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Interviste

Moser: “Etica del lavoro e il giusto focus, il sole e i soldi di Tampa non mi hanno cambiato”

Tra gli aneddoti una sconfitta alla Valascia: “Mancai varie occasioni da gol, e mi dannai l’anima. Rientrati a Bienne andai alla pista in piena notte per lavorare sul mio tiro. Da giovane ho sviluppato delle abitudini ancora preziose”

HERNING – In assenza dell’infortunato Roman Josi, le luci della ribalta nella difesa rossocrociata sono potenzialmente tutte per Janis Moser. L’ex difensore del Bienne oggi ai Tampa Bay Lightning è infatti reduce da una stagione importante, e sul ghiaccio di Herning è atteso ad essere uno degli elementi chiave della Nazionale.

“Lo scorso anno mi era dispiaciuto non poter far parte della selezione che è arrivata fino alla finale. A Praga i miei compagni si erano resi protagonisti di un grande percorso, e questo ha contribuito a creare un ambiente in squadra che è sempre speciale”, ci ha raccontato Moser. “Ogni volta che si torna in questo gruppo ci si sente davvero i benvenuti, quasi come se non si fosse mai lasciato la Nazionale. Non so dirti precisamente cosa rende il tutto così speciale, ma ogni volta ci mettiamo pochissimo a ritornare nel contesto giusto. Questo è un vantaggio perché siamo qui per vincere, vogliamo dare tutto per fare il prossimo passo e arrivare alla medaglia d’oro”.

Nel 2019 la tua convocazione per il Mondiale era arrivata un po’ a sorpresa, oggi invece sei un giocatore NHL e tra i più importanti della Nazionale…
“È proprio vero che il tempo vola. Se mi guardo indietro tante cose sono successe davvero velocemente, ma d’altronde sono passati sei anni ed il mio intento era ovviamente quello di continuare a svilupparmi come giocatore per arrivare ad un buon livello. Sono migliorato e cresciuto in pista, nello spogliatoio e nella vita in generale. Con qualche anno in più d’esperienza alcune cose diventano più facili”.

Uno dei tuoi idoli crescendo era Roman Josi, avevi il suo poster in camera e ti ispiravi a lui. In questa edizione invece molti guardano a te per essere uno dei fari della difesa…
“Lo considero tutt’oggi un esempio da seguire. È un giocatore eccezionale, ed infatti ancora ora osservo alcune parti del suo gioco, anche se lo faccio con l’ottica di prendere queste informazioni come una sorta di input per poi adattarle al mio stile. Non posso semplicemente cercare di imitarlo, è un giocatore diverso rispetto a me, anche a livello fisico. Come ispirazione però è sicuramente un mio riferimento, e nel gioco che ho sviluppato si possono ritrovare alcuni suoi tratti distintivi, anche se possiamo dire che mi baso su punti di forza diversi che mi stanno portando sul mio personale sentiero”.

Parli del tuo fisico, il fatto che tu fossi molto magro da giovane con il senno di poi ti è stato utile? Hai dovuto lavorare di più e sviluppare una grande intelligenza per compensare…
“È successo proprio così. Specialmente quando avevo 14-15 anni ero davvero magro, e di conseguenza non ero mai nelle condizioni di vincere una battaglia oppure uscire da una situazione difficile grazie al fisico, dunque mi toccava usare il cervello. Questo mi ha abituato a trovare diverse soluzioni. In una posizione del genere sviluppi inoltre un’etica del lavoro imprescindibile per restare al livello degli altri ragazzi, perché praticamente tutti sono sempre stati più grossi e muscolosi di me. Ho sviluppato così delle abitudini che poi una volta cresciuto sono rimaste con me, e questo mi ha permesso di raggiungere un livello più alto del normale”.

C’è un aneddoto che ben riassume la tua etica del lavoro: dopo una partita ad Ambrì in cui avevi mancato diverse occasioni da gol nel finale, una volta rientrati a Bienne a notte fonda sei andato alla pista e ti sei messo a tirare dischi su dischi in porta. È vero?
“Sì, è successo (ride, ndr). Ero giovane e quando non riuscivo a concretizzare delle chiare occasioni da gol, mi dannavo l’anima perché ero consapevole che quei dischi sarebbero dovuti finire in rete. Avremmo dovuto vincere quella partita alla Valascia, ma per colpa mia non era stato così, e a quell’età me l’ero presa molto. Una volta rientrati a Bienne per me era impossibile pensare di andare a dormire, e ho realizzato che non sapevo come gestire quelle emozioni negative. Dovevo dunque fare qualcosa per sfogarmi”.

Questa stagione hai avuto anche la sfida di dover tornare da un infortunio… Nel male, è comunque stata un’esperienza importante?
“Sì, indubbiamente. È stato il mio primo infortunio importante della carriera, in cui sono stato costretto a rimanere a guardare per un periodo significativo. Se fai il giocatore di hockey la competitività è parte integrante della tua vita, ma quando ti infortuni seriamente all’improvviso non puoi sostanzialmente muoverti, e ti chiedi dove andare a sbattere la testa per trovare la giusta motivazione. Non è semplice alzarti e dare il massimo durante la giornata se sai che comunque poi non potrai giocare. È facile finire in una spirale negativa. Trovare il modo di essere motivato dalla quotidianità è stata la sfida principale che ho incontrato. Con la giusta mentalità cercavo però di interpretare gli allenamenti come se fossero le mie partite. Ho inoltre cercato modi di migliorare il mio gioco, pur in una situazione in cui il mio corpo era “bloccato”. Aspetti come la visione, la presa di decisioni e altro ancora possono beneficiare dall’osservare le partite da fuori”.

