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Lugano

Il Lugano non si dimentichi di quanto è bello avere sempre fame

LUGANO – Quando è scoccato il 60’ di Gara 4, il pubblico della Resega ha esultato come non faceva da tempo immemore, ma poi, tra le strette di mano dei giocatori e i richiami sul ghiaccio, l’atmosfera si è fatta di euforia mista a incredulità, quasi che i tifosi non sapessero più cosa provare in quei momenti.

È vero, è “solo” una semifinale raggiunta, ma le frustrazioni, i bocconi amari e legnosi, le illusioni e le arrabbiature trangugiate negli anni successivi al titolo del 2006 sono state veramente troppe. Questa gioia quindi non è solo conseguenza del risultato in se, ma va ben oltre, e tocca quella consapevolezza che finalmente il Lugano ha trovato una nuova via da percorrere, e sembra stavolta a tutti gli effetti una via sicura.

Dopo la politica dei tutti giovani, degli stranieri sconosciuti, degli operai, l’indimenticabile “cultura dell’eccellenza” (virgolettato perché ancora oggi fa rabbrividire e non ce ne assumiamo la responsabilità) l’ammucchiata di allenatori, salvatori, santoni, guru, esordienti e comprimari, il Lugano ha trovato una guida salda e con le idee in chiaro.

Il bivio decisivo, in quell’ormai lontano 22 ottobre, è stato ancora una volta doloroso, forse più di tutti gli altri, dopo aver dovuto riporre in soffitta il sogno di un allenatore giovane sopraffatto dalla sua stessa creatura che non era in grado di dominare.

Ma a volte da una storia finita male ne nascono due destinate ad avere un futuro migliore (ce lo si augura anche per la Nazionale di Fischer) e quella tra Shedden e il club bianconero sta già dando dei dolci e gustosi frutti. In autunno puntare sull’ex coach dello Zugo fu una scelta intelligente, e oggi si dimostra azzeccata in pieno, probabilmente la migliore che si potesse fare.

Su quella squadra allo sbando ne furono dette di ogni, persino l’epurato Fischer la definì “costruita male”, con stranieri poco dediti al sacrificio, svizzeri poco amalgamati, poco carattere e disciplina, insomma ognuno aveva la sua causa per spiegare la malattia.

Anche Shedden l’aveva, ed era un’idea ben chiara: “Questa squadra deve ritrovare la passione di stare sul ghiaccio ogni giorno”, una parola tanto semplice quanto fondamentale nello sport, la passione, e in questi playoff la diagnosi del dottor Shedden si dimostra quella giusta.

Un esempio più di tutti calza a pennello per questa squadra, quello di Linus Klasen. Chi si ricorda di quel giocatore sempre produttivo ma anche rabbuiato, freddo e spesso distaccato avrà notato la differenza con quello attuale, che al 60’ di gara 4 si è fiondato sul ghiaccio a saltellare come un bambino, senza contare le soffocanti esultanze con i compagni sulle reti di Hofmann, Ulmer e Brunner.

Lui che mai prima d’ora al 57’ di una gara di playoff si sarebbe spinto fino in fondo alle assi per recuperare un disco che nel 99% dei casi sarebbe finito fuori dal terzo, invece lo ha fatto dimostrando di sapersi mettere al servizio degli altri anche dove fa più male.

Mai nessuno avrebbe potuto immaginare che il Lugano facesse fuori lo Zugo in sole 4 partite, ma quello che si è visto sul ghiaccio giustifica anche il più clamoroso dei risultati. Il Lugano si è trasformato in quelle squadre che tanto avevano fatto male in passato proprio ai bianconeri, fatte di determinazione, forza, classe e spirito di gruppo fino al dolore, mentre lo Zugo si è trasformato nel Lugano del passato, incapace di reagire di fronte a tanta forza.

Shedden ha vinto su ogni fronte lo scontro tattico con Kreis, anticipandolo in ogni campo e battendolo sulla scacchiera in sole 4 mosse. Dall’intuizione di Lapierre – il miglior interprete dello spirito da playoff mai visto da anni, una bestia – al reinserimento in corsa di Brunner e Hofmann, il cambiamento di gioco in power play alla solidità dei box play, tutto.

Mentre Kreis sull’altro fronte dava segnali di disperazione togliendo Sondell per l’impalpabile Rapuzzi, un cambiamento decisamente troppo lieve per una squadra con l’acqua alla gola. Shedden ha dominato perché conosce la sua squadra ma conosce anche lo Zugo, facendo scaturire dalla bocca di un tifoso dei tori dopo gara 3 la frase più emblematica: “Der EVZ gehört noch ihm”, ossia, “lo Zugo è ancora suo”.

Ma ancor di più è suo questo Lugano, che ha trovato schemi, amalgama, sicurezza nei propri mezzi e la famosa passione, senza la quale non si va da nessuna parte. Ma non è solo questo la squadra bianconera, perché è finalmente anche cattiveria agonistica, sacrificio e intelligenza (Martensson e Furrer gli esempi più chiari).

Ora, con qualche giorno di riposo si possono recuperare gli acciaccati e prepararsi alle semifinali nel miglior modo possibile, perché da qui il Lugano deve ripartire e continuare la scalata con tutte le sue forze e la fame che lo ha portato a questa tappa. In fondo ora tutto può succedere e la cosa è tremendamente esaltante.

Quasi ce lo si dimenticava.

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