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The Off-ice: Red Army Down – I giochi di potere e la caduta dell’hockey sovietico

Negli anni 80 i giocatori sovietici vennero attratti da una NHL bisognosa di un cambio di mentalità e, tra prove di forza internazionale, anticiparono la fine dell’hockey di Tikhonov prima ancora della caduta dell’URSS

Storicamente è sempre facile determinare con buona precisione quando sia avvenuta la fine di un certo contesto storico. Ma andando più in fondo e giocando un po’ con le parole, è possibile capire dove posizionare l’inizio della fine di un’era o di un fatto storico la cui “agonia” è durata a lungo nel tempo?

Per esempio, qualcuno ipotizza che l’inizio della fine dello sport sovietico e gestito come tale sia da posizionare in concomitanza con la caduta del Muro di Berlino e la successiva disgregazione dell’URSS. Altri invece mettono la partenza temporale un po’ più indietro, già prima della metà degli anni 80, in particolare quando la NHL fu la prima federazione sportiva di rilevanza mondiale ad aprire agli atleti sovietici, con quindi l’hockey russo ad inciampare per primo e a trascinare dietro gran parte del gruppo.

Occorre però contestualizzare quel periodo. In quegli anni la NHL è nel pieno dell’era di Wayne Gretzky, ma i successi di The Great One non fanno che nascondere i problemi di molte franchigie, che perdono sempre più soldi in assenza di tetti salariali e vedono partire grosse fette di un pubblico disinteressato a un hockey che sta diventando molto fisico e sempre più popolato da enforcer che puntualmente rendono le partite dei veri e propri ring di pugilato.

I vertici della NHL, nella persona del commissario John Ziegler, comprendono il problema e di fronte anche a una mancanza di ricambi indigeni sul corto periodo guardano per la prima volta ai tecnicissimi e veloci giocatori sovietici visti alle Summit Series e in seguito nelle Canada Cup, giocatori che avevano impressionato per il talento cristallino.

Gli ostacoli però non sono pochi, il periodo lo conosciamo bene, la Guerra Fredda è nel pieno della fibrillazione, e i rapporti con l’Unione Sovietica rimangono tesissimi, nonostante qualche apertura – anche forzata e decisamente poco spontanea – vista proprio nelle Summit Series giocate sui due continenti contrapposti.

Dall’altra parte della cortina a capo di tutto il movimento c’è il leggendario Colonnello Viktor Tikhonov, che ovviamente a sentire parlare di NHL con le mani su giocatori sovietici non reagisce bene. Contromisure? Il sistema di propaganda sovietico ovviamente, quel “Glasnost” che si rivelerà però idealisticamente antiquato e non più capace di fare breccia in mentalità ormai più aperte ed assuefatte, un sistema che insomma non ha più alcun effetto su diversi sportivi professionisti che come moltissimi giovani comuni sognano le brillanti luci dei palcoscenici e i divertimenti fuori dai patri confini.

La strategia personale di Tikhonov risulta però strana e pure rischiosissima, con il colonnello che di fronte ai primi contatti e ai draft della NHL si dimostra più aperto di quello che è effettivamente – almeno in pubblico e sempre per la finta preservazione delle relazioni politiche – e di fatto schiaccia involontariamente il pulsante di partenza per i primi esodi oltreoceano.

© NHL.com

In realtà qualcuno aveva già fatto capolino in Nord America, quel Viktor Nechayev che sposando una statunitense ottiene il permesso per recarsi negli USA a giocare una manciata di partite con i Los Angeles Kings. I vertici dell’Armata Rossa però non fanno nemmeno molta opposizione sul piano prettamente sportivo, Nechayev è un giocatore di secondo piano e addirittura rischia di fare una cattiva pubblicità all’URSS, cosa che paradossalmente farebbe comodo a Tikhonov.

Le prime crepe però sono già visibili, alla fine degli anni 80 la lega russa perde diversi fondi governativi che vengono deviati in maggioranza sulla formazione sempre più importante degli atleti olimpici, e la sua sopravvivenza è messa a dura prova. Tikhonov si trova tra l’incudine e il martello, la sua nazionale gode di tutti i favori essendo di fatto la più grande e importante rappresentativa olimpica della nazione, ma sempre più giocatori di un ormai impoverito campionato nazionale pensano alla fuga in Europa e in Nord America e questo rappresenta un grosso problema per la propaganda e il futuro di tutto il movimento.

La NHL viene a conoscenza di questi problemi e comincia a draftare sempre più giocatori sovietici, sicura che prima o dopo la federazione sovietica dovrà cedere in una maniera o nell’altra e quindi continua a forzare la mano. Intanto arrivano anche le prime bordate anche dai giocatori, nel caso niente meno che Slava Fetisov e Igor Larionov, i primi a prendere contatti con la NHL.

