È un orgoglio che fa parte della natura stessa dell’hockey, quello che i giocatori provano nella volontà di stringere i denti e non mollare mai. C’è però chi porta questa filosofia a un livello superiore, rifiutandosi di gettare la spugna e scendendo in pista nonostante degli infortuni che metterebbero KO la maggior parte di noi. Nell’era moderna nessun esempio è più azzeccato di quello dell’ex bianconero Patrice Bergeron, che nella finale per la Stanley Cup 2013 diede prova di una volontà fuori dal comune.
In quel caldo mese di giugno i Boston Bruins erano alla caccia del loro secondo titolo nel giro di tre anni e – dopo l’avventura alla Resega durante il lockout – il centro canadese si stava rendendo protagonista di una nuova eccezionale stagione.
I playoff iniziarono in maniera pazzesca. Il primo turno costrinse i Bruins a giocare sette partite contro Toronto, e nell’ultima decisiva sfida i Maple Leafs si ritrovarono in vantaggio per 4-1 al TD Garden nel terzo periodo. Boston imbastì però una rimonta storica, raddrizzando il risultato nell’ultima decina di minuti e vincendo poi match e serie all’overtime.
Tra gli artefici dello storico collasso di Phil Kessel e compagni ci fu proprio Bergeron, che firmò il 4-4 a soli 51’’ dalla terza sirena e poi condannò all’eliminazione gli avversari segnando il game winning goal.
Da quell’incredibile serata sino all’inizio della finalissima i Bruins persero solamente un’altra partita, eliminando i Rangers per 4-1 e sbarazzandosi con uno sweep dei Penguins. Nell’ultimo atto della stagione li attendevano però i Chicago Blackhawks, in una sfida che si preannunciava eccezionale contro i vincitori del Presidents’ Trophy.
Gara 1 non deluse le aspettative. Per decretare un vincitore si arrivò addirittura sino al terzo overtime, quando Andrew Shaw riuscì finalmente a trovare un pertugio alle spalle di Tuukka Rask regalando la vittoria ai Blackhawks. Era chiaro a tutti che la serie sarebbe stata lunga e, soprattutto, durissima.
Per Patrice Bergeron la salita che portava alla Stanley Cup diventò ripidissima a partire da Gara 4, quando uno scontro con Michael Frolik gli provocò uno strappo alla cartilagine costale. Il numero 37 continuò a giocare, ma il dolore divenne quasi insopportabile nelle prime battute di Gara 5, quando il canadese fu costretto ad alzare bandiera bianca dopo appena due cambi.
Bergeron aveva subito un altro colpo al costato e, nonostante i tentativi di tornare in pista tra il secondo ed il terzo tempo, la preoccupazione dei medici convinse infine il giocatore ad essere trasportato all’ospedale.
Con la serie sul 3-2 in favore di Chicago, la volontà di Bergeron era naturalmente quella di dare una mano ai suoi compagni e scendere in pista anche in Gara 6, ma i dubbi sulla sua presenza sul ghiaccio erano parecchi. Alla lista dei suoi infortuni si era aggiunta una frattura al costato, ed il dolore era praticamente insopportabile.
“Nella mia mente non c’era alcun dubbio, sarei sceso in pista”, aveva spiegato Bergeron al Chicago Tribune. “Speravo che il dolore se ne andasse, ma non fu il caso. Dovevo trovare un modo per gestirlo, ed i dottori mi dissero che solamente tramite un intervento di blocco nervoso avrei potuto giocare. Così ho fatto”.
Le sofferenze per Bergeron non erano però finite. Iniziata la partita il canadese incassò già nel primo periodo un altro durissimo colpo, che gli provocò la dislocazione della spalla destra e la perforazione del polmone sinistro. Nonostante questo giocò senza tirarsi indietro per un totale di 17’45’’, ma non riuscì ad impedire il trionfo dei Blackhawks, che conquistarono la coppa grazie a due gol nel giro di 17 secondi, tra il 58’44 ed il 59’01.
Mentre da un lato della pista Chicago festeggiava la Stanley Cup, dall’altro Bergeron doveva gestire – oltre la delusione per la sconfitta – gravi problemi respiratori. “È stata una brutta sensazione, quasi come se il mio petto si stesse stringendo sempre di più”, aveva ricordato. Qualche minuto dopo era su un’ambulanza diretto al Massachusetts General Hospital. “Solo a quel punto abbiamo realizzato che il mio polmone era collassato”.
Il suo gesto non mancò di ispirare i suoi compagni, su tutti David Krejci: “Poco importava il numero di minuti che avrebbe giocato, il solo averlo in panchina ha dato a tutti grandissima energia. Siamo una squadra che vuole sempre lottare l’uno per l’altro. Mi ha reso felice vederlo giocare, non è stato semplice… È un guerriero, ed ama la sua squadra”.
La sua degenza non durò molto. Dopo tre giorni passati all’ospedale Bergeron ha potuto fare rientro a casa ed il suo pensiero era uno soltanto. “Sarò pronto per l’inizio del camp! Tutti gli altri ragazzi in squadra avrebbero fatto lo stesso, quando si arriva ad un certo punto si deve fare tutto per vincere. Non mi dovete fare alcun complimento, non sono l’unico che ha giocato stringendo i denti”.