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Interviste

Douay: “L’affetto dei tifosi dell’Ambrì mi ha toccato, ho dato tutto senza imbrogliare”

L’ex biancoblù ci racconta il suo viaggio in Nepal: “Cercavo qualcosa di speciale per festeggiare i 30 anni. È stata un’esperienza unica, anche a livello umano. Il ritorno a Losanna? In squadra mancava una figura come la mia”

(Dalideo Photograph)

Floran Douay è ormai da un decennio uno dei guerrieri delle nostre superfici ghiacciate. Il 30enne francese, reduce da un’esperienza biennale in Leventina, è molto apprezzato per la sua generosità, il suo coraggio e il suo spirito di sacrificio. Check-à-gogo, ottima presenza fisica nello slot e un grande cuore: queste sono le sue caratteristiche e le sue qualità. “Flo” non è certo un abbonato alle interviste, è dunque l’ora di conoscerlo un po’ meglio.

Floran, sei reduce da un viaggio molto particolare nella zona del Tibet, dove ti abbiamo visto in versione Reinhold Messner. Solitamente siamo abituati a vedere gli hockeisti in riva a spiagge più o meno esotiche oppure giocare a golf durante le vacanze primaverili o estive…
“Sono stato in Nepal, per essere esatti. Ho fatto questo viaggio con i miei due migliori amici di Francia, al fine di festeggiare i nostri 30 anni. Desideravamo fare qualcosa di speciale, che ci rimanesse impresso nella memoria per tutta la vita. All’inizio volevamo un tour nella West Coast degli Stati Uniti, toccando ad esempio Las Vegas. Poi abbiamo riflettuto e capito che non sarebbe stato così particolare: non volevamo solo fare festa, ma goderci il tempo, ricevere qualcosa dal quotidiano, avere un contatto umano. L’Himalaya mi ha sempre attirato, da tempo volevo fare un trekking tra queste montagne e incontrare la gente del posto. È stata un’esperienza unica, abbiamo anche portato dei regali ai ragazzi in loco, recentemente colpiti da un terremoto. È stata un’esperienza umana fantastica: per esempio, uno dei miei amici aveva con sé un apparecchio fotografico dotato di una mini stampante. Per alcune persone del posto, specialmente i più anziani, era qualcosa di nuovo, non avevano mai visto niente del genere e vedere i loro occhi pieni di entusiasmo è stato magnifico e adorabile. Certo che è stato duro e faticoso, camminavamo dalle sei alle otto ore al giorno e abbiamo raggiunto altitudini attorno ai 5’500 metri”.

Per uno che è nato ai piedi del Monte Bianco non è in fondo poi così sorprendente. Qual è il tuo rapporto con questa montagna, l’hai già scalata?
“E così, praticamente il Monte Bianco mi ha accompagnato sin dalla nascita e l’ho sempre visto. Più in generale adoro le montagne, sia in estate che in inverno, ma da giovanissimo non mi sono mai interessato molto a loro. Invecchiando invece è nata questa mia passione, seguo anche tanti documentari dedicati all’alpinismo. Mi piace camminare in particolar modo, anche se quando iniziano a diventare cime serie e il pericolo aumenta non fa troppo per me, sono uno che preferisce i trekking all’alpinismo. Sul Monte Bianco non ci sono mai salito, ma devo ammettere che è comunque nella mia lista delle cose da fare. Certo che è una tipologia di cosa differente rispetto a quanto fatto in Nepal, la neve lì arriva solamente a partire circa dai 6’000 metri, quindi una scalata del Monte Bianco è decisamente più pericolosa”.

(Dalideo Photograph)

Sei cresciuto nell’incantevole Megève, rinomata località turistica. Com’è stata la tua gioventù?
“Molto bella, è un privilegio diventare grande in questo posto. I miei genitori provengono dal nord della Francia, c’è solo pianura, è tutto dunque un po’ più triste, c’è meno da fare, sebbene le persone siano molto cordiali e gentili. A Megève c’è invece l’imbarazzo della scelta, ho sempre potuto praticare tanti sport come in particolar modo lo sci, il nuoto, il calcio, il badminton e ovviamente l’hockey. È una cittadina insomma a misura d’uomo e sono cresciuto con tanti cari amici al mio fianco”.

