Con quel titolo vogliamo provocare un po’, ma forse nemmeno troppo conoscendo i “sentimentalismi” e il calore del tifoso svizzero medio. Forse però lo facciamo anche per calarci nella mentalità e nella mente del canadese che ha appena preso in mano la panchina del Lugano.
Perché sono pochi gli sportivi che in Svizzera hanno saputo dividere opinione pubblica e addetti ai lavori come Chris McSorley. C’è chi lo considera una sorta di Guru, chi semplicemente un “furbone”, chi lo odia e chi lo stima aldilà di tutto. È un personaggio che fa parlare, per i modi focosi di stare in panchina a cui ci ha abituati per venti anni, nascondendo l’indole pacifica e signorile che ha riservato a pochi nell’ambiente, mostrandola più che altro nelle mixed zone davanti ai microfoni e alle telecamere e nei suoi abituali colloqui privati con i giocatori.
Sul ghiaccio no, animosità, passione estrema, gesti anche “sporchi” e non sempre apprezzabili e di cui forse oggi rivedendoli non andrebbe molto fiero, ma che con il tempo ha limato ed eliminato dal suo ordine del giorno. È questo il personaggio Chris McSorley, quello che emerge dinnanzi al pubblico, ma poi esiste anche il tecnico Chris McSorley, preparato, fine calcolatore, scout ad ampissimo raggio, manager scafato, pilastro aziendale e aziendalista.
E fine stratega, di tattica e studio dell’avversario.
C’è chi lo considera un vero maestro in questo campo, tra i migliori in Europa, un maniaco del video coaching e dello studio delle strategie avversarie, tanto che ad inizio carriera distribuiva ai suoi giocatori fascicoli sulle squadre da affrontare, sottoponendoli a veri e propri esami sulle loro conoscenze, e i suoi file sugli avversari lo accompagnano ancora oggi.
Preparazione estrema, concentrazione, determinazione e disponibilità al dolore, tutto per un’etica del lavoro che il canadese si porta dietro fin da bambino, quando i suoi genitori gli insegnavano il mestiere di agricoltore nell’azienda di famiglia poco fuori Hamilton, per andare in fattoria a spostare balle di fieno e biada per gli animali dopo la scuola fino a sera inoltrata.
I giocatori scelti da McSorley devono essere pronti a tutto come in una vera famiglia contadina, vengono valutati in una sua speciale tabella di valori, quindi il coach sceglie la squadra perfetta da mandare in pista. C’è chi lo detesta per queste sue manie, chi invece stima la sua idea di squadra disciplinata e capace di formare uno zoccolo duro e un ambiente di lavoro che garantiscono stabilità sulla base di molti anni e che si dota di un’impronta precisa, se non vogliamo parlare della più familiare “identità” tanto cara in Ticino.
Ma occorre parlare anche dello scouting, della sua infinita rete di contatti ramificata soprattutto in Nord America, capace di portare stranieri di alto livello, giovani talenti e di scovare giocatori dal doppio passaporto o dalle licenze svizzere che nessuno conosceva, facendo sbarcare in National League gente come Cody Almond, Dan Fritsche, Eric Walsky, Jeremy Wick e diversi altri ancora, aprendo di fatto una nuova nicchia di mercato.
E poi c’è la sua capacità di identificarsi in un ruolo dirigenziale, di essere parte di un consiglio di amministrazione in parte attiva, sia come finanziatore in prima persona, proprietario e procacciatore di fondi, ruoli che a Ginevra ha ricoperto anche per necessità di budget, esperienze che però lo dotano di una conoscenza a tutto tondo di una società, permettendogli di calarsi alla perfezione nelle dinamiche sia sportive che aziendali.
E come direttore sportivo raramente ha sbagliato quelli che venivano considerati dei colpi, pescando a man bassa su un mercato nordamericano per lui generoso, oltretutto scambiando con più di un avversario dei giocatori sul viale del tramonto di cui solo lui aveva intuito un clamoroso declino, da Thomas Déruns a Dan Fritsche.
