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Interviste

Sgarbossa: “In qualsiasi squadra, essere un leader ha sempre significato fare da esempio”

Il centro canadese è ansioso di dare il suo contributo alla causa bianconera: “So che la mia esperienza può essere utile, ma in una realtà nuova con un sistema europeo anch’io posso ancora imparare tante cose”

LUGANO – Sono stati diversi i cambiamenti operati da Janick Steinmann nel cercare di cambiare volto al Lugano, e l’arrivo del centro canadese Mike Sgarbossa ha in questo senso rappresentato una mossa importante.

Il 33enne porta infatti alla Cornèr Arena diverse di quelle caratteristiche che la nuova gestione sportiva ritiene fondamentali. Il primo passo per l’attaccante sarà però quello di ambientarsi nella sua nuova realtà, dopo diversi anni passati nell’organizzazione dei Washington Capitals.

“Tutto sommato l’ambientamento sta andando molto bene, sia per me che per la mia famiglia. Certo, siamo in una realtà molto diversa da quella a cui eravamo abituati a Washington, ma siamo stati bene sin da subito e ora stiamo cercando di calarci nelle nuove abitudini, piazzandoci nel nuovo appartamento, scoprendo come muoverci, facendo la spesa e creando la nostra nuova routine in un posto che devo dire è veramente bellissimo”, ci ha raccontato Sgarbossa. “Per me adesso inizia anche una parte molto intensa e impegnativa sul ghiaccio, ma ho potuto conoscere gli altri ragazzi nelle attività esterne e tutto procede per il meglio”.

Come mai proprio a questo punto della tua carriera hai deciso di cambiare tutto e varcare l’oceano scegliendo Lugano?
“Penso che fosse il momento giusto per cambiare qualcosa, con i continui spostamenti a cui ero obbligato tra Washington e Hershey qualcosa cominciava a mancarmi e anche mio figlio più grande in particolare stava iniziando a subire questa cosa. Quando sono iniziate le discussioni con il Lugano e Janick Steinmann ho capito che un cambio radicale di abitudini e di cultura poteva essere l’idea giusta dare una svolta alla mia carriera e alla vita di tutti i giorni”.

Prima di prendere la decisione di raggiungere la Svizzera e in particolare Lugano avevi chiesto consigli a qualcuno?
“Ho parlato con alcuni ragazzi che sono stati in Svizzera, inoltre conoscendo Denis Malgin, con cui ho giocato assieme ai Panthers, mi sono fatto un’idea su cosa potesse aspettarmi. Del campionato so che è molto offensivo e competitivo, mentre per quel che riguarda Lugano, oltre ad avere tifosi appassionati, chiunque con cui ho parlato mi ha sempre detto di una città molto pulita e sicura, un posto ideale in cui vivere”.

In molti tra la fanbase dei Capitals ancora oggi si chiedono come un giocatore dalle tue qualità non sia mai riuscito a trovare stabilità in NHL…
“Bisogna capitare anche al momento giusto nel posto giusto per trovare stabilità. A Washington in particolare ho trovato una squadra molto competitiva, con tanta profondità e qualità al centro, e quindi ritagliarmi uno spazio è stato sin da subito difficile, ma ho saputo cogliere quelle occasioni in caso di infortuni e assenze tra i titolari”.

È anche abbastanza inusuale vedere un giocatore restare per così tanto tempo in una franchigia nonostante non sia stato tra i titolari, qual è stato il segreto di tanta “longevità”?
“Con tutta l’organizzazione a Washington ho subito instaurato un ottimo rapporto e mi sono sempre trovato bene con tutti. Ho sempre dato il massimo in ogni situazione e questo è stato apprezzato dallo staff tecnico, che mi ha sempre trovato pronto quando venivo richiamato da Hershey per unirmi ai Caps. Con i passare delle stagioni ero diventato anche un punto di riferimento per i giocatori più giovani che cercavano consigli su allenamenti, salute e altre piccole cose. Credo che sia stato merito di una combinazione di tutti questi fattori a permettermi di rimanere così tanto in una franchigia nonostante non fossi un titolare”.