A soli 12-13 anni ti sei poi avventurato in quel di Ginevra per gettare le basi alla tua carriera hockeistica…
“Fino all’età di 17 anni facevo la spola tra Megève e Ginevra. Non fu facile, visto che tra andata e ritorno era un tragitto di oltre due ore. Oltretutto mia mamma lavorava ad Annecy e mio papà ad Albertville, quindi per loro si aggiungeva un’ulteriore ora di percorso. Partivamo dopo la scuola e rientravamo tra le ore 21 e le 22. Io facevo i compiti in auto. Insomma fu un periodo duro e faticoso, un po’ per tutti, specialmente per i miei genitori, ma avevano visto e captato il mio sogno e vedevano che ero felice di poter giocare a hockey. In seguito a 17 anni mi trasferii presso una famiglia e poi tre anni più tardi, quando firmai il mio primo contratto da professionista a Ginevra, presi un appartamento”.

Da lì via di strada ne hai fatta parecchia, hai giocato in Romandia, in svizzera tedesca e in Ticino. Ormai sei pronto per acquisire la cittadinanza svizzera?
“Di esperienze ne ho maturate parecchie, anche se all’inizio restai per diverse stagioni a Ginevra. In seguito andai a Losanna, non finì benissimo, decidemmo di rompere il contratto e mi accasai a Langnau. Nell’Emmental rimasi solamente sette mesi, ma fu un periodo bellissimo, nonostante qualche difficoltà iniziale legata alla lingua. Infine in Ticino ho potuto scoprire una bellissima ragione. Mi piacerebbe diventare elvetico, ormai mi sento anche svizzero, ho praticamente vissuto più in Svizzera che in Francia. Risiedo nella Confederazione da più di 10 anni, ma la legge cambia da cantone a cantone. Ad esempio se abiti in Ticino devi viverci almeno 5 anni prima di poter richiedere la cittadinanza, nel canton Vaud invece ne bastano 2 o 3. Se dovessi restare più a lungo a Losanna vorrei quindi avviare le pratiche di naturalizzazione”.

Andiamo al presente. Penso che gli ultimi mesi a livello sportivo non siano stati facili per te. Sei stato tagliato dalla tua Nazionale durante la preparazione ai Mondiali e sino a settimana scorsa eri senza squadra…
“Non sono stati facili, ma nemmeno così duri. Ho sempre avuto contatti con altre squadre, mi sono preso il mio tempo e aspettavo anche di vedere se ad Ambrì sarebbe successo qualcosa. Ho pensato anche ad altre cose, ho cercato di prendere gli aspetti positivi, il viaggio in Nepal in questo senso è stato utile, sono sempre rimasto fiducioso. Per quanto riguarda i Mondiali, effettivamente non ero pronto a un simile taglio, pensavo di poter dare il mio contributo, ma questa è stata la scelta dell’allenatore. Ci sono cose che non puoi controllare. C’è anche da dire che il mio finale di stagione è stato pure complicato, non giocavo moltissimo, sapevo che mi mancavano minuti di partita nella gambe, malgrado i duri allenamenti”.

Oltre a ciò la tua Francia è pure stata un po’ a sorpresa relegata…
“È sempre una delusione quando si viene retrocessi. Ho seguito un po’ la rassegna iridata alla televisione, la relegazione mi ha reso molto triste. Da anni si combatte per non retrocedere, a volte la dura legge dello sport è anche questa. Ora si farà di tutto per tornare il più presto possibile nell’élite. Hockeisticamente non siamo certo tra la nazioni migliori, ma siamo dei combattenti e abbiamo tanto cuore”.

Al più tardi nel 2028 la Francia sarà comunque di nuovo nella massima divisione, visto che i Mondiali si svolgeranno a Parigi e Lione. Tu avrai 33 anni, parteciparvi è una specie di tuo “ultimo” obiettivo?
“Assolutamente sì, partecipai già a quelli del 2017 a Parigi, fu qualcosa di incredibilmente fantastico. In una carriera ci sono gli obiettivi a corto e a lungo termine. Questo entra nella seconda categoria. Nella prima invece infilo il fatto di fare bene a Losanna, un club ambizioso che punta a vincere il titolo e le Olimpiadi del 2026 a Milano dove vorrei essere presente”.