Eppure, vedendo sul ghiaccio il Ginevra Servette, a più di un tifoso si storce il naso, soprattutto quello che cerca nell’estetismo anche la via per la vittoria, un intreccio che in pochissimi sono riusciti a far funzionare. Chris McSorley fa giocare la sua squadra come venti anni fa? In parte sì, perché alcuni dei suoi comandamenti sono saldati nella sua mente, e mai la lasceranno per lasciare spazio a fumose teorie o ad affascinanti innovazioni teoriche che tali spesso sono rimaste, e allora a casa chi si aspetta i fuochi d’artificio.
Difesa fisica, dedita soprattutto al primo passaggio e al contenimento, attacco spinto sul forecheck e schemi basilari, ecco le fondamenta. Non solo, anche situazioni speciali studiate in maniera maniacale, con un power play letale ad unità “ibride” che sanno cambiare schema in corsa, oltre a un box play aggressivo, alto al limite dell’incosciente, il primo coach in Svizzera assieme ad Arno Del Curto a predicare che l’inferiorità numerica non è una scusa abbastanza valida per non cercare di segnare.
Negli anni McSorley ha perfezionato uno stile che viene da lontano, quel “High Posting” utilizzato ad Anaheim da Randy Carlyle per vincere la Stanley Cup nel 2007 e ancora oggi opzione molto valida (spesso modulata sui giocatori, ma di base si parte con quello schema) sulle lavagnette di coach come Darryl Sutter, John Hynes o David Quinn e in AHL in generale.
Ma anche in Svizzera c’è più di un coach che lo ha tra le sue alternative o che lo mette in pratica un po’ modificato, come ha fatto ad esempio a volte Greg Ireland a Lugano o Hans Kossmann nel suo periodo a Friborgo, ma pochi lo sanno far rendere come ha reso nel tempo e con giocatori sempre diversi a Ginevra.
Ma perché questo stile di gioco viene spesso bistrattato o considerato superato? Prima di tutto il termine “High Posting” indica la posizione degli attaccanti, appostati alti alla partenza dell’azione. Questo è riferito alle ali, o almeno a quella che in questo caso attende sull’angolo della linea blu offensiva e riceve il disco direttamente dal difensore con un taglio della zona neutra. Successivamente l’ala che riceve il disco fa da sponda per l’inserimento nel terzo del centro e della seconda ala che saltano in velocità i difensori per creare la superiorità numerica nello slot, mentre nel frattempo i due difensori salgono in zona neutra per garantire rapida copertura, spesso aiutati dalla prima ala che rimane meno profonda per un backcheck immediato (wing lock).
Semplice, rapido e sicuro. Certo, sempre facile da descrivere, meno da impostare e da insegnare in movimento. Il passaggio del difensore verso l’ala appostata alta garantisce rapidità nella transizione e abbassa di molto il rischio di un turn over in zone pericolose rispetto a un portatore del disco dalle retrovie, inoltre la velocità di spostamento del disco permette di sovrapporsi in due tocchi al piazzamento avversario. Un sistema prudente ed efficace che ha fatto vittime illustri, soprattutto tra chi pratica un hockey offensivo e basato molto sui portatori del disco e sulle difese a zone. Basti pensare per esempio al Lugano di Patrick Fischer che, impostando in maniera offensiva con un difensore sempre molto alto, ha sofferto e pagato dazio al Ginevra per anni nei playoff.
E quando ha cominciato McSorley a praticare questo sistema? Negli anni 90, quando allenava i Las Vegas Thunder in IHL, quel sistema era molto popolare in Nord America, perché molto efficace soprattutto sulle piste piccole. Poi nel 2001, passato sulla panchina dei britannici London Knights, si trova ad affrontare gli ZSC Lions di Larry Huras in Continental Cup, e dopo averli studiati al microscopio decide di rispolverare il suo vecchio sistema.
Per poco lo scherzo non riesce, i suoi Knights fanno penare i Lions, che all’Hallenstadion piegano gli inglesi solo per 1-0 con una rete in power play, e la squadra di McSorley si piazza al secondo posto nella competizione, fino ad allora il miglior risultato di sempre in campo internazionale per una squadra del Regno Unito.
