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Interviste

Hischier: “Nel mio gioco c’è l’ispirazione di Datsyuk, ma anche dell’argento vinto nel 2013”

Il vallesano si racconta: “Mi fa molto bene avere con me oltre oceano Meier, Schmid e Siegenthaler, si mantiene la cultura svizzera e non manca la raclette. Il sogno? La Stanley Cup ma anche giocare in Nazionale con mio fratello”

PRAGA – Nico Hischier è una delle star del torneo di Praga e motivo di vanto per il nostro hockey. Nonostante questo status per lui, al quinto Mondiale, la Nazionale è sempre una priorità.

“Se sono sano e New Jersey mi dà il nullaosta, per me è naturale raggiungere la Svizzera. È sempre un piacere, mi diverto tanto a poter difendere i colori del nostro paese, è bello gustare questo feeling elvetico e lottare per la nazione”.

Quando tu, Josi, Niederreiter e compagnia siete presenti le aspettative si alzano. Te ne accorgi?
“È normale, ma io provo a ignorare queste cose e dare semplicemente il mio meglio. Poi quello che accade accade”.

La tua famiglia ti segue ai Mondiali?
“Sì, praticamente sempre. Presto a Praga arriverà anche mia sorella, mentre mio fratello Luca no perché già impegnato con gli allenamenti estivi”.

È il tuo sogno disputare una rassegna iridata assieme a Luca?
“Certo, ho sempre voluto giocare con lui. Abbiamo fatto qualche partita assieme nel Berna e nel Visp, ma ormai sono fatti datati. Sarebbe bellissimo poter indossare la maglia della Nazionale insieme, sarei felicissimo per lui, ma non dipende da me”.

Non hai mai provato a corrompere Fischer?
“(Hischier ride ndr) No, no”.

Quali sono i tuoi ricordi della Nazionale da bambino?
“Guardavo praticamente tutti i Mondiali, quello che mi è rimasto impresso è ovviamente quello del 2013 quando si vinse la medaglia d’argento. C’erano ad esempio Josi e Niederreiter in quella squadra, rimasi veramente colpito da giovane ragazzino vallesano”.

Loro due sono qui anche quest’anno e sono due leader, che effetto ti fa essere al loro fianco?
“È speciale, soprattutto pensando appunto a 11 anni or sono. È divertente poter condividere con loro queste emozioni e provare assieme a raggiungere qualcosa”.

Ti capita di pensare alla vostra fantastica generazione, oppure sarà qualcosa che arriverà quando smetterai di giocare?
“Non sono il tipo che ama fare certi tipi di riflessioni. Prendo giorno dopo giorno, può succedere di tutto, io dò il massimo. A fine carriera si potrà poi fare un bilancio e guardare a ritroso”.

Hai una ferita alla guancia, complice una lama di un pattino contro la Cechia. Ti sei spaventato?
“È andato tutto cosi velocemente, ho capito che qualcosa mi aveva colpito al viso. Mi sono spaventato un pochino, ho visto il sangue e ho capito che doveva essere stato un pattino. Ho però percepito subito che il taglio era fortunatamente alla guancia e non nella zona del collo, quindi ero tranquillo”.

Dopo la partita hai riflettuto sulla fortuna che hai avuto?
“Un po’ sì, ma è importante dimenticare subito certe cose e non farsi troppi pensieri, potevano esserci conseguenze più pesanti”.

Torniamo al passato, a che età ti sei reso conto di poter diventare una star mondiale di hockey?
“Difficile da dire. In pratica quando ho realizzato che si può essere un professionista di hockey mi sono posto questo obiettivo e l’ho inseguito. Da piccolo giocavo sempre con i ragazzi più vecchi di me, già a Visp, questo mi ha aiutato molto”.

Sei stato anche un forte calciatore da quanto mi risulta…
“Diciamo che non ero male, ero nella selezione vallesana. Ma parliamo di U13, poi ho smesso con il calcio”.

Ti mancano alcuni sport che non puoi più praticare a causa del tuo lavoro?
“Sì, ma non scappano mica, quando smetterò ci sarà ancora tempo a sufficienza per praticarli. Ad esempio mi piacerebbe nuovamente andare a sciare”.

Ci incontriamo ormai da anni ai Mondiali e mi sembri progredito a livello umano. Parli maggiormente, sei un po’ più sciolto rispetto al passato…
“Credo che sia una questione di abitudine. Quando le cose si ripetono e le fai in continuazione, tutto diventa più facile e naturale. Io ho comunque sempre cercato di non mai farmi stressare e ci provo ancora”.

Parli di abitudini. La tua è di vivere in Nordamerica, ci sono aspetti in cui sei diventato “americano”?
“No, io sono svizzero e basta. Mi fa molto bene avere con me a New Jersey Meier, Schmid e Siegenthaler. Così mi gusto comunque la cultura svizzera a pieno. Ovviamente però anche l’America ha i suoi vantaggi. Puoi praticamente mangiare a ogni ora del giorno o della notte, i negozi e i ristoranti sono sempre aperti, questa cosa mi piace”.

