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Interviste

Schwendener: “In NL non ho sfondato, ma a Dresda apprezzo ogni giorno con semplicità”

Il portiere è alla sua quarta stagione in Germania: “In un angolo della mia testa ho sempre avuto l’idea tedesca. È divertente poter giocare qui, i germanici sono davvero fanatici di sport. Voglio continuare il più a lungo possibile”

(© Benjamin Soland)

DRESDA – Quando si pensa a Dresda la mente va subito all’ex DDR, la sua architettura barocca, le vecchie puntate della celebre serie poliziesca “Polizeiruf 110” e i mercatini di Natale. Ma la città tedesca, a un tiro di schioppo dalla frontiera ceca e da Praga, cela altre sorprese, come ad esempio una realtà hockeistica ben consolidata.

Tra i protagonisti c’è un portiere elvetico, un nome magari un po’ dimenticato in questi ultimi anni, ma che fece parlare molto di sé ai tempi. Vi ricordate di Janick Schwendener? Ebbene sì, proprio lui. Il 31enne grigionese è ormai alla sua terza stagione da titolare in forza ai Dresdner Eislöwen, squadra che milita nella lega cadetta.

Una scelta assai rara, sono pochi gli elvetici che hanno giocato in Germania: Reto Pavoni, Lars Weibel, Konstantin Schmidt, Yannick Hänggi, Rolf Ziegler e Martin Ness. In una lunga chiacchierata con “Schwendi” abbiamo parlato del presente e del passato.

Janick Schwendener, come ti è venuta l‘idea di emigrare in Germania e come ti sei procurato il passaporto tedesco?
“Tutto è nato all’inizio della pandemia. Avevo rescisso il mio contratto con il Turgovia e in un angolo della mia testa avevo sempre avuto l’idea tedesca. La situazione dei portieri in Svizzera era assai stabile, i posti a disposizione erano prevalentemente occupati e quindi decisi di attuare questa mia suggestione. Mia mamma è nata e cresciuta a Freiburg. Durante le stagioni invernali veniva in Svizzera a lavorare, si guadagnavano ovviamente dei bei soldi e durante questa attività ha conosciuto mio papà. Avendo la madre germanica ho avuto dunque il diritto di ottenere il passaporto senza problemi. È andato tutto velocemente, la procedura mi è costata solamente 90 euro. Una volta ottenuto il documento ho preso contatto con un agente in Germania, gli ho chiesto se poteva tastare il terreno e saltò fuori un ingaggio a Iserlohn. Lì sono rimasto per un campionato e in seguito mi sono trasferito a Dresda, dove ora disputo la mia terza stagione”.

(Sandro Halank, Wikimedia Commons)

Immaginiamo che ora, con i mercatini di Natale, sia il periodo più bello dell’anno a Dresda…
“Sì, decisamente. Ancora prima di viverli di persona provavo gioia nel pregustarli, sono molto famosi, e devo dire che hanno mantenuto le promesse. Li frequento praticamente ogni giorno, adoro l‘ambiente e gli odori natalizi. La città è comunque bellissima in ogni periodo dell’anno. Inoltre Dresda vive di sport, in particolar modo di calcio: a vedere la Dinamo Dresda, squadra che attualmente milita in terza lega (la nostra promotion league, ndr), assistono in media 28mila spettatori”.

Anche i tuoi Eislöwen però possono vantare un bel seguito…
“In media presenziano circa 3’000 tifosi alle nostre partite, la pista ne può contenere attorno ai 4’400. C’è una bellissima atmosfera, l’infrastruttura è ottima e costruita in maniera ideale. È divertentissimo poter giocare qui, d’altronde appunto i germanici sono davvero fanatici di sport. Ovviamente non si possono però fare paragoni con gli spettatori di Swiss League, dato che il numero della popolazione e il rispettivo bacino è molto più alto rispetto alle realtà elvetiche (Dresda conta circo mezzo milione di abitanti ndr)”.