Ad ogni modo, per far sì che il sistema renda sul serio occorrono giocatori dalle caratteristiche giuste, soprattutto per quel che riguarda i difensori, necessariamente rapidi di mani e di occhi per poter agire con il primo lungo passaggio a tagliare la zona neutra, un esercizio in cui inizialmente eccellevano i vari Brett Hauer, Jamie Heward o Brian Pothier, per arrivare poi a Romain Loeffel, Johann Fransson o Goran Bezina.
Sia chiaro, se non interpretato con continuità e precisione non è comunque un sistema esente da pecche, come ad esempio le sue restrizioni sul piano offensivo, dove la fantasia degli attaccanti viene messa un po’ in ombra sotto la ferrea disciplina dello schema e del backcheck sempre e comunque obbligatorio, e sulle piste grandi non è sempre facile dare rapidità al movimento lungo del disco.
Non è nemmeno un mistero che vedendo giocare il Ginevra con l’High Posting a pochi spettatori sia partito l’applauso spontaneo durante la manovra, ma McSorley non ha mai fatto mistero che per lui lo spettacolo è solo un fronzolo sul risultato, distinguendosi di nuovo in mezzo a chi cerca il successo passando anche dal gioco attrattivo, anche se questo sistema sorprende per la velocità con cui può ribaltare il piano di gioco da un terzo all’altro.
Non bisogna pensare però che il coach canadese sia cementificato su questa sua idea di gioco, passato dietro la scrivania a Les Vernets ha cercato anche lui di dare uno stile diverso alle aquile, prima con Craig Woodcroft e poi con maggior successo lasciando la squadra nelle mani di Patrick Emond, regalandogli una dotazione di talento non da poco, con i vari Winnik, Tömmernes e Omark su tutti.
Può sembrare pure “antiquato”, provocatore al limite dell’eccesso e tutto quello che si vuole, ma ogni cosa che fa è studiata per raggiungere un unico obiettivo, la vittoria. Anche con quei metodi comunque sempre più abbandonati via via negli anni che lo portavano a misurare palette dei bastoni o a fare qualunque gesto potesse destabilizzare gli equilibri e portare all’esaurimento arbitri e avversari.
Si può certamente obiettare che con questi metodi non ha mai vinto nulla, se non due Coppe Spengler, ma quanti saprebbero portare dove ha portato per mano lui stesso una società che a fine anni novanta rischiava il fallimento, facendogli giocare due finali di campionato e cementandola tra le realtà più solide in National League? E senza dimenticare che non è partito certo da piazze come Zurigo, Lugano o Berna, quelle che ai tempi della sua entrata in scena dominavano incontrastate i teatri sportivi e finanziari dell’hockey svizzero.
Tutto questo lo ha fatto però con la sagacia di grande stratega sportivo ed aziendale, un doppio ruolo che in Svizzera solo di nuovo Arno Del Curto ha saputo ricoprire meglio di lui. E lo ha fatto con l’amore di un padre per una tifoseria e per una città che poco dopo la promozione delle aquile ha perso la passione per il calcio, finito in prima lega per le tristi vicissitudini del Servette FC.
La cosa sicura è che con lui i compromessi non esistono e non esisteranno, approdando in una piazza come quella bianconera il suo nome è tornato sulla bocca di tutti tifosi e addetti ai lavori dell’hockey svizzero, sia nel bene che nel male, e il club di Vicky Mantegazza deve prepararsi all’urto.
A Chris McSorley però di piacere alla gente interessa poco o nulla, quel che conta di più per lui è la mentalità con cui si affrontano le sfide. Una sfida che il canadese ha raccolto su un termine temporale di tre anni e qualcuno ha già azzardato paragoni con i famosi tre anni di John Slettvoll, ma proprio l’attuale coach bianconero di scaramanzie non vuole sentire parlare.
Venti anni su una sola panchina, per poi raccoglierne una di soli tre (per ora) su una delle più calde della Svizzera, troppo spesso abituata alla sconfitta negli ultimi tre lustri. Funzionerà? “È chiaro, tutti amano vincere, perché è facilissimo e lo impariamo da bambini, ma il rischio poi è quello di accontentarsi e di perdere passione. Io voglio insegnare a odiare la sconfitta, questo ti distingue nella lotta”.
Questo è essere McSorley.