Le due leggende criticano apertamente sui giornali americani il colonello per le sue interferenze nelle loro trattative con le franchigie interessate (trattative per la prima volta private o comunque per mano di abili e interessatissimi agenti americani), mentre in pubblico mostrava invece una certa apertura ad occidente, evidentemente solo di facciata e di stampo politico.

Intanto molti giornalisti e addetti ai lavori cominciano a picconare la federazione di hockey sovietica, ritenuta antiquata, a fronte di un movimento calcistico che prende sempre più piede e diventa l’attrazione principale della nazione dopo i buoni risultati sul piano internazionale e in vista dei ;ondiali di Italia ‘90. Per Tikhonov significa stare tra due fuochi e rischiare di perdere di mano la situazione.

I primi giocatori “superstar” ad approfittare sul serio della fragile situazione sono Sergei Makarov, Alexander Mogilny, Vladimir Krutov e Pavel Bure, oltre ai già citati Fetisov e Larionov. Tutti questi pilastri della “Red Army” si accordano con varie squadre di NHL e tra il 1988 e il 1989 fanno finalmente il loro debutto nel massimo campionato nordamericano. La curiosità per i nuovi arrivati in NHL è tale che alle prime pattinate di “The Russian Rocket” Bure per un allenamento facoltativo con i Canucks si presentano in 3’000 tra tifosi e giornalisti.

Dall’altra parte Tikhonov osserva i buoi scappare dalla stalla mentre l’URSS si sta sgretolando sulla scia del crollo del Muro di Berlino, senza aver più alcuna forza per trattenerli e dovendo costruire delle selezioni nazionali alla bell’e meglio, dato che molti dei fuggitivi evitano di rispondere alle convocazioni per la paura di restare bloccati in patria.

Agli inizi del 1991 la federazione sovietica è sull’orlo del collasso ma John Ziegler sa benissimo che i suoi giocatori sono troppo preziosi per il prodotto NHL e va in aiuto di Tikhonov per preservare i rapporti di scambio, senza dimenticare che lo spionaggio internazionale ha sempre usato lo sport di alto livello come arma e corridoio di spie, così si può immaginare che la NHL abbia reso pure un certo favore ai servizi segreti americani indebolendo uno dei pilastri governativi sovietici. Ma restiamo nell’ambito sportivo, coinvolgere la politica internazionale dell’epoca aprirebbe un capitolo infinito.

Le due federazioni si accordano per delle indennità di trasferimento dei giocatori verso il Nord America (5 milioni di dollari annui da distribuire alle squadre del campionato russo) inoltre inizia una collaborazione tra la Russia e i Pittsburgh Penguins, che mettono a disposizione competenze di marketing con uno scambio che prevede pure la formazione di una squadra russa in IHL, i Russian Penguins, allenati proprio di Tikhonov.

Il progetto dura solo un anno, ma serve a rafforzare la collaborazione tra due federazioni che avevano bisogno una dell’altra, anche se c’è chi non vede di buon occhio la cosa, ed in effetti a rimetterci di più è la Russia, con Ziegler a tenere il manico del coltello ben saldo nella sua mano.

Viktor Tikhonov abbandona infatti il timone della federazione rassegnato, lasciandola in mano a personaggi più “politici”, restando comunque sulla panchina della Nazionale e del CSKA Mosca fino agli anni 2000, alternandosi negli ultimi tempi più che altro a selezionatori licenziati dalla federazione dopo edizioni deludenti di mondiali e giochi olimpici e fungendo da consulente.

Ma ormai l’insicurezza che vige in Russia nei primi anni 90 non fa che gettare molte incertezze nei vari movimenti sportivi, i quali ci metteranno anni prima di tornare competitivi e qualcuno accusa di questo i vertici dell’hockey, rei di aver causato per primi la falla e di aver in particolare reso ridicolo un orgoglio nazionale di fronte agli eterni rivali degli Stati Uniti e del Canada.

“Ci siamo svenduti a uno spettacolo svilente – scriverà un giornalista ufficiale dell’ex nazionale sovietica – avviando una fine fatta di birra, hot-dog e striptease”.

È ovvio che con la caduta del blocco sovietico qualunque federazione sportiva avrebbe comunque dovuto fare i conti con lo smembramento della nazione, ma forse la fine dell’hockey sovietico è stata molto più traumatica di quello che poteva essere ed è iniziata molti anni prima, quando si volevano contrastare i dollari e lo stile di vita americani con vecchi colonnelli e manifesti di una propaganda ormai fuori dal tempo.

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