Quindi in città ti muovi liberamente, oppure la gente ti riconosce?
“No, se sei un calciatore allora sì che vieni fermato e hai il privilegio di poter dare un autografo o scattare una foto, ma come hockeista non è il caso. La gente che mi riconosce per strada è strettamente legata alla società, ad esempio membri di fanclub presenti alle feste della squadra e ad altre attività. Insomma, sono persone che in fin dei conti conosco”.

Ci fai un paragone tra la vostra lega cadetta e quella svizzera? Concretamente, quanto finirebbe una sfida tra gli Eislöwen e il Turgovia?
“È una domanda ricorrente, ma da portiere non è semplice rispondere, non sei nel vivo dell’azione, devi solo intercettare i tiri. È dunque difficile per me valutare. Si dovrebbe magari chiedere a Tim Coffmann, l’attaccante statunitense. Lui giocava nel La Chaux-de-Fonds e poi si è trasferito nel Bad Neuheim, dove milita tuttora. Dominava sia in Swiss League che qui. Una differenza sicura è il fatto che in Germania puoi schierare quattro stranieri. Magari non ti rendono una squadra migliore, ma di base così facendo un team è più pericoloso anche perché puoi schierare più gente esperta in posizioni importanti. Sarebbe dunque interessante disputare una volta un’amichevole contro il Turgovia, chissà come andrebbe a finire”.

Una domanda un po’ indiscreta, quanto si guadagna all’incirca?
“La cosa positiva è che lo stipendio è per così dire netto, l’appartamento e l’auto ti vengono messi a disposizione del club. A livello di contanti mensilmente parliamo di numeri relativamente medio-bassi a 4 cifre”.

Torniamo al tuo passato. La vittoria alla Coppa Spengler con il Ginevra nel 2014 in qualità di titolare è il tuo ricordo più bello?
“Una premessa, tutto quello che ho vissuto lo trovo geniale e sono grato per ogni istante che ho potuto gustare grazie all’hockey. Poi chiaramente a livello tecnico e per ciò che concerne il successo direi proprio di sì. Vincere in casa con un altro club, festeggiando inoltre uno shutout in finale è stata davvero una grande sensazione. Mi arrivarono tantissimi SMS”.

Una curiosità. Tu eri in prestito al Ginevra proprio dal Davos, presumo dunque che avevi un appartamento a Davos. Durante quella Spengler avevi potuto abitare a casa oppure avevi pernottato in hotel con le aquile?
“A quell’epoca dividevo un appartamento con Enzo Corvi e Sven Jung, entrambi ancora a Davos, ma alla Spengler rimasi in albergo con il Ginevra. Il mio compagno di stanza era Ramon Untersander, lui era arrivato da Bienne a rinforzare i romandi. Fu davvero divertente e speciale festeggiare il Natale in questo modo. Ero a casa, c’erano i miei familiari, abitavo in hotel e mangiavo benissimo. Non andai nemmeno un’ora a casa da Enzo e Sven in quella settimana”.

In quella stagione giocasti per 4 club: il Davos ti prestò oltre che al Ginevra anche al Turgovia e al Kloten. Questo fatto fece introdurre in seguito la regola che vieta a un giocatore d’indossare più di due maglie nello stesso campionato. Non ti sentivi come una figurina di un album Panini o come una banconota del Monopoly?
“Ero da diverso tempo a Davos, con Genoni davanti praticamente mi allenavo quasi solamente e non giocavo praticamente mai. Mi sentivo un po’ svuotato, speravo in un nuovo inizio, volevo vedere nuovi orizzonti. Per carità, a Davos era tutto bello, intendiamoci, ma appunto io volevo andare alla scoperta. Praticamente in quel periodo ho vissuto con la valigia in mano. È stato un lasso di tempo magnifico, l’ho apprezzato un sacco. Ho potuto scoprire nuove società, incontrare nuove persone e di colpo mi sono ritrovato responsabilizzato. La gente mi dava fiducia. Un esempio? Giovedì sera disputai una partita casalinga con il Turgovia, vincemmo contro il Martigny. Dopo il match mi dissero di andare direttamente in macchina a Ginevra che al venerdì avrei indossato la maglia granata. Arrivai attorno alle 3 di mattina in hotel e alle 8:30 ero già alle Vernets per il warm-up. Conobbi i compagni e incontrai ovviamente Chris McSorley. Le sue parole? “È bello che tu sia presente, fai quello che sai, stasera giochi”. Tutto lì. Era decisamente una nuova situazione”.

