RIGA – Tanner Richard è stato uno degli artefici del titolo del Ginevra, uno dei leader carismatici della squadra di Cadieux. Lo abbiamo incontrato, come sempre schietto e senza peli sulla lingua. Una discussione a ruota libera: dalla Nazionale sino alla famiglia, passando per le abitudini alimentari e la sua discussa frase inerente all’ambiente della Cornèr Arena.
Tanner Richard, mancavi a un Mondiale dal 2017, sei stato sorpreso di questa convocazione?
“Non so se sorpreso sia la parola giusta. Ovviamente non avevo certezze. Sapevo di giocare a un livello alto e so che se gioco il mio miglior hockey c’è un posto per me nella Nazionale. Era così già in passato. Ovviamente però ci sono tanti altri centri svizzeri forti, non è facile il compito di Patrick Fischer. Credo di essermi meritato la convocazione, ma non sai mai cosa passa nella testa del selezionatore. Sono quindi molto contento che mi abbia chiamato”.
Nei playoff abbiamo visto il miglior Richard di sempre?
“Direi il più completo, il mio ruolo in questi anni è un po’ cambiato, specialmente ora con i sei stranieri. All’inizio ero principalmente un’arma offensiva. Chiaro pure difensivamente davo il mio apporto, ma quando si trattava di segnare, si guardava a me prima di altri. Il peso era sulle mie spalle. Adesso invece ho un ruolo un po’ più difensivo, una sorta di ruolo two-ways continuando ad avere anche compiti offensivi. Questo ruolo l’ho accettato e mi calza a pennello. Già due anni fa con Vermin e Rod avevo compiti simili, affrontavamo spesso le migliori linee avversarie. È sempre stimolante, dimostra che il coach ha fiducia in te”.
Una delle tue specialità sono gli ingaggi, da dove nasce questa capacità?
“Non puoi scegliere il tuo talento, sarei stato volentieri un pattinatore come Malgin. Sono sempre stato sopra la media in questo tipo di esercizio. Specialmente nel mio primo anno in AHL, quando non ricevevo molto spazio, mi sono detto che avrei dovuto fare in modo di meritarmi più tempo di ghiaccio. In questo senso mi sono dato da fare per trovare un esercizio dove altri non erano così bravi. Ho quindi pensato che affinando la mia tecnica d’ingaggio avrei potuto trovare più spazio ad esempio in boxplay, oppure in powerplay e poi magari piazzarmi davanti al portiere. Ho dunque iniziato ad allenarmi molto in questo campo. Guardavo tanti video dei migliori centri NHL agli ingaggi, facevo filmare i miei e studiavo pure quelli degli avversari. Questo continuo a farlo. Ad esempio ho già visionato i video dei centri delle prossime quattro nazionali che affronteremo. Ogni centro ha una tecnica differente, nessuno fa gli ingaggi allo stesso modo, è dunque importante sapere chi e cosa ti trovi di fronte”.
Sono passate un paio di settimane dal trionfo in finale con il Ginevra, quali sono i tuoi sentimenti ora?
“È strano. Festeggiare a fondo un titolo è una situazione non evidente se poi vai ai Mondiali, ma non intendo negativamente. Alzi la coppa e spegni l’interruttore. Ho trascorso praticamente quattro giorni da ubriaco. E dopo quei quattro giorni l’ho di nuovo riacceso e ho dovuto tagliare praticamente i ponti con Ginevra. È stata forse la situazione più difficile della mia carriera da gestire, idem per Mayer e Miranda. Specialmente i primi giorni, ne abbiamo discusso parecchio tra di noi. Ma ora non penso più al Ginevra, adesso il mio lavoro è qui e sarebbe bellissimo vincere una seconda medaglia”.
Tuo papà Mike è una leggenda, è stato un vantaggio o uno svantaggio essere suo figlio? Hai provato pressione con un cognome così prestigioso?
“Ho capito in fretta che non sarei mai diventato forte come papà, e l’ho accettato. Quello che lui ha fatto in Svizzera è incredibile e raro da vedere. Chiaro era un altro tipo di hockey, un altro tempo e certe statistiche al giorno d’oggi sono ormai irrealistiche da raggiungere. Da ragazzo a Rapperswil sentivo parecchio la pressione. È una piccola città, ma con tanti tifosi. Ogni volta che facevo una cazzata sentivo dire “è il figlio del Mike”. Non potevo magari nascondermi come altri. D’altro canto però essere suo figlio mi ha aperto qualche porta ed è l’altra faccia della medaglia. Quando giocavo anche lì c’era la frase “guarda, è il figlio di Richard” e magari mi osservavano maggiormente. Ho comunque dovuto trovare da solo la mia via. Sono andato presto oltreoceano e lì non interessava a nessuno chi fosse mio padre, c’erano i papà che erano ex star di NHL. Mi ha fatto bene allontanarmi e lasciare alle spalle il suo fardello, per così dire. Quando sono rientrato in Svizzera la musica non è cambiata inizialmente e anche per quello ho deciso di andare in Romandia. Chi era uno sfegatato di hockey conosceva mio papà, ma non era una presenza così grande. Era importante per me, ho sempre voluto costruire la mia propria carriera e fare in mondo che la gente dica “questo è Tanner Richard”, e non “è il figlio di Mike”. Credo di esserci riuscito”.
Parli ancora con papà di hockey, ti dà consigli, oppure avete un rapporto esclusivamente familiare?
