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Cadieux: “Ai Rockets ognuno scrive la propria storia, ma nulla va regalato”

L’affamato coach dei Ticino Rockets si racconta tra sogni, destini cambiati, il “suo” Lugano e una sfida particolare lanciata al padre Paul-André Cadieux

BIASCA – In testa c’è qualche capello grigio in più, ma sul viso c’è ancora lo stesso sorriso da ragazzino che lo ha sempre contraddistinto. Un’energica stretta di mano con un deciso “Ciao ragazzi!” e l’immediata empatia con cui si presenta Jan Cadieux dopo aver diretto la sessione mattutina di allenamento, fanno capire che poco è cambiato da quando era un giocatore, tanto che qualcuno, non riconoscendolo, potrebbe scambiarlo per uno dei suoi ragazzi.

Ben 14 anni dopo l’esperienza a Lugano Cadieux si ripresenta in Ticino in veste di allenatore dei Ticino Rockets, e l’occasione di tornare a sud del Gottardo lo ha subito entusiasmato: “In Ticino sto benissimo, l’ho sempre detto, e per me è un posto speciale perché vi ho conosciuto mia moglie. Inoltre amo la mentalità della gente e l’amore che i ticinesi hanno per lo sport”.

Jan Cadieux, allora anche l’ottimo italiano con cui ti esprimi è merito di tua moglie…
“Sì è anche merito suo. Diciamo che non l’ho parlato molto in questi anni via dal Ticino, dovendo lavorare in francese, tedesco e inglese, ma nelle ultime settimane mi sono impegnato a impararlo di nuovo per potermi esprimere in maniera ottimale anche con i miei ragazzi”.

Per te, come per molti dei tuoi ragazzi, questa sarà la prima esperienza in lega nazionale; rispetto a quando allenavi le formazioni giovanili hai cambiato il tuo approccio alla squadra?
“È una questione di adattamento, il cambio da juniori a lega nazionale c’è sicuramente, ma molti dei miei giocatori provengono dagli élite e in loro c’è ancora questa mentalità. Il fatto che sia una squadra così giovane avvantaggia anche me nel cambiamento, ma il passo in avanti resta evidente e bisogna lavorare su tanti piccoli aspetti, come la comunicazione con i giocatori. È una bella sfida, ma finora è andato tutto bene”.

Quando eri uno di questi giovani giocatori i farm team non esistevano e dal Canada sei approdato a Lugano, che a quei tempi era una piazza molto difficile. Il fatto che oggi esistano organizzazioni come i Rockets e altre realtà simili in LNB è un bel cambiamento…
“Quando scelsi Lugano probabilmente feci un errore, arrivai in una squadra con tantissimi attaccanti di talento e non era facile ritagliarsi un posto, soprattutto all’inizio della mia carriera. Non c’erano discussioni, se non c’era posto non giocavi, punto e basta, mentre oggi per un giovane ci sono progetti di sviluppo bellissimi come i Ticino Rockets. Credo fermamente in quello che si sta facendo qui a Biasca e penso che i Rockets assieme alla EVZ Academy dello Zugo si siano portati qualche passo avanti rispetto ad altri club, perché i giovani per arrivare in NLA hanno bisogno di qualche anno di apprendistato e queste organizzazioni sono l’ideale per aiutarli nel loro sviluppo. Diamo ai giovani la possibilità che meritano, questo è molto bello”.

Qualcuno dei giovani che riuscivano ad emergere in quel Lugano comunque calza ancora i pattini, come Julien Vauclair e Raffaele Sannitz…
“Sì, effettivamente è stato un po’ strano per me affrontarli martedì sera qui a Biasca, e quando Raffaele mi ha visto ha fatto un gran sorriso, mentre Julien è passato a trovarmi nel mio ufficio dopo la partita. Questo mi fa pensare che tutti noi abbiamo una storia alle spalle ma anche un destino e un’altra storia da scrivere. Ho sempre pensato che il mio futuro fosse quello di continuare a giocare fino a 40 anni come tutti vorrebbero, ma alla fine ho dovuto smettere prima di altri. Questo però mi ha dato l’opportunità di cambiare percorso e di diventare subito allenatore, e anche se la vita ha cambiato i miei piani, ho avuto subito l’occasione di fare un passo avanti.”

