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Interviste

Thomas Haas, il sogno al fianco di MacKinnon: “Era incredibile, ma ora mi sono reinventato”

Il ticinese ha giocato con l’attuale stella degli Avalanche, ed ora milita nel St. Moritz: “Una volta tornato in Svizzera mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ero deluso, ma oggi sono contento del mio percorso”

ST. MORITZ – Thomas Haas, classe 1995, nato e cresciuto a Lugano, difensore del St. Moritz, attivo in seconda lega. Nathan MacKinnon, canadese, superstar dei Colorado Avalanche, fresco vincitore della Stanley Cup con all’attivo 112 punti. Il primo praticamente non ha introiti hockeyistici. Il secondo incassa oltre 6 milioni a stagione e dall’anno prossimo dovrebbe firmare un nuovo contratto che gliene garantirà circa il doppio.

Un legame hockeistico tra i due è pura utopia a prima vista. L’apparenza però a volte inganna, i due sono stati compagni di squadra durante l’arco di due campionati. Sì, avete letto bene. Ma partiamo dall’inizio, dall’ormai lontano 2009. Thomas racconta la sua storia ambientata a Faribault, una cittadina di circa 25mila abitanti situata a un’ottantina di chilometri a sud da Minneapolis.

Thomas, come arrivasti nel Minnesota?
“Mio padre, titolare di un albergo a Lugano, ai tempi collaborava con l’HCL. Gli stranieri e a volte chi veniva da oltre Gottardo, freschi di trasferimento, soggiornavano da lui durante il primo periodo di transizione. Uno di questi fu Brady Murray, lui rimase più del solito in hotel e diventammo amici. Mangiavamo insieme, a volte veniva pure a vedere i miei allenamenti. Brady mi parlò di una scuola, la Shattuck-St. Mary’s, dove suo padre, il famoso Andy, allenava (e che negli anni ha visto nelle loro fila giocatori del calibro di Crosby, Toews e Parise, e gli ex “ticinesi” Malone, Clarke e Micflikier ndr.). Dopo aver discusso con mio papà, nella Pasqua del 2009 andai a fare un provino e partecipai a delle giornate informative. Tutto andò bene e fui ammesso alla scuola”.

Fu decisamente un cambiamento brusco…
“Beh, recarsi a soli 14 anni senza famiglia dall’altra parte del mondo era una scelta azzardata e coraggiosa, ma anche una gran bella opportunità. Ci furono alti e bassi. Vi trascorsi quattro anni, nei primi tre abitavo in un internato, avevo in sostanza la mia cameretta nel campus. Era un luogo che ti permetteva di frequentare il liceo e in contemporanea di allenarti praticamente quando volevi. Era tutto programmato, l’ideale per inseguire il sogno di diventare un vero giocatore di hockey”.

E con te, durante i primi due anni, c’era appunto Nathan MacKinnon. Capisti già allora di avere di fronte un fuoriclasse, una futura stella di NHL?
“Nella mia lunga gavetta nelle giovanili ci sono stati solamente due compagni di cui ero sicuro che avrebbero fatto carriera: il primo – e forse qualcuno adesso sorriderà – è Luca Fazzini a Lugano, il secondo proprio MacKinnon. Non avevo nessuna idea di chi fosse, ma dopo i primi allenamenti mi aveva già impressionato. Disponeva di una grande visione di gioco, era agile, dotato di un ottimo pattinaggio e di una grande tecnica di bastone. Certo, non avrei potuto garantire che sarebbe diventato una prima scelta di un Draft, questo no. Era incredibile, alle nostre partite la tribuna era sempre piena di scout, il numero sui loro taccuini era solamente uno, ovvero il 9, quello di Nathan”.

Che ragazzo era caratterialmente?
“Molto semplice, veniva da una famiglia umile, un ragazzo qualunque, per nulla arrogante e molto disponibile. Era alla buona, a tavola ad esempio non era raffinato. Andavamo d’accordo, da lì a dire che fosse il mio migliore amico ne passava, ma avevamo un buon rapporto… D’altronde giocavamo e frequentavamo insieme la scuola, dunque era normale. Parlavamo di tutto, i classici discorsi d’adolescenti”.

MacKinnon totalizzò 101 rispettivamente 93 punti in quelle due stagioni. Spulciando la lista dei tuoi compagni balza all’occhio un certo Taylor Cammarata, che di punti ne fece prima addirittura 170 e poi 139. Draftato al terzo turno dagli Islanders, questo ragazzo ha giocato solo nella modesta ECHL e l’anno scorso ha appeso i pattini al chiodo. Insomma non sempre essere una macchina da punti da ragazzini è garanzia di successo…
“Lui e Nathan erano le nostre due punti di diamante. A prima vista Taylor non sembrava un giocatore di hockey. Era però molto veloce, il tipico attaccante con il fiuto del gol, ma attenzione, il sistema delle statistiche a quei livelli ha delle falle, sicuramente di quei 170 punti se ne devono scalare un po’. E poi appunto, avere dei buoni numeri è sì importante, ma non è tutto, ci sono tanti altri compiti all’interno di una squadra, magari ancora più fondamentali. Non tutti riescono a fare una grande carriera. Dei miei altri ex compagni sono pochi ad aver fatto tanta strada , tra loro c’è il difensore Ian McCoshen (60 partite in NHL con i Florida Panthers, ndr)”.