“Per prima cosa è mio padre e uno dei miei migliori amici. Questo viene prima dell’hockey. Ovviamente guarda ogni mia partita. È incredibile il supporto che mi hanno dato i miei genitori, quando parlo e penso a cosa hanno fatto per me mi viene la pelle d’oca. Papà mi vuole sempre aiutare e farmi progredire, vuole vedere la mia miglior versione. Mi chiede sempre se voglio la sua opinione. Quando gioco male, dopo una brutta partita, sa però benissimo che per 1 o 2 giorni non deve farsi vivo. L’hockey è parte integrante della nostra famiglia, anche mio fratello lo pratica. Quando siamo seduti a un tavolo è impossibile trascorrere più di mezzora senza parlarne e purtroppo mia mamma e mia moglie devono sorbirsi il tutto, ma sapevano a cosa andavano incontro. Il mio babbo già da bambino mi dava consigli, io pensavo sempre “non ha nessuna idea”. Quando però mi resi conto che il nostro allenatore ripeteva sempre le stesse cose mi dissi “forse papà sa di quello che parla”. Ora sono disposto ad ascoltarlo maggiormente e mi dà consigli preziosi, vede aspetti che magari altri non vedono anche perché lui si concentra solo su di me e non sul disco”.
Si dice che tu sia un po’ pigro e hai la fama di non seguire proprio un’alimentazione ideale per uno sportivo. Che ci dici a tal proposito, verità o leggende?
“Un pochettino entrambi. Affermare che sia pigro non lo trovo così giusto. Ho comunque dovuto fare tanto per arrivare a questi livelli e poter disputare 50 partite di regular season, dei playoff del genere e ora giocare i Mondiali. Ma la gente può dire quello che vuole, io so chi sono e cosa faccio. Che non sia il tipo che dopo una partita prenda degli shake di proteine o altre vitamine è vero. Ho altre alimentazioni rispetto ad altri. Il fatto che mangi chissà quanto al McDonald’s è tutto amplificato. Uno lo riferisce a un altro, l’altro a un’ulteriore persona e parte una catena, ognuno esagera la versione e alla fine risulta che ho svuotato l’intero fast food, mentre magari ho solo mangiato un hamburger due giorni prima di una partita. Ma come detto, le persone possono parlare. Non mi piace l’acqua, adoro l’aranciata, a volte mi piace bermi una birra, ma senza esagerare. Faccio cose diverse dagli altri ma la mia via mi ha portato sino a qui e di questo ne sono fiero. Ci sono sicuramente colleghi che mangiano più sano, fanno più attenzione, ma ogni corpo reagisce diversamente. Guarda Phil Kessel, ogni giorno mangia hot-dog e beve sempre Coca-Cola, eppure ha giocato più di 1’000 partite in NHL consecutivamente. Ho più grasso in corpo rispetto ad esempio a un Miranda, ma siamo arrivati allo stesso livello. Si può dire tutto quello che si vuole, ma quando il disco viene buttato in pista sono forte come gli altri se non di più. Conta solo quello, la prestazione”.
L’ultima domanda è d’obbligo… Quella famosa frase detta durante la serie contro il Lugano nei confronti dei fans bianconeri, un mese dopo a bocce ferme cosa ci dici?
“Ora devo stare attento (Richard ride ndr.), altrimenti riparte un’altra ondata di casino. Avrei magari potuto formulare il tutto in maniera un po’ più educata. Ma io sono così, dico quello che penso e non m’importa di cosa pensino gli altri a tal proposito. Ora in Ticino mi odiano, ma non m’interessa, non mi conoscono. A me interessa solamente cosa pensano la mia famiglia e i miei amici di me, e loro sì che mi conoscono. Non perché ho detto quella frase, vuol dire che sono un coglione. Ribadisco la mia opinione. Gettare oggetti sul ghiaccio non si fa, anche se non si è contenti di una decisione arbitrale. Pagare 30 o 40 franchi il biglietto di entrata non ti dà il diritto di comportati in questa maniera incivile. Ci sono bambini presenti, e vedono degli adulti che buttano in pista delle cose a causa di una decisione degli arbitri. Ma dove siamo? Non si vede in quasi nessun altro paese questo atteggiamento. Ne ho discusso pure con Alessio Bertaggia, lui dice che è inerente alla cultura. Per me non è una scusante, è inaccettabile. Tanti altri giocatori la pensano come me, ma nessuno lo dice. In tantissimi mi hanno scritto, sia giocatori che non, anche gente che si scusava per l’accaduto. Ma intendiamoci, non mi riferisco solamente a Lugano, anche a Ginevra ne ho parlato con i nostri tifosi, gli ho detto di portare rispetto verso gli atleti e la manifestazione. “Fate il vostro lavoro, sostenete la vostra squadra, noi facciamo il nostro e lasciateci giocare”. Poi spesso non aiuti nemmeno i tuoi pupilli facendo così. Il Lugano aveva il momentum e con quel lancio di oggetti i fans non hanno di certo aiutato il loro club. Meglio usare l’energia per fare tifo. Ora dicono di pensare a me stesso e che la mia opinione non interessa, ma io ho semplicemente risposto a una domanda di un giornalista. Non è che ho scritto dal nulla un tweet a tal proposito. E poi appunto, è solo il mio pensiero, non dico che sia quella giusto, ma è il mio”.