Con tutto questo girovagare ti sei ritrovato al fianco di vere icone. Oltre a Genoni si potrebbero citare Bührer a Berna e Gerber a Kloten. Quale di questi tre è quello che ti ha impressionato maggiormente?
“È stato splendido poter lavorare insieme a loro. Sono tutte delle vere leggende. Poter guardare le loro abitudini, allenamenti e preparazione è stata tanta roba. Se proprio mi tocca sceglierne uno allora citerei Leo, ma solamente perché è quello con cui ho condiviso il cammino più a lungo. So com’è umano, com’è la sua abnegazione lavorativa. Ma anche Bührer e Gerber… Erano portieri che seguivo alla TV, li guardavo dal basso verso l’alto, sognando magari un giorno di arrivare ai loro livelli. Ritrovarmi a spalleggiarli è stato un grande onore e un’immensa motivazione”.

A 31 anni sei nel pieno della maturità agonistica e ti ritrovi nella serie B germanica. Hai fatto una carriera di tutto rispetto, vivi della tua passione, ma non sei riuscito ad importi e diventare un titolare in National League. Qual è il motivo? Non eri abbastanza bravo? Hai qualche rimpianto?
“È difficile da dire. Ai tempi mi dicevano che avevo talento e possedevo le qualità per avere una bella carriera. Anche nella famosa stagione 2014-15 giocai bene e firmai a Berna. Era l’ultima stagione di Bührer, ma già all’inizio del campionato fu assodato che Genoni sarebbe arrivato da Davos. Ovviamente non potevo dire nulla. È chiaro, è logico, se puoi ingaggiare Leo, devi farlo, non c’è nemmeno da discutere su di un eventuale inizio di progetto con Janick Schwendener. A Berna non andò così bene la stagione. Avevo solamente 22-23 anni, era troppo presto per una responsabilità del genere. Mentalmente non ero pronto, c’era tanta pressione, forse mi ero immaginato il tutto più semplice. Non riuscii ad impormi. Tristezza o rimpianti? È ovvio, avrei firmato subito per avere una carriera come quella di Genoni, chi non lo farebbe? Ma io sono comunque felicissimo. In Germania mi diverto enormemente, la gente mi apprezza e io apprezzo ogni giorno. Se fossi riuscito a sfondare in Svizzera non avrei mai avuto vissuto questa magnifica esperienza a Dresda”.

Ti abbiamo già rubato tanto tempo e ti ringraziamo per la tua disponibilità, ma un’ultima domanda è d‘obbligo. Hai progetti per il dopo carriera, resterai in Germania o tornerai in Svizzera?
“Il mio tempo non è così prezioso, sono io a ringraziare voi, è bello sapere che la gente non mi abbia dimenticato. Sono completamente aperto, vivo adesso e qui, questo è un po’ il mio motto. Il mio obiettivo è di giocare a hockey il più a lungo possibile e vivere di quello. La vita è ancora abbastanza lunga per poi poter svolgere altre attività una volta finita la carriera. Non ho ancora dei piani. Ho bisogno il contatto con le persone, non riesco ad immaginarmi seduto in un ufficio, ma mai dire mai. Non so neppure se rimarrò nel mondo dell’hockey, non per forza. Io non ho grandi ambizioni di carriera, non devo diventare un capo, a me basta avere abbastanza da vivere, mi piace la semplicità. Trovare un lavoro che mi diverta e mi permetta di alzarmi al mattino con gioia significherebbe per me di avere sbancato il jackpot”.

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