Alle nostre latitudini, Kevin Constantine, il duro del Minnesota, è conosciuto ovviamente per i suoi trascorsi nell’Ambrì Piotta tra il 2011 e il 2014, dopo la breve tappa ad Angers, nella Loira. E già questo percorso intermedio europeo, in club che di certo non passavano per i più conosciuti o ambiziosi rispetto alla KHL, alla SHL o ai i top club svizzeri, soprattutto agli occhi di un canadese che scoprì l’Europa partendo da quei tre mesi in Francia, la dice lunga sul coraggio e la mentalità di un coach.
Non si parla nemmeno di un coach che è dovuto passare da Angers o da Ambrì in quelle terribili stagioni con l’incubo della retrocessione per fare gavetta o imparare il mestiere, ma bensì di un uomo di hockey che nella sua carriera annoverava anni di NHL, riconoscimenti individuali, stagioni passate a guidare i più forti del mondo e a scontrarsi con i caratteri difficili di una generazione di giovani star che ai suoi occhi lo erano diventate troppo velocemente.
Forse è stato quel cambiamento a spingere Kevin Constantine a cercare nuove sfide, a scovarle in posti lontani e dove bene sarebbe stata accettata la sua maniera di insegnare hockey e di trasformare giocatori in uomini, due compiti che per lui si intrecciano indissolubilmente. Aveva cominciato a capire che certi suoi valori non erano sempre condivisi da certi giocatori quando subentrò sulla panchina dei Pittsburg Penguins a Ed Johnston e si trovò davanti la folta chioma di Jaromir Jagr, nonostante nelle stagioni precedenti avesse firmato un paio di record di franchigia e di lega con i San Jose Sharks.
Il ceco era nel pieno della sua era, anzi, la NHL era nel pieno dell’era di Jagr e sul finire di quella di Wayne Gretzky e al carattere molto particolare della star dei Penguins era concesso tutto o quasi. L’approccio duro e carismatico di Constantine ne ebbe prova spesso, come quando Jagr si presentò con un plico di dollari a una seduta video e se ne andò a rilassarsi in sala massaggi, pagando così la multa per l’assenza ingiustificata di quella giornata e di altre a seguire.
Oppure quando al secondo allenamento sul ghiaccio Constantine voleva che Jagr indossasse il casco anche durante il riscaldamento, entrò in pista e andò verso di lui che giochicchiava con il disco. Il ceco lo vide con la coda dell’occhio e si mise a pattinare per evitarlo accelerando sempre di più, Constantine ci mise dieci minuti a raggiungerlo, solo quando Constantine si stufò il coach poté dirgli di mettere il casco. Il ceco ricordò che avevano fatto un patto: i giocatori avevano tre settimane per firmare le regole imposte dal coach. “Hai ragione Jaro, ma sapevo che non avresti letto tutto il regolamento, indossare il casco è imposto da subito senza la vostra approvazione”.
Un’altra peculiarità del coach del Minnesota era la dedizione all’aspetto del gioco difensivo, al backcheck degli attaccanti e alla loro capacità di pattinare all’indietro per contrastare le ripartenze. Jagr non pattinava mai all’indietro e dopo una rete all’overtime subita a causa di un mancato ritorno del ceco, Constantine non la prese bene: “Tutti i giorni chiedevo a Jagr di pattinare all’indietro, ma si rifiutava. Mi disse che aveva paura di venire spostato in difesa se avesse fatto vedere quanto era bravo”.
L’avventura di Pittsburgh per Constantine si fermò nel 2000, quando venne sostituito da Herb Brooks, lasciando una squadra che mal digeriva i suoi metodi. “Credo che il lavoro di un coach oggi sia molto dipendente dalla volontà dei giocatori di ascoltarti – raccontò in un’intervista alla CBS nel 2014 – e di cosa puoi fare per farti ascoltare, non è per nulla automatico e non parlo solo di Jagr, che rimane un giocatore incredibile. Ai Penguins c’erano giocatori che guadagnavano dieci o venti volte più di molti loro compagni e per questo fatto credevano di essere esentati da una certa etica del lavoro. Non potei mai accettare questa cosa e capii che non potevo fare altro per farmi ascoltare. Oggi tutti i più grandi campioni sono diventati degli esempi per i compagni di squadra perché sin da giovanissimi vengono caricati di responsabilità, come Crosby o Ovechkin, ma in quegli anni eravamo confrontati con situazioni molto più difficili da gestire.”
La NHL di Constantine si stava per esaurire, trovò più stabilità e un ambiente più consono ai suoi ideali tra i giovani e in AHL, luoghi dove poteva essere quello che ha sempre voluto essere, un maestro, una guida da seguire. Un aspetto del suo carattere che lo ha limitato, che lo ha accerchiato più volte e lo ha allontanato da un certo ambiente, perché non ha mai sopportato le vie di mezzo e i compromessi e ne è sempre andato fiero. Doveva solo cercare un mondo più vicino a lui, che avesse bisogno di lui e dei suoi insegnamenti, che non erano certo visionari o futuristici, ma mettevano chiunque fosse stato disposto a seguirlo su un piano molto più elevato dal punto di vista della professionalità, della voglia di sacrificarsi e di allenarsi.
