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Interviste

Stephan: “È mancato il titolo, ma ho lavorato tanto e sono fiero della mia carriera”

Il portiere è tornato sui 22 anni passati tra i pali: “Ho vissuto tanti bei momenti, anche se nel finale di carriera ho capito che forse avrei dovuto prendermi delle pause. Ma io ho sempre giocato, lo vedevo come il mio lavoro”

LOSANNA – Dopo 22 anni ai massimi livelli Tobias Stephan ha terminato la sua splendida carriera. Il 39enne iniziò il suo percorso in NLA nel 2001 nelle fila del Coira. Assai schivo, lo zurighese non è mai stato uno che è andato a cercare le luci della ribalta o i media nella sua vita. Siamo quindi andati noi “a cercarlo” per tracciare un bilancio di questi lunghi anni trascorsi a catturare dischi, dopo un’uscita di scena un po’ in sordina e che non rende sufficientemente onore a uno dei portieri elvetici più forti e dominanti degli ultimi decenni.

Tobias, stai vivendo la tua prima estate da ex professionista… È strana?
“È difficile da dire. Le prime settimane, i primi mesi dopo il ritiro me li sono davvero goduti. All’inizio non ho praticamente fatto nulla, sportivamente parlando. Adesso pratico tutte quelle attività che mi divertono, come ad esempio la bici, il tennis e il badminton. Svaghi che magari prima non potevo sempre svolgere. Lo sport rimarrà parte integrante della mia vita, ma appunto farò solo ciò che mi diverte. L’estate in qualità di professionista è sempre stata un periodo duro, la preparazione è fondamentale. Adesso ho un’altra qualità di vita, ho più energia per la famiglia e i figli, è dunque bello trascorrere un’estate del genere”.

Cosa ti mancherà di più della vita da portiere?
“Quello che dicono quasi tutti: la vita di squadra, lo spogliatoio. E poi l’adrenalina, la competizione, giocare partite importanti davanti a tanti spettatori, l’ambiente nelle piste. Questi sono stati gli aspetti bellissimi di questo viaggio”.

E al contrario?
“Lo stile di vita non mi mancherà. Tutto è sempre stato orientato alla performance e il resto ha sofferto di questo. Ho sempre dovuto stare attento a diverse cose, ad esempio dormire bene e sufficientemente, alimentarmi in maniera idonea e fare tanti altri sacrifici. Penso anche a mia moglie e ai nostri figli, che spesso hanno dovuto fare rinunce a causa mia e alle mie necessità inerenti la professione”.

Sei fiero della tua carriera?
“Complessivamente direi che è quasi sempre andata bene. Ovviamente il fatto di non aver mai conquistato un titolo un po’ m’innervosisce, devo convivere con questo dato di fatto. Peccato esserci arrivato tre volte vicino senza aver mai trionfato. Ma sì, sono fiero. Ho sempre lavorato duro, ho sempre dato il massimo e penso che ciò si sia visto anche da fuori… Tutto questo, oltre alla fortuna, mi ha anche permesso di non avere praticamente mai avuto infortuni”.

Qualcosa che rimpiangi o che cambieresti nel tuo percorso?
“Dai 18 ai 35 anni ho sempre disputato tantissime partite, non ero mai la riserva (Tobi ha disputato 8 stagioni giocando tutte le partite e parecchie altre mancando all’appello al massimo in 3 occasioni ndr). Il carico era molto. In certe stagioni tra campionato, CHL e Nazionale arrivavo a disputare un’ottantina di partite. Il fatto di giocare sempre lo vedevo come il mio lavoro, era per quello che avevo firmato, venivo pagato per essere tra i pali, non per fare la riserva. E i miei vari coach avevano lo stesso sentimento e lo stesso modo di vedere le cose. Per loro c’era il portiere numero 1, e se poteva avrebbe giocato lui. Ora mi rendo conto che magari nel postseason mi mancava un po’ di energia. Energia che sarebbe diventata utile. Ma intendiamoci, a quei tempi non me ne accorgevo mica, io mi sentivo sempre pronto, solo dopo – appunto verso la fine della mia carriera – ho iniziato a captare che erano utili delle pause. Ecco, avrei forse dovuto gestire meglio il tutto e prendermi dei turni di riposo”.

Hai trascorso anche tre anni oltreoceano tra AHL e NHL, quando firmasti con i Dallas Stars…
“Quella esperienza mi ha dato tanto, sia sportivamente che a livello umano. Fu speciale all’inizio. A Kloten giocavo sempre, mentre nella franchigia statunitense mi ritrovai a essere il quarto portiere. Dopo il primo campo di allenamento fui spedito in AHL a fare la riserva. C’era tanta concorrenza, era dura specialmente all’inizio, non ero abituato a starmene in panchina. Fui fortunato che i tre estremi difensori davanti a me nelle gerarchie ebbero contemporaneamente dei lievi infortuni e quindi fui subito richiamato dai Dallas Stars. Debuttai in trasferta a Chicago. Fu un grande highlight per me. I miei anni trascorsi in America e a Ginevra sono quelli in cui sono progredito maggiormente”.

