AMBRÌ – È tuttora il giocatore ticinese con più titoli di campione svizzero nella bacheca, ben quattro. Manuele Celio ha scritto una pagina importante del nostro hockey. Un ventennio ai massimi livelli, dal 1982 sino al 2003, conditi da 832 partite in NLA, 276 reti e 298 assist. “Manu” è stato inoltre un pilastro della Nazionale disputando tra gli altri due Olimpiadi e nove Mondiali.
Una volta appesi i pattini al chiodo, l’oggi 58enne è rimasto nel mondo hockeistico svolgendo tanti ruoli in diversi club e soprattutto a livello di squadre nazionali giovanili. Dal 2018 è il direttore del settore giovanile dell’Ambrì Piotta. Con l’ex attaccante abbiamo parlato a ruota libera di passato, presente e futuro.
“Manu” cominciamo dal presente. In un certo senso hai chiuso il cerchio ritornando nuovamente ad Ambrì. Come va il lavoro e qual é il focus della tua attività durante il periodo estivo?
“Sono contento di essere ritornato in Leventina. Quando è iniziato il progetto attuale, nel 2017, Paolo Duca e Luca Cereda mi avevano contattato subito chiedendomi di tornare, ma non potevo ancora farlo. L’anno seguente invece fu possibile. Paolo e Luca mi hanno sottoposto una proposta interessante: dare una svolta al settore giovanile, rimetterlo in sesto e portare tutta l’organizzazione a compiere un passo in avanti. Abbiamo messo l’accento sulla formazione, cercando di mettere l’atleta rispettivamente il ragazzo al centro, con l’obiettivo di portarne il più possibile in NL. Attenzione però, il nostro è anche un compito educativo e di formazione. È favoloso poter fornire una piattaforma ai giovanissimi al fine di fargli rincorrere i loro sogni. In estate ci sono i campi di allenamento, si organizzano i piani e gli organigrammi. Le giornate sono un po’ meno piene rispetto all’inverno, c’è dunque il tempo per fare qualche giretto ad esempio in bicicletta”.
Com’è il tuo rapporto con Luca Cereda e Paolo Duca?
“In sostanza disputai gli ultimi anni della mia carriera agonistica al loro fianco. Loro muovevano i primi passi, iniziavano a farsi vedere e conoscere. Per qualche anno siamo stati compagni di squadra, con Luca ho anche spesso giocato in linea assieme, in un blocco completato da Petrov. Pure quando le nostre strade si sono divise professionalmente, abbiamo sempre continuato a vederci e sentirci. I contatti insomma sono rimasti e ho seguito le loro carriere. Essere qui ora ad Ambrì al loro fianco è speciale e bellissimo. Sono persone che lavorano con il cuore, tengono a questa realtà – come tutti noi – e cercano di tenerla in vita. Non è semplice, ma ci mettono veramente tanta passione. Tutti coloro che lavorano all’interno della società svolgono la loro attività con questa proprietà”.
Una volta smesso di giocare hai svolto diverse funzioni: coach, assistente, dirigente. Qual è la tua preferita?
“Quando ho terminato la mia carriera ho subito iniziato a lavorare nell’ambito del coaching, dove ho trascorso la maggior parte del tempo. Certo all’interno della Federazione svizzera ho anche svolto la parte organizzativa, stilare programmi, fare i vari piani e altro ancora, ma sono comunque sempre stato vicino al coaching e alle squadre. Il coaching è la mia passione più grande, sei alla balaustra e lavori a stretto contatto con i ragazzi. Ma anche dietro le quinte si fa un lavoro importante, si gettano le fondamenta e le basi di tutta la formazione”.
Tu hai iniziato a lavorare con i giovani ormai 20 anni or sono. In che modo è cambiato l’approccio e il modo di lavorare con i ragazzi in questo lasso di tempo, e quanto è cambiata la gioventù?