Hai partecipato a uno spot di promozione del turismo svizzero in America, com’è nata la cosa?
“Tramite l’associazione del turismo elvetico e vallesano. Mi hanno contattato attraverso la mia agenzia e l‘ho trovata un’idea magnifica. È bello poter aiutare il nostro turismo. Ci siamo divertiti molto a girare la pubblicità. Erano inoltre presenti un ragazzo e una ragazza dal New Jersey, parte integrante dello spot, magari non si sarebbero mai recati in Vallese nella loro vita. È bella come cosa”.

Hai scelto tu l’itinerario, lo conoscevi?
“Non l’ho scelto io, ma sul ghiacciaio dove si è girata una scena c’ero già stato. Io alla fine ho partecipato a una giornata di riprese, il resto della crew invece è rimasta in loco per 4 giorni a produrre immagini”.

Qual è la prima cosa che devi assolutamente fare in estate quando rientri a Naters?
“Vedere la famiglia e gli amici”.

Riesci a muoverti tranquillamente in Vallese o tutti ti bloccano, vogliono parlarti o scattare una foto?
“Quando mi trovo in Vallese sono praticamente sempre a casa, non giro molto”.

Ti accorgi però di essere una star ormai?
“Onestamente no, da quando ho 18 anni, dopo il draft, il mio nome è sempre circolato. Non è cambiato molto. Intendiamoci, alla fine non è poi mica un male se la gente vuole fare una foto con te”.

In America invece non hai questi problemi…
“Esatto, è rarissimo che qualcuno mi riconosca. New York poi è una città così grande: c’è il football, il basket, il baseball, è piena di attori. Insomma mi posso muovere tranquillamente”.

È un lusso…
“Proprio così. In altre città non è il caso, ad esempio in Canada. È bello poter avere una vita privata, alla fine siamo anche noi persone”.

Hai avuto una carriera in ascesa sino al 2020/21, poi lì hai avuto dei problemi. In un’intervista dicesti che per la prima volta in vita tua eri un po’ stufo…
“Era un insieme di due cose: la pandemia e l’infortunio. Avevo trascorso un’ottima estate, ero prontissimo, aspettavo solamente l’inizio del campionato e poi mi fratturai la gamba. Era il mio primo grave ferimento. Non è stato un bel periodo, ma mi ha permesso di realizzare che la salute è la cosa più importante al mondo. Ho imparato tanto da quella difficile stagione”.

Sei uno che fa attenzione all’alimentazione?
“Non ho un piano rigido, ma specialmente prima delle partite sto attento e cerco di variare il cibo. Non sono però il tipo che rinuncia alla pizza o all’hamburger. Non l’ho mai fatto”.

Ti mangi pure qualche raclette nel New Jersey?
“Sì, a volte succede, anche la fondue”.

Cosa preferisci?
“La raclette”.

Da vallesano devi dirlo…
“Potrei, guarda che anche la fondue la facciamo bene”.

Torniamo all’hockey. L’anno scorso sei stato nominato per il Selke Trophy che premia il miglior attaccante difensivo. Cosa hai provato?
“È stato un grande onore, spulciando oltretutto la lista dei giocatori che ha già vinto questo trofeo. È una sorta di conferma della bontà del lavoro svolto, mi ha dunque fatto piacere. È bello vedere che anche il lavoro in zona difensiva venga visto e non solo quello in zona offensiva. Alla fine però quello che conta davvero è vincere la Stanley Cup”.

C’è stato un allenatore che ti ha inculcato questo aspetto del tuo gioco?
“Non uno in particolare. Chiaramente da piccolo volevo anch’io solamente segnare e andare in avanti. Poi mi è stato detto appunto di pensare anche alla fase difensiva e di tornare ad aiutare i difensori. Ho cercato dunque di lavorare in questo senso. Pavel Datsyuk è stato una sorte di esempio per me da questo punto di vista, lui era anche un centro two-way come me, mi ha ispirato”.

È frustrante vedere che spesso le statistiche si riducono al numero di gol o assist?
“In uno sport come il nostro i numeri di punti sono decisivi, ma ci sono così tante altre cose che puoi fare per aiutare il team. I punti non dicono sempre tutto. Tu puoi fare ad esempio tre assist grazie a dei fortunosi rimbalzi, tutti hanno il sentimento che hai fatto una grande partita, ma non è la verità. E al contrario puoi fare un partitone, creare tanto senza segnare e la gente avrà il sentimento che hai giocato male”.

Chiudiamo con una curiosità. Lo sai che sei nella top 10 dei giocatori vestiti in modo più elegante secondo The Athletic?
“Chi, io? Non lo sapevo, ma non è così importante”.

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