Hai ancora contatti con MacKinnon, tramite social network ad esempio, oppure via cellulare?
“Il suo numero nella mia rubrica è sempre salvato, ma francamente non so se sia ancora attuale. Io lo seguo evidentemente sui vari social network, dopo la conquista della Stanley Cup gli ho inviato un messaggio e mi ha risposto ringraziandomi”.

Ora è tempo di quiz, ci sono stati altri ticinesi oltre a te che hanno giocato accanto a futuri vincitori di una Coppa Stanley?
“Probabilmente Luca Cereda…. E forse Sannitz”?

Da nostre ricerche il coach dell’Ambrì un po’ a sorpresa non rientra tra questi, mentre l’ex bianconero invece sì. Raffaele giocò nella stagione 2004/05 nei Syracus Crunch con François Beauchemin (Stanley nel 2007 con Anaheim). Anche Pauli Jaks durante i suoi 40’ con i Kings era al fianco di futuri trionfatori, ovvero Warren Rychel e Sean O’Donnel. L’ultimo ticinese ad aver avuto questo onore è invece Misha Moor. Il difensore dei Rockets giocò a Oshawa con Anthony Cirelli, vincitore di recente di ben due Stanley con Tampa. A loro si aggiungono ovviamente coloro che giocavano a Lugano con Huet e chi affiancava Kamensky ad Ambrì. Infine il compianto Peter Jaks, Paolo Duca e Mattia Baldi giocarono con Streit nello ZSC. Tanti nomi prestigiosi, la maggior parte con alle spalle una signora carriera. Tu invece non hai sfondato, come mai? Provi delusione?
“Credo che la svolta in negativo sia giunta a Rapperswil. Arrivavo con l’etichetta di uno che era stato in America, avevo giocato nella Nazionale Under 18, ma non ero pronto a fare il grande salto e fui buttato troppo presto nella mischia. Ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Mi allenavo con la prima squadra, a ogni seduta in sostanza c’era un allenatore diverso tra i vari Eldebrink, Zeiter e Rogenmoser, non era evidente per un giovane come me. Poi intendiamoci, sicuramente c’era anche gente semplicemente più brava del sottoscritto. Dopo due anni negli Juniori Elite era comunque pronto per me un contratto valido con l’Herisau. La società appenzellese sarebbe dovuta diventare il farm-team del Rapperswil e giocare dunque nella lega cadetta. I sangallesi però furono relegati dalla NL e quindi il progetto andò in fumo. Tornai in Ticino, partecipai ai provini per entrare nei primi Ticino Rockets, purtroppo m’infortunai a una spalla e da lì ci fu una cascata di eventi e puntai sulla formazione scolastica. Inizialmente ero deluso, avevo fatto tanti sacrifici, c’era un po’ di frustrazione. Ancora oggi mi capita a volte di pensare che magari ad esempio se mi fossi allenato di più sarebbe andata in un altro modo, ma ormai è tardi e non si può tornare indietro”.

Hai comunque fatto tanta strada e puoi sicuramente essere fiero del tuo percorso lavorativo…
“Sono riuscito a reinventarmi dopo una vita trascorsa a giocare a hockey, ho conseguito il diploma federale di massaggiatore e sono molto contento della mia scelta. Questo lavoro mi permette di continuare a lavorare nell’ambito sportivo. Lavoro a St. Moritz in una clinica di riabilitazione post operazioni inerenti in particolar modo ginocchia, spalle e anche. Spesso sono a stretto contatto con sciatori. Un giorno mi piacerebbe lavorare nel ramo hockeyistico o calcistico, magari in un club ticinese”.

E a St. Moritz militi in seconda lega. Insomma l’hockey resta una droga, poco importa il livello…
“È sempre magnifico andare sul ghiaccio, la società è organizzata bene. Ci alleniamo dalle tre alle quattro volte settimanali oltre alla partita. Logicamente se si manca una seduta non è la fine del mondo. Giochiamo in un impianto scoperto, ha quel bel sapore di antico. Il livello rispetto a una quindicina di anni or sono si è alzato. Tra i miei compagni di squadra c’è una vecchia conoscenza dell’hockey ticinese, Gian-Marco Crameri. A 48 anni si è riciclato difensore, gioca con un bastone molto lungo al fine di dover pattinare meno per recuperare il disco specialmente negli angoli. Nonostante l’età fa ancora una gran bella figura, la sua visione di gioco è rimasta quella dei bei tempi”.

I bei tempi, già. Come quelli del “Thomas da Lügan”, il ragazzino 14enne al fianco della futura grande star dell’hockey canadese, Nathan MacKinnon.

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