“In fondo non è cambiato tantissimo. I ragazzi adesso hanno però molte più possibilità d’informarsi e sono molto più curiosi. Anche tramite i social media possono vedere parecchie cose. Si è modificato un po’ l’approccio. Una volta c’era il coach, aveva la sua filosofia, la sua tattica e si andava in quella direzione. Adesso invece c’è maggiore flessibilità, si cerca inoltre di convincere maggiormente e fare capire ai giovani che non ci sono scorciatoie. L’unica cosa che paga è il lavoro duro e non basta seguire l’allenatore alla transenna. È il ragazzo che deve fare il lavoro, è lui il responsabile di sé stesso. I club, gli allenatori, gli agenti sono a disposizione per migliorare, quello sì, ma la figura decisiva e centrale è l’atleta, il ragazzo. Insomma non è sufficiente andare all’allenamento, tornare a casa, pensando che prima o poi si arriva al professionismo. Solo i pochi che capiscono tutto questo raggiungono i massimi livelli”.
Immagino che a volte ti capiti di dover dire a un ragazzo che non avrà un futuro da giocatore. Penso non sia evidente rompere il sogno a un teenager. È la parte più dura del tuo ruolo?
“Succede molto spesso, d’altronde solo il 2-3% riesce ad arrivare a guadagnarsi da vivere con il professionismo. Per fortuna la maggior parte dei ragazzi lo capisce e se ne rende conto in anticipo. Già dagli U15 agli U17 il numero di squadre diminuisce di molto. Anche quest’anno ovviamente ci sono dei ragazzi della U17 che non sono riusciti a entrare nella U20. È sempre dura doverlo comunicare ai diretti interessati. La maggior parte come detto ne è conscia, ma in alcuni casi è un dramma. È un po’ come ai Mondiali U20. Prima del torneo ti rechi in loco con 2-3 elementi in esubero e poi alla vigilia di Natale devi dire a chi è di troppo di prendere l’aereo per tornare a casa dato che è stato tagliato. Sono brutte cose. Poi dipende anche dal carattere e dalla reazione dei ragazzi, non deve essere necessariamente il capolinea. Guardate ad esempio i casi di Mark Streit e Martin Gerber… Alla fine sono arrivati in NHL”.
Parliamo del Manu giocatore. Fu una scelta difficile da 20enne lasciare la comfort zone della Leventina per andare a Kloten? Erano comunque altri tempi, non era la prassi, sei stato una sorte di precursore…
“A quei tempi non c’era ancora proprio il vero professionismo. Non ci s’immaginava una carriera ventennale finanziariamente ben remunerata. Io avevo ottenuto la maturità, all’epoca in Ticino non c’erano le varie USI o SUPSI. Volevo proseguire con la via accademica e cercai delle soluzioni. Originariamente non pensavo di andarmene, giocare per ben 11 anni a Kloten e costruirmi lì una vita. Non sapevo nemmeno se fossi riuscito a sfondare nell’hockey, anche se i presupposti c’erano e avevo già giocato qualche match con la Nazionale. Negli anni ’80 l’aspetto extrasportivo era più importante in questo senso. A Kloten però mi trovai in fretta bene e oltretutto conquistammo immediatamente due accessi alla finale in cui perdemmo contro il Lugano. Lasciare l’Ambrì fu comunque duro all’inizio, non fu semplice e fui contentissimo nel 1998 di poterci tornare a e concludere la mia carriera disputando una finale e vincendo la Continental Cup e la Supercoppa europea. A Kloten e ad Ambrì c’è il mio cuore”.
Direi che puoi essere contentissimo della tua carriera, l’apice ovviamente sono i quattro titoli vinti consecutivamente con gli aviatori in una squadra veramente da sballo…
“Chiaramente. La squadra era forte. Dietro c’era Pavoni, un gran portiere e avevamo degli ottimi stranieri. Davanti c’era una linea con Hollenstein e Waeger, poi un’altra con Schlagenhauf e il sottoscritto. In difesa c’era ad esempio Martin Bruderer. Lo zoccolo duro del team rimase assieme dal 1988 al 1996. Insomma crescemmo tutti insieme, c’erano le individualità, il talento, ma la nostra forza era quella del gruppo. Eravamo una grande famiglia, si respirava un magnifico ambiente”.