Certo che senza quelle tre stagioni negli Stati Uniti saresti tu il recordman dei portieri in merito alle partite disputate nel massimo campionato. Invece ti sei fermato a 905 contro le 907 di Reto Pavoni. Ti irrita non averlo superato?
“Per nulla, anzi lo scopro ora da te (Stephan ride ndr), non lo sapevo nemmeno. Non è importante. Per me non è mai stato un obiettivo e non lo vedo come qualcosa di importante”.

Hai formato un tandem con tanti colleghi, ma ti chiedo di citarne solo uno che ti è rimasto particolarmente nel cuore…
“Devo premettere che mi sono sempre trovato bene con tutti, ma se devo proprio fare un nome allora dico Federico Tamò. La nostra intesa privata è sempre stata ottima, prova ne è che siamo ancora e regolarmente in contatto. Hockeisticamente parlando ho inoltre sempre ammirato la sua energia e la sua passione per lo spirito di squadra”.

Nel 2013 hai conquistato la medaglia di argento ai Mondiali con la Nazionale, senza però mai giocare. Anni fa tu mi dicesti che non la sentivi veramente tua. Con il passare del tempo è cambiata la percezione, il suo valore è aumentato?
“Ho cercato di svolgere il ruolo affidatomi in quella rassegna iridata, ovvero aiutare la squadra e i miei colleghi in allenamento e portare entusiasmo. Proprio quest’ultimo fattore fu a mio avviso decisivo per arrivare così lontano. Ero molto contento per la squadra, per la nazione, ma continuo a vedere quella medaglia non come un mio successo”.

Quali reputi dunque i punti alti della tua carriera?
“La vittoria in Coppa Svizzera con lo Zugo, le vittorie alla Coppa Spengler con il Ginevra, il primo match di NHL, l’intera stagione trascorsa in NHL e le tre finali disputati. In particolar modo quella con il Ginevra, nessuno pensava saremmo arrivati all’atto finale, mentre con lo Zugo eravamo comunque tra i favoriti”.

Sicuramente particolare anche la stagione 2005/06 a Kloten, l’unica con tuo fratello maggiore Fabian al tuo fianco…
“È stato un anno speciale e divertente. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con lui. A quell’epoca dividevo il tetto con lui ed Emanuel Peter. Eravamo tornati ad abitare nella casa dove eravamo cresciuti, nel frattempo i nostri genitori si erano già trasferiti. Fabian fu anche il motivo per cui iniziai a giocare a hockey, fu il mio esempio. E lo è tuttora anche per il dopohockey. Si è ritirato ormai qualche anno fa, abbiamo quindi parlato spesso di questo tema. Ammiro come sia riuscito a gestire il cambio di vita e il successo che ha avuto nella sua seconda carriera lavorativa. Ha svolto la formazione in scioltezza e ora è revisore fiscale”.

Negli ultimi due anni hai avuto noie fisiche, fatto insolito per te. L’ultima stagione in particolare è stata travagliata, la tua carriera non si è certo conclusa con i fuochi di artificio. Oltretutto hai sempre avuto tante aspettative da te stesso, la tua asticella era alta. La domanda è scomoda, ma scontata. Hai l’impressione e il sentimento di aver fatto il classico anno di troppo?
“È un po’ come il record di Pavoni: non è importante per il sottoscritto non avere avuto un grande addio, posso conviverci senza problemi, è così com’è. Non lo trovo un problema o qualcosa su cui rimuginare. Negli ultimi anni dopo ogni stagione ho sempre valutato com’era la situazione prima di decidere se andare avanti o smettere. “Sto bene? Ho voglia? Sono all’altezza?” Queste erano le mie domande chiave. L’infortunio di due anni fa era un normale strappo accaduto in una fase di gioco, non era nulla legato all’età o allo stato fisico. Nell’ultimo campionato invece ho iniziato a sentire dolori a un’anca, era infiammata. Questo è stato il segnale, mi sono reso conto che era arrivato il momento di dire basta. Per me era dunque questo il momento giusto”.

E ora professionalmente cosa farai nella tua vita?
“Adesso non sto facendo nulla. Sono ancora a Losanna, nostro figlio deve concludere l’asilo. Poi con l’intera famiglia farò un lungo viaggio. A inizio agosto torneremo ad abitare nel canton Zurigo. Lì mi orienterò professionalmente, ho in tasca un diploma in economia e vorrei esercitare in questo ramo”.

E l’hockey?
“Professionalmente non penso proprio di restarci. Ho passato tutta la mia vita nelle piste da hockey. Voglio orari di lavoro regolari, fare le vacanze invernali con gli sci ai piedi e trascorrere il weekend con la mia famiglia. Mi piacerebbe per contro nel tempo libero aiutare i bambini, mi sto muovendo in questa direzione, magari come allenatore oppure semplicemente come volontario, ma non c’è ancora nulla di concreto”.

Ma ti vedremo ancora perlomeno a Kloten alle partite, no?
“Sì dai, quello sì”.

E allora a presto caro Tobi, grazie mille per la consueta disponibilità e complimentissimi per questi 22 anni fatti di parate, professionalità e umiltà.

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