Quando si pensa a un Cadieux allenatore, ovviamente il pensiero va a tuo padre Paul-André, leggenda della panchina, campione con il Berna e allenatore del Gottéron dei russi, per una carriera durata 40 anni. Quanto c’è di suo nella tua scelta di smettere di giocare e fare l’allenatore?
“Sinceramente non ha pesato sulle mie decisioni, ma è ovviamente una domanda che mi pongono spesso, già quando ero giocatore, pensando che avessi iniziato a giocare spinto da mio padre senza avere altra scelta. In verità vi svelo che da bambino non amavo affatto l’hockey, e per un mese dopo il mio inizio da giocatore non sono più voluto tornare alla pista. Mio padre non mi ha forzato in alcun modo, mi ha sempre lasciato libera scelta se continuare o meno, ma poi piano piano mi è tornata la voglia ed ho cominciato ad apprezzare questo sport sempre di più, soprattutto tutte quelle piccole cose al di fuori del ghiaccio che all’inizio non vedevo. Oggi queste cose mi fanno apprezzare ciò che faccio come allenatore e posso dire di amare l’hockey anche più di quanto lo amassi da giocatore. A mio padre l’ho detto ultimamente: magari sarà pure stato un giocatore migliore di me, ma io farò di tutto per essere un allenatore migliore di lui!”.

La passione che metti come allenatore l’abbiamo vista nella sessione appena terminata… Sei un vero “martello”. È giusto pretendere tutto da questi ragazzi che sono a un bivio della loro carriera e della loro vita…
“I ragazzi che alleno sono responsabili del loro sviluppo personale e della storia che vogliono scrivere, io come allenatore posso essere duro e dargli tutto l’aiuto che posso, ma se vogliono fare questo passo la scelta è loro e devono pagarne il prezzo. A me personalmente fa male vedere un giovane con il potenziale per fare il salto in avanti mancare la grinta o la voglia di fare le cose necessarie, quindi anche noi dobbiamo dare tutto per spronarli, perché alla fine della stagione ci si possa guardare negli occhi sapendo di avere fatto tutto il possibile comunque sia andata. Io ci tengo a dare tutto per loro, so che a volte posso sembrare un po’ “estremo”, ma è il mio lavoro e fa parte del mio carattere”.

Il paradosso di un allenatore formatore è quello di dover ricostruire una squadra di anno in anno se arriva il successo. Da Cereda erediti una squadra che ha perso diversi giocatori che sono riusciti a fare il salto in prima squadra ad Ambrì e Lugano, e questo diventa una lunga catena senza fine e molto dura da tirare ogni stagione…
“È il bello di questo lavoro, iniziare ogni volta da zero con una squadra praticamente nuova, ed è una delle ragioni per cui ho accettato questa sfida nonostante avessi ancora due anni di contratto a Friborgo in un’ottima posizione e con molta libertà di manovra nel club. In fondo ho fatto lo stesso percorso dei giocatori che vogliono avere successo, sono uscito dalla mia “comfort zone” e questo concetto lo ripeto sempre ai miei ragazzi. È una sfida che mi aiuta a migliorare, di conseguenza potrò aiutare meglio i giocatori nel loro percorso”.

Arrivando al presente e all’hockey giocato, avete appena affrontato Ambrì e Lugano nelle vostre prime amichevoli… Come hai visto la squadra?
“Ho visto la cosa più importante nei miei ragazzi, hanno una grande fame e tantissima voglia di andare sul ghiaccio. Io ripeto sempre che per essere al 100% ogni giorno bisogna esserlo soprattutto a livello mentale, bisogna essere pronti a dare tutto ogni volta che si va in pista. Per quanto riguarda le due partite, ho visto l’hockey che volevo, i giocatori hanno dato tutto, e contro due squadre di massima serie abbiamo fatto piuttosto bene soprattutto a livello fisico e ora ci sono tutte le piccole cose da migliorare individualmente, ma di come si sono mossi da squadra sono contento”.

Avete una rosa “allargata” da giocatori in prova, come Robin Fuchs (fratello di Jason, ndr) e Vladislav Zorin, in passato già nelle giovanili del Lugano…
“Ad oggi il progetto prosegue nella ricerca del massimo numero di giocatori per costruire la nostra squadra. Sappiamo benissimo che ad Ambrì e a Lugano ci sono elementi che potrebbero unirsi a noi, ma è importante che rimangano a disposizione delle due squadre, quindi è fondamentale che qui a Biasca si costruisca una rosa abbastanza ampia da coprire assenti e infortunati e soprattutto per creare concorrenza interna, perché anche la maglia dei Rockets non deve essere un regalo. Questi giocatori erano liberi e sono qui per un try-out. Zorin per esempio, oltre alla concorrenza può portare quel pizzico di esperienza in più che serve per lo sviluppo dei ragazzi”.

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