La lunga carriera di Gregory Sciaroni è finita da qualche mese. L’ex attaccante dell’Ajoie è però già pronto a rimettersi in gioco e lo farà facendo l’assistente allenatore proprio nel club giurassiano al fianco di Wohlwend e Nummelin. Con il 35enne ticinese abbiamo parlato di questa nuova sfida e altro ancora.
Gregory, ti sei già reso conto di essere ormai un ex giocatore o non ancora?
“Per quanto ci si possa rendere conto direi di sì. È stata un’estate davvero speciale, nel senso che dopo quasi 20 anni non ho dovuto appunto svolgere la preparazione fisica”.
Ti sei goduto qualche privilegio, come magari sgarrare in ambito culinario?
“Hai detto bene, per la prima volta dopo tanti anni non ho dovuto riflettere se prendermi un piatto in più e mi sono goduto l’estate senza questi tipi di pensieri e problemi. Spesso ti accorgi però troppo tardi quando hai esagerato con il cibo. Partire in vacanza senza una pianificazione alimentare e senza un programma di allenamento è stato particolare”.
E magari hai anche avuto la possibilità di svolgere qualche attività sportiva che prima non potevi fare perché troppo pericolosa?
“Devo dire la verità, in ambito sportivo ho fatto poco o niente, non ero molto stimolato dal mettermi in moto. C’è più libertà ora, questo è vero. Prima c’erano delle attività in cui dovevo fare molta attenzione o dovevo evitarle, ma comunque non andrò a fare cose estreme neanche in futuro perché nel bene o nel male pure in qualità di allenatore o assistente devi comunque scendere sul ghiaccio ed essere presente”.
Ci hai anticipato citando il tuo nuovo ruolo di assistente allenatore. Com’è nata la cosa?
“Da quando ho iniziato a giocare a hockey, dunque da giovane, in sé la mia idea non era mai stata quella di diventare allenatore o assistente una volta terminata l’attività agonistica. Dicevo sempre che quando avrei smesso sarei uscito dal mondo dell’hockey, in sé questo mondo non m’interessava. Non era quindi mai stata un’opzione per me quella di diventare allenatore. L’anno scorso però, quando mi sono rotto una mano, per caso è arrivata questa possibilità. Mi stavo recando in auto a seguire una partita quando coach Wohlwend mi chiamò. Mi chiese se stavo andando al match e gli dissi di sì. Mi disse allora di andare con lui in panchina, mancava qualcuno e aveva bisogno di una persona. Lì mi si è aperto un mondo. È come ogni cosa, finché non la provi non sai com’è. Mi sono detto che non era poi così male, me la immaginavo differentemente. Alla fine ho trascorso più di 10 partite sulla panchina dell’Ajoie e quello era anche il momento in cui stavo riflettendo sul mio futuro. Sapevo che avrei giocato per al massimo ancora una stagione e non di più. Ho dunque buttato là questa possibilità al club, ovvero di entrare nello staff tecnico. La società era sorpresa dell’interesse, non lo sapeva. Alla fine dopo un po’ di discussioni ci siamo accordati trovando questa soluzione”.
Una bella prova di fiducia nei tuoi confronti da parte dell’Ajoie, considerando oltretutto che vieni da fuori e in fin dei conti hai giocato solo due stagioni a Porrentruy…
“Sì, sicuramente, questo fa piacere. Da una parte mi fa sentire anche un po’ importante. Hanno preso la mia candidatura in considerazione e alla fine è andata in porto pur non essendo appunto del posto ed avendo giocato solamente due anni lì. Significa che forse ho fatto qualcosa di buono, che hanno visto qualcosa in me e che posso dare qualcosa al club anche in un altro ruolo. Sarà una bella sfida, qualcosa di veramente nuovo. Un conto è giocare, un altro è essere dall’altra parte della transenna”.
Non succede spesso questa costellazione, passare immediatamente da giocatore allo staff tecnico nello stesso club. Mi ricordo Sven Berger qualche anno fa a Rapperswil con questo percorso. Non so se lo conosci, ma hai magari parlato con lui al fine di ricevere qualche consiglio?
“Effettivamente non si vede ogni giorno una cosa del genere, non tutti hanno questa fortuna e possibilità. Conosco Sven dai tempi nelle nazionali giovanili, ha un anno in più di me e abbiamo giocato diverse volte insieme. Non ho però avuto nessun contatto con lui. Di base con nessuno, nemmeno con Beat Forster, pure lui a Bienne è nella mia stessa situazione”.
Cambierai approccio nei confronti dei tuoi ex compagni? Mi immagino che comunque ad esempio con il Ciaccio di turno ci sia un legame di amicizia…
“È difficile da dire, vedremo come sarà. Chiaramente durante gli anni con alcuni giocatori ho instaurato un certo tipo di rapporto e siamo stati vicini. Adesso stando dall’altra parte e avendo un ruolo diverso potrebbe esserci la possibilità che si cambi magari qualcosa e ci siano dinamiche un po’ differenti. Siamo però tutti grandi abbastanza, è importante essere onesti e starà a me e ai giocatori sapere dove sarà il limite. Io sarò aperto, come lo ero prima, ma ovviamente non sarò più il compagno di squadra. Reputo comunque tutti intelligenti per fare in modo che tutto vada via liscio in questo senso”.
