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Interviste

Mona: “Ambrì come Montréal, una maglia che ho indossato poco ma il legame resta forte”

L’ex portiere si racconta: “Ho smesso al momento giusto, quando è arrivata un’offerta professionale interessante. La situazione in Ticino? Ambrì e Lugano lavorano bene, è strano non vedere dei portieri ticinesi arrivare in NL”

(Fanny Schertzer)

Gianluca Mona è stato l’ultimo portiere ticinese a essere titolare fisso nella massima lega. Il 45enne da ormai oltre un ventennio risiede in Romandia e continua a seguire l’hockey assiduamente. Oltre a partecipare a volte a delle trasmissioni in qualità di opinionista, lo si incontra spesso nelle varie piste in veste di spettatore. Attivo nell’ambito bancario, lo abbiamo incontrato per parlare un po’ del passato e del presente.

“Gianlu”, ti senti ormai più un romando oppure prevalgono ancora le tue radici ticinesi?
“Da ben 24 anni effettivamente, ovvero più della metà della mia vita, abito in Romandia. Oltretutto sono nato a Zurigo, dove ho vissuto fino ai 9 anni prima di rientrare in Ticino – più svizzero di me si muore (Gianluca ride, ndr). Dentro mi sento comunque sempre ticinese e lo sarò in eterno. La mia famiglia, i miei suoceri abitano tutti in Ticino. Certo che, eccezion fatta per gli amici d’infanzia, le mie amicizie, il mio cerchio e il mio network sono ovviamente più improntati verso la Romandia. A casa però parliamo esclusivamente e rigorosamente italiano, anche con i nostri figli”.

Cosa fai ora professionalmente nella tua vita?
“Da quando ho terminato i miei studi, quindi dal 2005, lavoro nell’ambito bancario. Dal 2010 esercito presso lo stesso istituto – è una banca ginevrina attiva nella gestione patrimoniale – e io lavoro nella sede di Losanna. Mi piace molto questo ramo e adoro la relazione con la clientela, i giorni sono molto variati e l’attività non è ripetitiva”.

Viriamo sull’hockey. Ti manca l’ebbrezza dell’essere in porta?
“Ne parlavo proprio qualche giorno fa con i miei figli e mia moglie. Spessissimo sogno di essere ancora un portiere di qualche squadra e sto giocando. Certo, un po’ l’hockey mi manca. Lo sport, e in particolare il disco su ghiaccio, ti regalano emozioni che trovi in pochi altri lavori. Mi manca soprattutto durante i playoff, quando ci sono le fasi belle intense, quelle serie da 6 o 7 partite con le sfide back to back e la tensione al massimo. Anche il mio lavoro però mi prende tanto, pure lì trovo pressione ed eccitazione e ho decisioni da prendere”.

Il tempo scorre rapidamente. Sembra ieri quando, prima delle partite casalinghe al mitico Saint-Léonard, spuntavi per primo dal dragone friborghese che sputava fuoco sulle note dell’Aida, e invece hai già smesso da 14 anni. Te ne rendi conto?
“In effetti sono tantissimi 14 anni. Il tempo vola, mi sembra ieri o al massimo l’altro ieri che io abbia smesso. Ma è anche giusto così, chissà tra 14 anni dove sarò e come sarò. Ogni fase ha il suo tempo e penso che smettere già a soli 31 anni sia stata la scelta giusta. Ero ancora giovane, vedendo appunto oggi portieri come Genoni che a 37 anni sono ancora a difesa della gabbia. Io volevo avere più tempo per il lavoro e da dedicare alla mia famiglia”.

(HCFG)

Non ti sei veramente mai pentito di aver smesso così presto?
“No, te lo dico in tutta trasparenza. Era davvero il momento giusto e avevo sempre detto che quando sarebbe arrivata a carattere professionale l’offerta buona, quella giusta, avrei smesso. Pensa che annunciai il mio ritiro a febbraio del 2011, la stagione si concluse attorno a fine marzo e a giugno mi arrivò ancora un’offerta dalla LNA. La rifiutai, sebbene sarebbe stato il contratto hockeistico più remunerativo della mia vita”.

Quando ti rechi alle partite c’è ancora gente che ti riconosce e ti chiede una foto o un autografo?
“È sempre bellissimo tornare nei vecchi luoghi dove giocavo. Certo che non invecchio solo io, anche gli spettatori. Ho ancora parecchi amici e conoscenti disseminati un po’ su tutte le piste, succede che qualcuno mi riconosca, ma sempre più di rado. Ormai il tempo passa”.

Quando guardi un match ti concentri prettamente sui portieri, li analizzi, oppure ti godi semplicemente la partita in generale?
“Chiaramente getto uno sguardo un po’ più approfondito su quello che è stato il mio ruolo, d’altronde tutto quello che ruota attorno agli estremi difensori mi appassiona, quindi seguo con un pelino più di attenzione loro. Certo che è bello godersi la partita alla pista con una birra e un bratwurst e, quando non c’è la possibilità, mi godo semplicemente le sfide alla TV”.

Ad Ambrì hai giocato pochissimo, complice il trasferimento a Friborgo per motivi di studio. Ti dispiace, in fin dei conti, di aver indossato così poco il biancoblù?
“Discutevo di recente con amici canadesi. Ambrì è un po’ come Montréal. Quando cresci lì, magari ci giochi anche per poco e poi vai via, resti comunque tifosissimo dei Canadiens. In Leventina è un po’ la stessa cosa. Ho veramente giocato pochissimo con i biancoblù, forse nemmeno una quindicina di partite da titolare. Certo, un po’ mi dispiace, ma ormai era così – ai tempi non c’era l’università in Ticino. Io partii lo stesso anno di Paolo Duca, nel 2001. In famiglia siamo sempre stati tifosi dell’HCAP. I Mona sono attinenti di Quinto e la nostra casa familiare si trova ad Ambrì”.

