i media. Ormai sanno tutto, sono stati completamente educati, non appena vedono un microfono inseriscono la “modalità del politicamente corretto”. Sono finiti i tempi quando dicevano veramente quello che pensavano. Oggi tutti riflettono esattamente su cosa dire e oltretutto spesso prima di pubblicare le interviste devi pure farle vedere al responsabile della comunicazione per l’approvazione”.

Una costante sono pure i tuoi viaggi Oltreoceano per incontrare gli svizzeri che militano in NHL..
“L’ultimo è stato qualche mese fa, ero nel New Jersey, dove ho incontrato Hischier, Meier, Siegenthaler e Schmid. Il primo viaggio di questo genere intrapreso fu all’inizio degli anni ’90 per andare da Pauli Jaks quando giocava in IHL con i Phoenix Roadrunners. Uscimmo assieme a cena. Mi ricordo che i tifosi locali speravano sempre nei rigori perché era fortissimo in questo genere di esercizio. Pauli fu un pioniere. Ben si capiscono i progressi del nostro hockey. 30 anni fa la sua presenza in un farm-team era clamorosa al punto da meritare appunto un viaggio in Arizona. Ora si organizzano conferenze stampe ai Mondiali quando arriva una star della NHL come Fiala alla presenza di giornalisti internazionali. Ai tempi di Pauli se qualcuno mi avesse detto che 30 anni più tardi nessuno si sarebbe più interessato a uno svizzero in un farm-team e che avremmo avuto una decina di stelle in NHL, compreso un capitano, gli avrei risposto che allora il Langnau avrebbe vinto nello stesso lasso di tempo ancora 5 titoli. Insomma, non avrei mai pensato a uno sviluppo di tali proporzioni. Un altro viaggio particolare fu quando Michel Riesen nel 1997 fu draftato al primo turno da Edmonton, era una prima storica per l’hockey rossocrociato, accompagnai il suo patrigno all’evento”.

Qual è stata l’emozione più grande che hai vissuto in tutti gli eventi che hai seguito?
“Correva l’anno 1976, ero in curva quando il Langnau vinse il suo unico titolo di campione svizzero. Era l’ultima partita della stagione contro il Bienne. In caso di vittoria o pareggio saremmo diventati campioni, in caso di sconfitta a festeggiare sarebbero stati i Seeländer. Avevo 19 anni, puoi immaginarti le emozioni, dopo ogni gol dei Tigrotti toglievo la bottiglietta di grappa dalla mia giacca e bevevo un goccio per festeggiare”.

E la delusione più cocente?
“La sconfitta in finale ai Mondali di Copenhagen nel 2018. Se ripenso a quella grande occasione di Fiala durante l’overtime… La Svizzera campione del mondo, ti immagini?”.

Un giornalista può dunque essere tifoso?
“Qualsiasi giornalista che dice di non essere un tifoso non è credibile, non esiste, non è possibile. Ci sarà sempre la gioia per una vittoria o una sconfitta di qualcuno, sono le emozioni, gioia e dolore fanno parte dello sport e noi scriviamo di emozioni. Per poterle scriverle e trasmetterle, devi provarle”.

Un desiderio che vorresti si realizzasse prima della fine della tua carriera professionale?
“Ce ne sarebbero diversi, quindi dico ciò che la gente si aspetta di leggere: vedere ancora una volta il Langnau campione svizzero. Se è realistico? Abramo è diventato padre ancora a 90 anni e ha vissuto per più secoli, quindi chi lo sa…”.

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