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Interviste

Suri: “Passare dai bagordi all’ospedale è stata dura, il titolo la ricompensa dopo tanto lavoro”

L’attaccante si racconta dopo la finale finita in stampelle ma con un grande sorriso: “Una sensazione magnifica, indescrivibile. La medaglia d’argento ai Mondali del 2013? La metterei un pochino più in basso nella bacheca”

JustPictures / Philipp Hegglin

ZUGO – La sua esultanza sul ghiaccio, munito di corazza, pattini e maglia è stata una delle fotografie più splendide della scorsa stagione. Le epiche scene conseguenti alla conquista del titolo hanno fatto il giro di tutta la Svizzera. Nonostante il suo grave infortunio al ginocchio patito in Gara 4 della finalissima, Reto Suri è stato tra i protagonisti della cavalcata vincente dello Zugo.

Reto, sono trascorse sei settimane dell’infortunio, come stai?
“Non mi lamento, sto bene, la tabella di marcia relativa al recupero è rispettata. Ovviamente è un processo lungo, ci vuole tanta pazienza. Cerco di fare dei progressi quotidianamente, a questo proposito da una settimana ho potuto liberarmi dalle stampelle. La fisioterapia sta andando bene e il trend è positivo. Non avverto più dolori, ma non è evidente riacquistare i meccanismi inerenti al movimento. Non guardo troppo avanti, mi concentro sul presente, la mia speranza è comunque quella di tornare sul ghiaccio in agosto e di poter essere arruolabile per l’inizio del campionato a metà settembre”.

Nel frattempo hai riguardato la fatidica scena?
“Non ancora. Tante persone mi hanno sconsigliato di farlo, dicono che sia molto brutta. Magari un giorno al fine di chiudere definitivamente questo capitolo lo farò, vedremo, non sono ancora sicuro se davvero abbia voglia di rivedere l’impatto”.

Hai avuto contatti con Marco Pedretti, l’autore del fallo?
“Alla fine di Gara 7 ci siamo stretti la mano, abbiamo parlato brevemente, ma nulla di più”.

Appena incassato il colpo ti sei immediatamente rialzato, non volevi far spaventare i tuoi cari?
“Onestamente no, è stato un gesto istintivo. Ho subito compreso la gravità dell’infortunio, ma non volevo fare una grande scenata, mi restava ancora una gamba sana per rialzarmi e trascinarmi fuori aiutato dai compagni. Il mio primo pensiero è stato di uscire il più presto possibile dal ghiaccio e cercare aiuto presso il dottore. In fin dei conti sono altre le scene drammatiche, quando ad esempio un giocatore cozza con la testa contro la balaustra. Ecco in questi casi è meglio aspettare un intervento medico e non fare movimenti, lì sì che bisogna agire con la massima cautela”.

Tralasciando il dolore fisico, è stato duro mentalmente accettare quanto successo?
“Il difficile è arrivato una volta finiti i festeggiamenti. Nelle restanti tre partite della finale ho continuato a vivere nel tunnel dei playoff. Non ho cambiato ritmi, orari o abitudini. Sono sempre stato con la squadra durate gli allenamenti, le sedute tattiche, ho vissuto da giocatore. È come se avessi continuato a scendere in pista e ho sempre mantenuto un atteggiamento positivo per dare la carica ai miei compagni. Chiaramente ero ancora più nervoso del solito sapendo di non poter dare il mio contributo sul ghiaccio. Il difficile a livello mentale è appunto arrivato quando mi sono recato all’ospedale e sono stato operato. Dai bagordi a un letto di degenza e tanto dolore fisico, sono state le giornate più dure emotivamente”.