Metodi che hanno salvato delle carriere, delle squadre e degli uomini. Zach Hamill, ai tempi dei Silvertips uno dei suoi giocatori, stava pensando al ritiro a 24 anni, dopo una mezza stagione ad Utica in AHL. Constantine lo venne a sapere, lo chiamò per capirne le ragioni, ed ebbe paura quel ragazzo rischiasse di perdersi e di cadere nella depressione come era successo ad altri giovani schiacciati dal peso delle aspettative, e lo consigliò di provare a varcare l’oceano per cercare nuove motivazioni.
Hamill si convinse e approdò al Barys Astana, la scelta più coraggiosa che poté fare e ripartì con una nuova carriera che lo portò, segno del destino, anche ad Ambrì e ad Angers. Una nuova carriera che non è stata di primissimo piano, ma che ha recuperato un giocatore e probabilmente salvato un uomo.
Questo è ciò che sa fare meglio il duro del Minnesota oltre ad insegnare l’hockey, lo usa per crescere uomini, per salvare squadre e realtà, come se il suo hockey fosse una sorta di medicina da portare in giro per il mondo, dopo aver capito che chi di hockey ha vissuto con il privilegio dei milioni di dollari non è capace di riconoscere come a quei milioni ci è arrivato.
Non è certo un ipocrita il coach, sa anche lui di aver visto il suo conto in banca crescere nei suoi anni in panchina in NHL, ma non ha mai rinnegato la gavetta, il sudore, le lacrime e il dolore, rinunciando ai salari ammalianti per abbracciare sfide impossibili. Perché uno come lui in NHL avrebbe potuto rimanerci altri anni, anche come General Manager, ma semplicemente non ha voluto, perché per rimanere avrebbe dovuto snaturarsi e scendere a compromessi, fuori discussione per un duro come lui.
Difficile capire come la porta per l’Europa potesse passare per il campionato francese e da un club come l’Angers, perennemente alle prese con guai finanziari e strutturali. Avrà pensato che da qualche parte occorreva cominciare, e Constantine di paura non ne ha mai avuta. Ad Angers trova Martin Lacroix, che nei campionati minori europei aveva già trovato la sua dimensione da giocatore e che gli fa da fedele braccio destro in panchina e fuori.
Ad Angers Constantine rimane solo due mesi, il tempo di portare miglioramenti nel coaching, inserendo anche la sezione video nello staff e portando sul ghiaccio grinta ed esperienza. La situazione nella Loira era provvisoria, per questo una clausola nel contratto gli avrebbe permesso di partire per altri lidi in caso di offerte o di difficoltà societarie irrisolvibili. “Sapevamo che sarebbe potuto partire in qualunque momento – affermerà l’estroso presidente dell’Angers Mickael Juret – e capiamo che lavorare in Svizzera sia molto più attraente. Ad ogni modo in questi due mesi grazie a lui abbiamo fatto un passo avanti di due anni.”
L’offerta che gli arriva sul tavolo proviene da un villaggio tra le Alpi svizzere, quanto di più distante ci possa essere dalle sue esperienze passate, anche rispetto alla Francia, perché lassù si gioca comunque in un campionato competitivo, ma c’è una realtà disperata da salvare dallo spettro della retrocessione. La grande sfida che il duro del Minnesota aspettava da tempo.
Il villaggio in questione è naturalmente quello che ospita l’Ambrì Piotta e Constantine viene catapultato in una realtà che sta pagando a carissimo prezzo i disastri sportivi e societari nel periodo leventinese più buio da decenni a quella parte. La missione è tanto semplice quanto durissima: occorre salvare la squadra dalla retrocessione, che mai era stata “annusata” da così vicino nell’era playoff, e da tutto quello che ne conseguirebbe, ossia l’incubo della sparizione del club. La squadra che si trova per le mani Constantine è devastata, moralmente, fisicamente e sportivamente dopo soli due mesi di campionato. Una rosa mal costruita, di gran lunga la più debole della lega, confrontata con una serie di sconfitte paurosa, da recuperare sul piano umano perché la si possa recuperare su quello sportivo.
Constantine si arrabatta come può portando i suoi principi, fatti di fatica, orgoglio e onestà verso sé stessi e verso i compagni. Chiede subito alla squadra: “Voi siete il meglio di ciò che potete essere? Se non lo siete come uomini non potete esserlo come giocatori”. Constantine sa che da quella squadra può chiedere solo la salvezza e l’obiettivo diventa improvvisamente quello di sopravvivere. Metodi duri, esclusioni eccellenti e preparazione dettagliata in ogni situazione, dopo mesi lunghissimi e di sofferenza pura l’Ambrì Piotta può esultare e festeggiare la salvezza contro il Visp. La missione del duro del Minnesota è compiuta. Per ora.