Lo sapevi che sei ancora il ticinese (escludiamo Genoni ndr) ad avere vinto più titoli?
“Non lo sapevo. Io non guardo molto queste statistiche. So però di essere uno dei ticinesi ad avere giocato il maggior numero di partite nella Nazionale e uno dei pochi a essere stato inserito nella Hall of Fame elvetica (l’altro è Peter Jaks ndr)’”.
Ti ha fatto male vedere il Kloten e tutte le sue peripezie in questi ultimi anni, tra retrocessione e problemi finanziari?
“Certo, quando hai trascorso tanto tempo in una realtà e conosci molta gente, non fa piacere vederla in difficoltà. Purtroppo però alla fine non puoi fare molto per aiutare. Noi ex giocatori in passato abbiamo cercato di dare una mano, soprattutto nei confronti dei tifosi organizzando qualche evento, ma ribadisco, si può fare poco”.
A proposito di dolori. La finale persa nel derby del 1999 contro il Lugano resta la delusione più grande della tua carriera?
“Sì. Qualche giorno fa, in occasione del passaggio del Tour de Suisse, sono stato invitato a Carì dalla televisione svizzera tedesca per un’intervista. Ho detto pure a loro che l’unica cosa che mi è mancata nella carriera è questo titolo. Avremmo dovuto vincerlo dopo una stagione del genere”.
Scambieresti due dei quattro titoli vinti con il Kloten in cambio appunto di quello del 1999 con l’Ambrì Piotta?
“Direi proprio di sì, anche ad averne uno in meno sarebbero ancora abbastanza (Manu ride ndr)”.
Sei stato uno dei pochi ad aver giocato in Leventina con due vere icone, ovvero Dale McCourt e Oleg Petrov…
“Sono due persone diverse. Dale era il leader silenzioso. Portava l’esempio di come andare avanti e creava un ambiente pieno di fiducia. Si caricava di peso la squadra nei momenti topici e difficili. Basta pensare alla promozione in LNA e ai primi anni in questa categoria. Io ero giovanissimo, avevo circa 18 anni, lui per me era fonte d’ispirazione per come sapeva gestire gli attimi delicati. Ho imparato moltissimo da lui, mi ha fatto vedere cosa vuol dire essere un leader. Quando giocai con Petrov ero invece già in là con gli anni e l’ho dunque vissuto in maniera differente. Oleg aveva una velocità e un’intelligenza di gioco incredibile. Rispetto a McCourt aveva un’altra mentalità e un approccio diverso. Petrov era capace di risolvere la partita da solo con le sue giocate, nei momenti cruciali lui emergeva. Essere suo compagno di blocco era molto bello”.
Anche la Nazionale è stata una parte importante della tua vita e lo è tuttora. A mio avviso l’emozione più grande che hai vissuto è stata l’Olimpiade di Calgary nel 1988, la patria dell’hockey. Ho ragione?
“Probabilmente sì: la vittoria all’esordio contro la Finlandia, il diploma olimpico e giocare in Canada. Fu davvero speciale. C’era una grandissima atmosfera, fu magnifico vivere il villaggio olimpico e avevo solamente 22 anni. L’esperienza del 1992 ad Albertville fu un po’ meno elettrizzante, non c’era lo stesso entusiasmo. Come altro highlight aggiungerei il quarto posto ai Mondiali di Praga nel 1992 con John Slettvoll in qualità di allenatore. Fu forse la prima volta che la Svizzera riuscì a mischiare un po’ le gerarchie e ad issarsi ai piani alti”.
I Celio sono stati una grande dinastia. È sempre difficile paragonare diverse epoche e ruoli, ma per te chi è stato il Celio più forte di tutti?