L’amore verso il biancoblù viene particolarmente incarnato da tuo papà Daniele, ormai storico medico del club. Anche tuo fratello Nicola ha svolto qualche anno in seno alla società in qualità di CEO…
“Il nostro è un virus. Mio babbo non molla, è presente ancora a quasi tutti gli allenamenti e a volte si reca pure in trasferta. Se non erro è il medico dell’Ambrì dal 1980, quindi da ben 45 anni. In fondo è lui che ci ha trasmesso questa passione. Nicola, come hai detto bene, ha avuto una breve parentesi come CEO. Penso che l’amore per l’Ambrì andrà avanti anche con le generazioni future. I miei figli e la figlia di mio fratello sono tifosissimi. Come detto, siamo una famiglia di Ambrì e quindi si può solamente sostenere l’HCAP – è il nostro DNA”.

(Fanny Schartzer)

Non hai mai avuto, durante la tua carriera, la possibilità di tornare a difendere la porta leventinese?
“Ci furono dei contatti quando ero a Losanna, a quell’epoca era JJ Aeschlimann il direttore sportivo dell’Ambrì. Ci fu un’offerta, ma niente di serio, era stata fatta tanto per farla”.

Fa più male la serie di finale del 2008 con il Ginevra persa per 4-2 contro lo Zurigo, oppure la serie di spareggio tra il tuo Losanna e il Bienne persa con il punteggio di 4-3 nel 2010?
“Sai che me lo chiedo ancora oggi. Se potessi rigiocare una di queste due sfide non saprei quale scegliere. È vero che in seguito il Ginevra è finalmente riuscito a vincere il titolo e il Losanna ha centrato la promozione, ma il mio dubbio rimane. Mi chiedo sempre quale sarebbe stato l’impatto più grande, dove si sarebbe festeggiato maggiormente. In entrambe le serie eravamo gli underdog. Mi ricordo ancora la sesta gara all’Hallenstadion. Avevamo scagliato pochissimi tiri in porta, lo ZSC ci aveva praticamente sempre messo sotto pressione. Al supplementare facemmo tipo 12 liberazioni vietate e alla fine capitolammo ai rigori. Per quanto riguarda lo spareggio, a condannarci fu una rete del povero Kevin Lötscher a circa tre minuti dal 60’. Io comunque di base sono sempre uno positivo, di rammarichi non ce ne sono. Avevamo dato tutto, semplicemente gli avversari erano stati più bravi e più forti di noi”.

Hai giocato per Friborgo, Ginevra e Losanna. C’è una società delle tre alla quale sei più legato e perché?
“Il legame è all’incirca lo stesso direi. Ovviamente, abitando nei pressi di Losanna, il LHC è quello che vado a vedere maggiormente, mentre il Friborgo è il club dove ho militato più a lungo, per 5 stagioni. Attualmente forse la squadra con cui ho un po’ meno contatti è il Ginevra. La persona che mi lega ancora parecchio alle Aquile è in sostanza Jimmy, il mitico responsabile del materiale. Il tempo, come detto, passa, le persone cambiano, ormai non c’è più nemmeno McSorley già da diversi anni. Seguo comunque regolarmente anche i match del Ginevra”.

Nell’era moderna, dall’introduzione dei playoff ormai quasi 40 anni fa, ci sono stati solamente due portieri ticinesi regolarmente titolari nella massima lega (Merzlikins e Genoni non li consideriamo ticinesi, ndr). Tu e Pauli Jaks. Questa statistica fa senso e un po’ rattrista. Come te la spieghi?
“È veramente un numero esiguo. La cosa curiosa e interessante è che oltretutto sia Pauli che il sottoscritto impugnavano il bastone con la mano sinistra. Non so bene cosa dirti, è un peccato e non so nemmeno dirti un motivo, anche perché sia Lugano che Ambrì lavorano bene sulla formazione dei portieri. Speriamo di vederne presto nuovamente uno. A Lugano so che, ad esempio, c’è il 16enne Yannis Zambelli – lui gioca nella Nazionale U17. Certo che fa veramente strano, hai detto bene: il Ticino è un cantone di hockey, ma fatica a produrre estremi difensori che riescono poi a stabilirsi in National League”.

A proposito di formazione, tu sei impegnato nella scuola per estremi difensori di Sébastien Beaulieu, storico preparatore dei portieri granata…
“La fondammo con Sébastien una quindicina di anni fa, lui era appunto il mio allenatore. Io sono membro del CDA e adesso svolgo solo questa mansione. A livello di daily business non faccio più nulla, all’inizio invece partecipavo per esempio ai campi di allenamento estivi a Leysin. Tutto va molto veloce, per insegnare devi stare al passo con i tempi, devi evolverti, seguire a tua volta dei corsi. Io con il mio lavoro non ho più avuto tempo per queste attività. Certo che magari, se ci fosse stata un’accademia simile in Ticino, forse sì che avremmo avuto qualche portiere in più”.

Prima di lasciarti andare, ti chiediamo se c’è un portiere attualmente in cui ti rivedi e che ti assomiglia…
“Grazie a Dio non ce ne sono, sarebbe un problema per quell’estremo difensore (Gianluca ride, ndr). In generale mi piacciono i portieri grandi, come me. Uno che seguo molto – ma, intendiamoci, stazza a parte non ci assomigliamo per nulla – è Stéphane Charlin. Lui esce dalla scuola di Beaulieu. La sua progressione mi ha impressionato molto, ha una calma storica quando è tra i pali ed è ancora molto giovane. Sono contento che rimarrà ancora in Svizzera per un altro anno, così potremo ancora ammirarlo e studiarlo”.

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