La stagione seguente non può essere molto diversa e la squadra si salva di nuovo all’atto conclusivo, ma senza il miracolo di un anno prima non si potrebbe essere di nuovo lì a tirare il fiato, quella della prima stagione di Constantine in Leventina è un’impresa che molti hanno sottovalutato, ma alla luce delle condizioni sportive, morali e tecniche in cui versava quella squadra si può parlare quasi di un atto di eroismo.
Constantine è però talmente legato ai suoi princìpi da risultarne anche vittima, tanto che all’inizio della terza stagione viene sostituito da Serge Pelletier dopo aver trovato solo due vittorie in quattordici incontri. Forse il messaggio non passava più in una squadra incapace di reggere a lungo quella filosofia, o forse in Leventina ci si illudeva che i miracoli del coach potessero uscire a catena da un cilindro.
Ad Ambrì però non ci si vuole staccare del tutto dalla sapienza e dall’esperienza del coach, che rimane un consulente esterno del club e una preziosa risorsa che conosce a menadito il mondo dell’hockey professionistico e giovanile. Forse era destino che dovesse finire così, missione salvezza compiuta e poi impossibile cercare di andare verso i compromessi di una società sempre con l’acqua alla gola.
Tornato per quattro stagioni ai “suoi” Silvertips ha il tempo di raccomandare la Leventina a Dominic Zwerger, in procinto di vestire la maglia biancoblù grazie allo scouting di Alessandro Benin, ma lo spirito di Constantine ha comunque lasciato qualche traccia in giro e viene contattato dai Daemyung Killer Whales, formazione della Corea del Sud. Altro continente, altra sfida, altro sì. Paese completamente diverso, cultura diversa, lingua diversa, ma stesso hockey da insegnare.
“Non importa la dimensione del cane, ma quanto è intenso il suo modo di lottare”. Con questa massima esordisce davanti agli esterrefatti giornalisti che puntualizzano sulle dimensioni medie inferiori degli atleti coreani e che non avranno mai le capacità per lottare sul piano internazionale. Una frase che spaventa molti, dato che nell’hockey coreano l’approccio è sempre stato molto scolastico e accademico, mai con toni duri come i suoi.
Ma perché fino in Corea? “L’hockey mi potrebbe portare sulla Luna. Se c’è un’avventura da poter cogliere, perché non farlo?”. La squadra che Constantine prende in mano ha alle spalle una sola vittoria in campionato ed è ultima in classifica, ma questo non preoccupa il coach americano, anzi. Dopo tre anni i suoi giocatori e quelli del resto del campionato per “osmosi” apprendono nuovi metodi di allenamento, più intensi, più numerosi e più professionali e il movimento giovanile comincia ad adottare staff tecnici completi per preparare i giovani al salto di categoria.
Anche qui la missione è compiuta, nessun campionato da vincere, nessun trofeo da sollevare, ma solo la consapevolezza che i suoi metodi e le sue visioni abbiano migliorato dei giocatori, degli uomini e delle società. Magari poco, magari molto, ma sempre in una misura che sarebbe stata impossibile senza il passaggio di un maestro come il duro del Minnesota. “Insegno a competere prima di giocare. Senza la voglia di lottare, non iniziare nemmeno”.
Ormai Constantine va dove gli altri hanno bisogno, come un samaritano, a portare aiuto dove viene richiesto, a chi sa apprezzare i metodi duri ma efficaci. In Polonia. Dalla Corea alla Polonia, un viaggio di certo poco comune, dove va a sostituire Nik Zupancic sulla panchina dell’Unia Oswiecim, a dimostrare che il suo telefono ormai è simile a un numero verde, a un’assistenza del fabbricante, chi ha bisogno chiami che Kevin Constantine si precipiterà.
In Polonia però si sono fatti ingolosire dal nome altisonante, Zupancic è un coach d’esperienza ma con Constantine credevano di diventare un club vincente. Non è successo, perché la filosofia del coach non è passata come doveva passare e allora lui sempre senza mezzi termini ha detto basta, perché lavorare in paesi lontani, con problemi di lingua e di culture diverse va bene, purché però sul ghiaccio si faccia a modo suo, prendere o lasciare.
E allora l’ultima tappa (per ora) si chiama Ungheria, sulla panchina del Fehérvár militante nella Ice Hockey League, l’ex EBEL austriaca allargata appunto all’Ungheria, all’Italia con il Bolzano di Greg Ireland, alla Slovenia e alla Slovacchia.
“Potevo raggiungere Fehérvár già prima della Corea, chiamato dal mio ex giocatore Tyler Dietrich, ma non se ne fece niente. In un secondo momento mi hanno cercato di nuovo e ho chiesto a Diego Scandella il suo parere, dato che conosce la realtà ungherese molto bene. Perché continuo a spostarmi? Vado dove vengo apprezzato e dove posso vedere crescere qualcuno con il mio hockey e i miei metodi di allenamento. In partita voglio sempre vincere, ma quello che mi porta in giro è sempre la voglia di vedere qualcuno che migliora ogni giorno, anche se è l’ultimo della classe. Anzi, spesso proprio perché è l’ultimo della classe”.