Hai avuto diversi allenatori nella tua lunga carriera, ma ovviamente a fare la parte del leone c’è Arno Del Curto. Sarà una sorta di modello per te?
“Come hai giustamente detto è stato il coach che ho avuto più a lungo e colui che mi ha formato come giocatore e persona. È diventato il mio allenatore quando avevo 20 anni ed è stata una figura molto molto importante per il sottoscritto. Mi ha insegnato tante cose che mi hanno influenzato e mi hanno fatto diventare il giocatore e la persona che sono. Inconsciamente forse certe letture delle situazioni che avrò, avranno a che fare con la sua visione e con gli insegnamenti che mi ha dato. Dopo però è vero che l’hockey cambia in continuazione e bisogna adeguarsi. Ci sono dunque cose che potrò portare con me e altre che imparerò”.
Il tuo obiettivo è quello di fare poi carriera e magari diventare allenatore in prima, o è prematuro questo discorso?
“Si vedrà. Penso che comunque ognuno in qualsiasi situazione professionale abbia un’idea o un sogno. Il giocatore di 19 anni ad esempio quando inizia la sua carriera ha un obiettivo, lo stesso vale per me adesso, ma bisogna fare tutto passo dopo passo. Adesso mi godo per così dire questo momento, l’inizio di un nuovo cammino. Dovrò capire se è poi veramente la mia via. Come già detto, un conto è giocare, un altro è allenare e stare in panchina. È tutto nuovo, quindi è presto per me dire qualcosa a questo proposito. Certo, magari un giorno mi piacerebbe avere una chance di poter guidare una squadra, ma non guardo così in avanti. Cerco di fare bene giorno dopo giorno e poi vedremo”.
Parliamo un pochino della tua carriera. Hai terminato con tre titoli in tasca. Credo che puoi guardare a ritroso con tanta soddisfazione…
“Sì. Adesso che posso guardare indietro non posso certo lamentarmi. Sono molto contento, ho vinto abbastanza, è stato un bel viaggio, pieno di tappe e momenti belli. Non mi è comunque mai stato regalato nulla e quindi provo anche una forma di orgoglio per quanto fatto”.
Quello che balza all’occhio è la tua stabilità: due anni da giovanissimo ad Ambrì, poi ben nove stagioni a Davos, quattro a Berna e infine le ultime due agli sgoccioli della carriera nell’Ajoie. Non sei dunque uno che ha cambiato casacca ogni stagione nel pieno della sua carriera. È sicuramente anche questo un bel segnale a mio avviso. Significa che sei sempre stato apprezzato…
“Questo è vero, ma è difficile paragonare i percorsi delle varie carriere. Ogni persona è diversa, ha i suoi bisogni e ogni carriera è dunque unica. Dopo le prime due stagioni ad Ambrì avevo sentito il bisogno di andare via per la mia crescita hockeistica e personale. Nove anni a Davos, nella stessa squadra sono tanti. È una cosa che si vede sempre meno al giorno d’oggi. Nei Grigioni è stata una lunga e bella avventura, ma poi anche lì è arrivato il momento dove ho captato che dovevo fare un cambiamento, sia per me personalmente sia per la mia carriera. A Berna idem, dopo quattro anni ho capito che era ora di cambiare aria e quindi è giunto il trasferimento a Porrentruy per tirare gli ultimi respiri da giocatore. Anche nel Giura è stato un bel processo, sia per me sia per il club che arrivava dalla Swiss League, quindi nel bel mezzo di un grande cambiamento e con la voglia di creare qualcosa. Essere ancora qui, non più da giocatore ma in un altro ruolo, è la dimostrazione che il club vede in me una persona che può aiutarlo nella sua crescita”.
L’ultima domanda, non poteva essere altrimenti, è sull’Ambrì. Qualche rimpianto per non aver concluso la carriera in Leventina? Non c’è mai stata una trattativa tra te e il sodalizio biancoblù negli ultimi anni?
“Non sono un tipo dei “se”, dei “ma” e del “sarebbe stato meglio”. È andata cosi, quel che è stato è stato e non si può cambiare nulla. Io guardo in avanti. Non c’è mai stato il presupposto per tornare ad Ambrì, indipendentemente dal fattore sportivo, parlo più che altro a livello familiare. A un certo punto della mia vita la famiglia è diventata la priorità e ciò non combaciava con il fatto di tornare in Ticino. Non c’è dunque mai stata una discussione vera e propria con l’Ambrì, anche se poi era il mio agente che si occupava delle trattative. Non si tratta quindi di avere rimpianti, va bene così”.