Cosa ha significato per te giocare, seppure a sprazzi, in una delle squadre più competitive dell’ultimo decennio?
“Ho potuto capire quanto fossero professionali certi campioni, avevo a fianco delle vere superstar ma nel contempo erano ragazzi umili che facevano di tutto per farti sentire a tuo agio. Ho imparato moltissimo da Niklas Bäckström per esempio, un ragazzo straordinario che mi ha insegnato tanto del “mestiere” di centro e la gestione del power play. Era una squadra con grandi professionisti e giocatori dalla grande intelligenza di gioco. Prendiamo come esempio anche Ovechkin, con l’età ovviamente ha perso esplosività e brillantezza, ma ha un’intelligenza e capacità di leggere il gioco tali che gli hanno permesso di essere decisivo di stagione in stagione fino ad oggi con numeri incredibili”.

Ovechkin che è stato il primo a complimentarsi per il tuo primo gol con i Capitals, tra l’altro…
“Ovi è una persona straordinaria, oltre ad essere il più grande giocatore con cui ho condiviso lo spogliatoio. Ti fa sentire sempre a proprio agio, prende il ruolo di capitano molto sul serio, vuole conoscere tutto di te, della tua famiglia e di come ti senti in squadra, specialmente con i giocatori come me che facevano su e giù dalle minors. Ogni volta l’accoglienza era la stessa, è veramente capace di farti sentire parte del gruppo in un attimo”.

A Hershey sei sempre stato considerato un leader della squadra, come cambiava la percezione quando “salivi” in NHL con i Capitals?
“Ho sempre cercato di essere un leader per quello che portavo sul ghiaccio e fuori, aldilà di dove mi trovassi, in AHL o NHL. Per me essere un leader significa essere un esempio e sfruttare l’esperienza acquisita per aiutare o spronare i compagni, magari i più giovani. Non basta quello che fai in pista ma ritengo sia molto importante anche la preparazione fuori dal ghiaccio, dove cerco di portare i miei consigli su allenamenti, recuperi ed esercizi prepartita. In NHL si gioca moltissimo e a un ritmo di partite molto intenso, ti toccano trasferte lunghe, voli notturni e orari sballati, per questo ritengo importante insegnare come comportarsi in determinate situazioni. Per il resto la leadership come tale non cambia da un luogo all’altro, cerco sempre di comportarmi alla stessa maniera e nel miglior modo possibile, di essere semplicemente me stesso”.

Sappiamo che conosci già Connor Carrick, il quale in fondo ha avuto una carriera simile alla tua…
“Lo conosco da avversario, è un difensore molto mobile, che sa usare il fisico ed è molto abile in power play, con un gran tiro. Ha un’ottima visione di gioco e inoltre è in gran forma fisicamente, sono sicuro che sarà una parte molto importante della squadra, so che saprà integrarsi velocemente e sono felice di averlo come compagno”.

Sei canadese, hai speso una carriera in Nordamerica e oggi trovi un coach svedese, cosa potrà cambiare per te?
“Certo sarà qualcosa di nuovo per me, ma ho accettato di venire qui ben sapendo che ci sarebbero state delle differenze. In fondo non c’è mai una sola maniera di fare le cose, ma la cosa fondamentale è che tutti siano convinti di quello che si fa e lo si faccia nella miglior maniera possibile per raggiungere l’obiettivo”.

Canadese, abbiamo detto, ma il tuo cognome rivela origini europee….
“Ho radici italiane da parte di entrambi i miei genitori, mia mamma è nata a Treviso, invece i genitori di mio papà sono nati a Padova. Il nonno partì per il Canada e trovò lavoro come carpentiere, mia nonna oggi ha 96 anni e lavora ancora nel suo giardino di casa. Non chiedetemi di parlare italiano però, perché non mi è mai stato insegnato nonostante mia mamma lo parli fluentemente, anche se avrei voluto e non so perché non lo fece. A volte mi aiuta la nonna quando ci sentiamo in videochiamata, ma lei ancora oggi mescola italiano, inglese e i suoi dialetti, quindi vedrò di imparare il più possibile nelle lezioni che seguirò qui a Lugano”.

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