Tre finali perse in carriera, ti trasferisci a Lugano, gli unici playoff disputati senza di te vedono lo Zugo trionfare. Ritorni, di nuovo all’atto finale e ti ritrovi in svantaggio per 3-0 nella serie. Cosa hai provato dopo quella terza sconfitta, ti sentivi un portatore di malocchio, hai iniziato a dubitare?
“Assolutamente no, già il trionfo del 2021 mi aveva fatto piacere per gli ex compagni e per l’organizzazione dell’EVZ. Conquistare comunque quattro accessi a una finale non è mica da tutti, purtroppo alla fine può vincere solo una squadra. Chiaramente non era una situazione piacevole, ma sapevamo di avere la possibilità di girarla a nostro favore, il risultato era oltremodo severo, eravamo stati un po’ sfortunati ma stavamo giocando bene. In questi frangenti non puoi mica avere pensieri negativi, altrimenti è veramente finita. Come qualsiasi altro compagno di squadra sono rimasto fiducioso e ho preferito affidarmi alle energie positive”.

Finalmente a 33 anni sei riuscito a conquistare l’agognato titolo, hai provato sollievo?
“Sollievo? Non direi, piuttosto soddisfazione, una sorta di ricompensa per questi 28 lunghi anni trascorsi sul ghiaccio, un successo giunto dopo parecchio lavoro e tanti tentativi falliti. Una sensazione incredibilmente magnifica, indescrivibile, seconda solo alla nascita di mia figlia e al giorno del mio matrimonio. Quando rivedo i video dei festeggiamenti mi sembra di riviverli. La medaglia d’argento ottenuta ai Mondali del 2013 con la Nazionale? La metterei un pochino più in basso nella bacheca rispetto al titolo. In Svezia fu un’esperienza indimenticabile, nessuno credeva in noi, fu un cammino pazzesco, era un palcoscenico internazionale e l’intera nazione ci supportava. Sì è stata una pietra miliare, però appunto, non avevamo vinto”.

I tuoi due anni trascorsi a Lugano, si può dire che siano stati difficili e condizionati dalla pandemia?
“È stato decisamente un periodo particolare. Il Covid ha complicato la vita a tutti. Nel primo anno i playoff non si sono disputati, nel secondo compiemmo un passo nella giusta direzione. Non finisci al secondo posto la regular season per caso. Purtroppo nel postseason abbiamo fallito. A livello personale penso di aver disputato due buone stagioni. Sono davvero grato al Lugano di avermi offerto questa possibilità. Così facendo oltretutto ho completato per così dire il giro della Svizzera avendo giocato anche in Romandia. Insomma, nonostante il Covid mi porto a dietro dei bellissimi ricordi dell’esperienza bianconera e mi resteranno per tutta la vita”.

Il Kloten, il tuo club formatore, è tornato nella massima lega. Tra due anni il tuo contratto scade, è utopia pensare di chiudere il cerchio e finire la carriera dove tutto era cominciato?
“Mai dire mai. Certo che due stagioni sono un lasso di tempo lungo nello sport, può succedere di tutto. A 35 anni avrò inoltre un’età già avanzata hockeisticamente parlando. Vedremo che riserverà il futuro, a ogni modo sono felice che gli aviatori siano risaliti. Il Kloten è un club di paese, gli spettatori attuali sono gli stessi di 15 anni or sono quando il sottoscritto debuttava in LNA. Non è stato evidente centrare la promozione, hanno cambiato le strutture e lavorato molto, se la sono sudata e meritata”.

La tua carriera si avvia ormai verso la fine, ti sei già fatto pensieri su cosa fare da grande?
“Di concreto non ho ancora pianificato nulla. Chiaramente, specie adesso che sono infortunato, ci rifletto. Quando sei giovane spesso sei solo concentrato sugli allenamenti e le partite, il focus è interamente sul ghiaccio, più invecchi più pensi al dopo carriera. Attualmente sto facendo le trafila per ottenere i vari diplomi da allenatore, sono a buon punto. Mi piacerebbe poter ridare qualcosa all’hockey, sport che mi ha dato tantissimo, soprattutto lavorare con i giovani mi stuzzica, ma non escludo però nemmeno la possibilità d’intraprendere un’attività in un altro campo”.

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