Quelle due settimane trascorse a Parigi furono l’esperienza hockeistica più bella della tua vita?
“Certo, e di gran lunga. Ero giovane, al mio primo Mondiale, non conoscevo ancora il livello internazionale. Fu tutto incredibile, un paese come la Francia che organizza un simile evento, oltretutto a Parigi. Giocavo davanti alla mia famiglia, c’erano i miei amici. Sai che me ne rendo conto più adesso di quanto fosse immensa questa esperienza rispetto al passato? A quei tempi ero semplicemente un giovane affamato che non captava ancora pienamente cosa accadeva”.

Nella tua carriera non hai mai vinto nulla, ti stressa questo?
“Guarda che nei Moskito Top un titolo l’ho conquistato (Douay ride ndr). Scherzi a parte, non mi stressa, più che altro è frustrante. Qualsiasi sportivo, ogni hockeista, sogna di vincere il titolo. Ho amici che hanno alzato la Coppa, lì si vedono e si vivono grandissime emozioni. Tu ti alleni, fai sacrifici, ti svegli quotidianamente, fai la preparazione estiva per arrivare a ciò. Non è tanto il fatto di conquistare il trofeo, bensì di arrivare sino in fondo e vincere con un gruppo con cui si ha lavorato tutti insieme per un anno o magari oltre. Questo tipo di mestiere lo fai per vivere certe cose. Un derby tra Ambrì e Lugano per esempio ti dà tantissima adrenalina, immense emozioni, ma vince il titolo deve essere ancora qualcosa di più grande”.

La firma con il Losanna potrebbe aiutarti a finalmente coronare questo sogno. Certo che fa piacere quando una delle squadre più forti del campionato e reduce da due finali pensa a te…
“Sì, è così. Discutevamo da parecchio tempo, avevo appunto già giocato per due anni nelle fila dei vodesi a mi era piaciuta molto come avventura, anche se questa prima tappa non terminò benissimo. I dirigenti del Losanna mi hanno fatto capire e intendere di sapere che tipo di giocatore sono e che di questa tipologia non ce ne siano tanti. Da quello che ho captato mancava qualche figura simile alla mia all’interno della squadra. Ringrazio per la fiducia e non vedo l’ora d’iniziare questo nuovo capitolo”.

Ad Ambrì hai faticato a ritagliarti un posto importante all’interno del line-up, ma i fans biancoblù ti hanno amato molto e in diversi sono tristi a causa della tua partenza. Io credo che questo amore e rispetto sia legato al fatto che tu sia uno che non ha mai imbrogliato…
“Sono d’accordo. Io non ho mai imbrogliato in vita mia. Già da bimbo, magari avevo meno talento di altri, ma ho sempre lavorato duro. Sono stato educato così. Mia mamma diceva sempre che fino a quando non vomitavo, avevo ancora forze e qualcosa da dare sul ghiaccio. Io non mi nascondo mai, avrei voluto maggior spazio ad Ambrì, ho sempre cercato di dare tutto quello che avevo, pattinare duro e dare il mio cuore. L’affetto dei tifosi mi ha veramente toccato, non sono restato a lungo nel club leventinese, ma lo adoro. I fans sono un unicum, Anche dopo le partite ricevevo sempre molti complimenti. Pure all’inizio, quando magari non era così evidente comprendersi per motivi linguistici, sentivo il sostengo, non ho mai vissuto nulla del genere. Non sono uno che mette 50 reti a stagione, ma mi sacrifico e combatto. Penso che la gente biancoblù un pochettino si riveda in me”.

Prima di lasciarti andare diamo uno sguardo al dopo hockey. Sei laureato in economia, il tuo futuro sarà in quell’ambito?
“Le cifre e la matematica mi sono sempre piaciute, mi appassiona questo mondo, anche nell’hockey. Avere a che fare con i soldi, l’aspetto finanziario delle società e tutto quello che ruota attorno sono temi e aspetti che m’interessano molto. Attualmente punto a questo, restare nell’ambito sportivo, ma non per curare aspetti legati al gioco o allo sport, bensì appunto per lavorare nel campo delle finanze”.

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