Sei passato da una franchigia minore come Arizona a una che ha avuto tanto successo nel recente passato come Tampa Bay…
“Indubbiamente sono due realtà molto distanti. Il modo in cui le due franchigie sono gestite è completamente diverso. A Tampa fanno un lavoro eccezionale nel valorizzare ogni singola persona che fa parte dell’organizzazione, ed in generale c’è molto più seguito ed interesse attorno alla squadra. In Arizona invece sostanzialmente alla gente importava poco dei Coyotes, mentre i Lightning fanno un grande lavoro anche nel dare qualcosa indietro all’intera comunità. Questo contribuisce ad aumentare l’interesse”.

Il tuo arrivo a Tampa Bay era passato da un trade, con i Lightning che avevano acquisito i tuoi diritti scambiando un difensore di rilievo come Sergachev. Il fatto che ti volessero in maniera così convinta è stato importante per te?
“Sì, mi ha fatto sentire bene avere la consapevolezza che il club avesse pagato un prezzo rilevante per arrivare al mio ingaggio. Poi è chiaro, il mercato in NHL funziona in una maniera che ti lascia poco controllo, ed avere un feeling positivo quando capitano questo genere di operazioni non è scontato. Poi però cerchi subito di concentrarti su altri aspetti, nel mio caso principalmente con l’intento di ripagare la fiducia ricevuta. Per me era importante giocare bene e convincere i Lightning che la decisione che avevano preso era quella giusta”.

Sinora sei inoltre finito sempre in posti caldi… Ti piacerebbe vivere altri contesti in futuro, magari una franchigia canadese?
“No, va benissimo così (ride, ndr). Vivere a Tampa è perfetto!”.

Con la firma a Tampa è arrivato anche un contratto di diversi milioni di dollari. Il tuo approccio con il denaro e la vita in generale è cambiato?
“Sì e no. Ovviamente è un fatto importante che va gestito, e non nascondo che in alcune situazioni i soldi non rappresentano più una priorità oppure una preoccupazione come poteva essere in passato. Ma credo sia sempre importante avere un controllo, e tenere sempre ben presente quali sono le cose davvero importanti nella vita. Certo di mantenere il mio tenore di vita piuttosto normale, e non lasciarmi distrarre dal conto in banca. Le cose possono andare molto velocemente, ti ritrovi con tanti soldi e pensi di poter fare tutto ciò che ti passa per la mente, ma poi la tua concentrazione va a farsi benedire e non è più sulle cose importanti. Poi è chiaro, se hai tanti soldi alcune cose diventano più facili, ma mi sono anche reso conto che ciò che davvero è importante nella vita non costa molto”.

Una distrazione può però essere la stessa Tampa. È sempre bel tempo, c’è il mare. Uno potrebbe sentirsi costantemente in vacanza…
“Sì, non è evidente! A volte è effettivamente semplice farsi prendere dalle distrazioni, perché a Tampa ci sono davvero tante cose divertenti da fare e hai sempre il mare a un passo. Ci sono delle giornate che se vivi in Florida fanno parte della normale quotidianità, ma invece quando ero bambino e viaggiavo con i miei genitori quelle erano considerate mete di una vacanza importante. Ma d’altro canto ci possono essere dei benefici, perché ti basta avere un giorno libero per prenderti sostanzialmente una piccola vacanza e staccare da tutto… Non ti ritrovi in posti che a volte sono grigi e piovosi come possono essere New York o Montreal. La Florida ti lascia respirare di più”.

Con Arizona avevi giocato anche quella particolare stagione in cui si sapeva che il club stava arrivando al capolinea, il tutto in un contesto particolare di un’arena universitaria. Come è stato?
“Devo ammettere che la pista non era male, ma semplicemente troppo piccola per una lega come la NHL. Era però stata costruita di recente, dunque non abbiamo avuto troppe difficoltà nel giocare una stagione in quel contesto, mentre per quanto riguarda la situazione societaria mi ricordo che c’erano state tante discussioni ad inizio stagione, ma poi la cosa era un po’ scivolata in fondo ai nostri pensieri. C’era sempre qualche rumor che spuntava, a volte ci si chiedeva cosa sarebbe successo, ma poi la stagione è entrata nel vivo e se ne parlava meno. In generale eravamo comunque convinti che anche se ci saremmo dovuti spostare, avremmo avuto un altro anno di tempo per organizzare il tutto, anche perché arrivati a febbraio non se ne parlava più molto. Poi però all’improvviso è arrivata la notizia, ed in sostanza la franchigia si è dovuta spostare nel giro di tre settimane. Quando a noi giocatori è stata comunicata la decisione eravamo ad un paio di settimane dal termine della stagione, e a quel punto è arrivata la consapevolezza di dover fare le valigie con tutte le nostre cose, il tutto comunque con l’incertezza di non sapere bene dove saremmo finiti. Si è poi venuto a sapere che l’intero progetto da parte dei proprietari era stato portato a compimento con la lega in appena sei settimane, dei tempi folli”.

È stato triste vedere una franchigia smettere di esistere così?
“Lo è stato più per noi giocatori, ci trovavamo bene. La città era bella, il tempo era ideale per vivere ed anche in quella zona c’erano davvero tante cose da poter fare nel tempo libero. Non arriverei a dire che lasciare tutto quello fu triste per me, ma comunque spiacevole. Il tutto ha inoltre avuto un impatto sulla gente, la squadra era parte di quella comunità da oltre vent’anni e da un momento all’altro è sparita. È stata una situazione davvero particolare”.

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