“È dura da dire. Citerei Bixio Celio (il padre di Brenno, giocò tra il 1948 e il 1961 nell’HCAP ndr) . È stato uno dei primi che ha veramente portato il nome Celio in Nazionale. Bixio ha insomma per così dire fatto conoscere la Leventina al resto del Paese, è stato un grande. Anche mio padre, (Cipriano detto Cipi, giocò ad Ambrì dal 1957 sino al 1974 ndr), ha fatto veramente molto per l’hockey ticinese. Lui a differenza mia rimase sempre in Leventina. Ce ne sono stati tanti altri, tutti meritevoli”.
Dal 2009, da quando Nicola ha smesso, non c’è più stato un Celio ai massimi livelli, ti rammarica ciò? Come te lo spieghi?
“Difficile fornire una spiegazione. Diciamo che l’imbuto è sempre più corto. Un paio ci hanno provato senza riuscirci, fa parte dell’evoluzione. Non mi faccio tanti pensieri a tal proposito, non mi rammarico di non vederne, anche se ovviamente sarebbe bello riammirare un Celio in LNA”.
Secondo te quanto dovremo aspettare per rivederne uno? C’è magari qualche nipote che potrebbe arrivare?
“Non è evidente fare previsioni, mai. Il figlio di Enzo gioca a hockey, ma è solamente a livello di U11 quindi è decisamente prematuro sbilanciarsi. Tra qualche anno scopriremo se lui magari riuscirà a emergere. C’è poi anche il figlio di mio fratello Daniele, che milita nella U15”.
Tuo figlio Yannic, ora trentenne ci aveva provato, è arrivato sino alla LNB, ma non è riuscito a fare il grande salto per diventare professionista. Come mai a tuo avviso? Non aveva il talento del papà, oppure una questione di testa. Magari anche sfortuna?
“Dire che è un po’ l’insieme degli argomenti citati. Sicuramente un infortunio al crociato lo ha frenato. Probabilmente inoltre non aveva quel qualcosa in più per potersi affermare stabilmente nella massima lega. Nella divisione cadetta, specie nei farm team, è dura guadagnarsi da vivere, quindi ha optato per la via degli studi. Io non l’ho mai forzato e non ho mai puntato a farlo diventare un giocatore professionista. Gli ho sempre lasciato fare tutto quello che voleva. Certo sarei stato orgoglioso di vederlo ai massimi livelli, ma lo sono in uguale maniera per il fatto che abbia completato la sua formazione professionale. Ogni tanto alcuni genitori vogliono per così dire vivere la vita del figlio e vogliono assolutamente che diventi un giocatore. Ciò è sbagliato. È giusto sostenere i figli, quello sì, ma senza diventare estremi e non c’è nulla di cui vergognarsi se il ragazzo non riesce ad imporsi”.
A 58 anni dove vedi il tuo futuro? Resterai sino alla pensione in Leventina o non escludi qualche nuova avventura?
“Non mi faccio grandissimi pensieri. Adesso ad Ambrì mi trovo bene e sono molto contento. Ho ancora tre o quattro progetti che vorrei portare avanti qui. Non ho grandi piani per il futuro. Se dovesse presentarsi una grandissima nuova opportunità, un’esperienza stimolante, non sono il tipo che direbbe di no, ma non è nei piani e non è un obiettivo. Il mio obiettivo è di portare avanti quanto iniziato ad Ambrì e compiere ulteriori passi nella giusta direzione”.
A proposito di futuro. L’anno scorso eri subentrato in qualità di coach della U20 al posto di Stefan Mair, partito alla volta di Kloten. Il posto di allenatore è adesso vacante, a che punto siete?
“Stiamo valutando come agire in base alle pedine e alle risorse a nostra disposizione. Appena avremo qualcosa di definitivo faremo un comunicato”.
Siamo arrivati alla fine Manu, grazie mille per il tuo tempo. Erano più impegnative le domande del mio babbo, quando eri suo allievo alle scuole medie alla fine degli anni ’70, o le mie?
“(Manu ride ndr) Direi quelle del papà, anche se faccio un po’ di fatica a ricordare… Ormai ne è passato di tempo”.