LUGANO – Cominciamo con una metafora: una squadra di hockey – o di qualunque sport di squadra professionistico – può essere paragonata a una scuderia di Formula 1. C’è il patron (non scomodiamo il Drake), il direttore sportivo, il muretto comandato dal Team Principal, ossia la figura forte manageriale che tiene assieme tutto, la squadra di meccanici che assicura il lavoro sporco, il pilota e la macchina. Se vogliamo paragonare questo al Lugano possiamo sicuramente riconoscere al volo alcune posizioni, soprattutto nella verticale che dal proprietà va alla macchina e al pilota.
Il Lugano ha costruito una buona macchina, non è pronta per lottare per le prime posizioni, ce lo hanno detto alcune scelte tecniche legate agli stranieri e ad alcuni svizzeri – tornare su quello che ormai tutti abbiamo capito, ovvero sull’inadeguatezza di alcuni giocatori sarebbe ridondante – ma il mezzo rimane di buon potenziale, non certo per le posizioni che ricopre oggi. Il pilota è un Luca Gianinazzi che ha ottime basi, eccellenti per la sua età inconsueta per un head coach alle nostre latitudini, ma che commette degli errori di gioventù, che si intestardisce su alcune sue certezze, e che dopo un’ottima partenza ha bruciato un motore.
Qui deve entrare in campo la figura forte, quella del Team Principal, che a Lugano si fatica a riconoscere. Hnat Domenichelli è un direttore sportivo sì presente ma probabilmente non abbastanza per scelta sua, i piani alti dal CEO in linea non hanno saputo dove mettere mano quando era il momento di farlo, e allora il pilota a un certo punto si è trovato da solo senza sapere come fare per rimettere la macchina in pista.
In tutto questo il Lugano ha colpevolmente ripetuto il consueto errore, già commesso nell’ultima parte della gestione McSorley, attendendo inutilmente che i problemi si risolvessero da soli, pronto ad alzare il tappeto per buttarci sotto tutta la polvere. Il problema è che stavolta la polvere era tale che ancora una volta è uscita da sotto, con non solo le prestazioni della squadra a fare da segnale, ma pure con le prime crepe nello spogliatoio.
“Non tutti in questo momento fanno quello che il coach vuole”, erano state le pesanti parole di capitan Thürkauf dopo l’ennesima sconfitta, parole inequivocabili anche per chi non è di lingua madre italiana, anche se qualcuno ha cercato di farci credere il contrario puntando su una presunta difficoltà nell’esprimersi, un tentativo goffo di metterci l’ennesimo cerotto a cui non ha creduto assolutamente nessuno, soprattutto chi ha raccolto quell’intervista.
Ma non vogliamo puntare solo su chi ha cercato di mettere questi cerotti, perché una società come il Lugano, in una situazione partita con l’ennesima serie di infortuni e con le difficoltà della squadra a farne fronte, ha lasciato il giovane coach da solo davanti a telecamere, microfoni e taccuini a cercare di giustificare una situazione dalla quale non sapeva più evidentemente come uscirne, ingaggiando uno straniero in difesa dopo settimane di emergenza, permettendo oltretutto che ci mettesse altre settimane prima di essere arruolabile con una rosa ridotta all’osso.
Le affermazioni poi molto pesanti dirette ai giocatori che hanno smentito i tentativi di riparazione di cui sopra di Hnat Domenichelli – che avessero centrato il bersaglio o meno – hanno confermato una cosa, che il Lugano è privo di quella figura forte, aziendalista e dal potere mediatico incisivo (leggasi: coerenza, carisma e credibilità, oltre che tempismo) che ben prima di quel momento doveva non solo fare da collante tra tutte le parti in causa, ma pure sorreggere la posizione di Gianinazzi – dato che questa è stata la decisione della società, comprensibile quanto legittima, se giusta lo capiremo – e aiutarlo nel gestire i problemi che stavano investendo lo spogliatoio.
Una figura di riferimento che sta nel mezzo, tra consiglio di amministrazione e settore sportivo, un parafulmine di grande esperienza e carisma in grado anche di vedere problemi che altri non vogliono vedere e di far aprire gli occhi a ogni parte in causa senza sentire pressioni dettate da amicizie o decisioni prese in precedenza, un ruolo che in altre società è ricoperto dal CEO, qualcuno di credibile anche per il pubblico.
In un clima che è passato dalla contestazione dei tifosi alla disaffezione (attenzione, quest’ultima è ben più pericolosa, altro che puntare ai 4’000 abbonati) il direttore sportivo Hnat Domenichelli potrebbe aver tirato fuori la mossa della svolta in extremis, forse la decisione migliore presa in questa stagione per cercare di cambiare le cose tra mille decisioni errate. L’aggiunta di Antti Törmänen in qualità di Senior Advisor porta nel club quel ruolo che andava pensato molto prima – ricordate quando dicevamo che pur quanto sia intelligente e maturo Luca Gianinazzi va protetto in ogni modo? – un mentore che arrivando da fuori sia in grado di vedere e soprattutto mettere sul tavolo i problemi che altri non vedono perché troppo coinvolti o perché non in grado di riconoscere, un consigliere che porti stabilità e possa insinuare il dubbio che nessuno ha mai osato insinuare.
Gianinazzi ha le sue idee, sono valide e lo ha dimostrato, ma quando c’era da cambiare qualcosa nella ricetta del suo piatto non ci è mai riuscito (o non ha mai voluto) e solo alla ventesima forchettata qualcuno si è accorto che era minestra e non filetto.
La situazione non era decisamente promettente, la partenza di Justin Schultz continua a “puzzare”, voci dei soliti ben informati parlavano di giocatori ormai insofferenti alle direttive ripetitive del coach e nel gruppo era evidente che aleggiasse grande frustrazione, con la famosa vergognosa serata contro il Friborgo ad aprire del tutto il vaso di Pandora.
Si era detto che il lavoro dell’ex coach del Bienne non potesse avere effetti magici o immediati, ma intanto, appena prima di Natale, il Lugano ha lanciato segnali importanti e promettenti. Le vittorie contro lo Zugo e l’Ambrì Piotta e delle prestazioni in generale più convincenti hanno rimesso parzialmente in carreggiata i bianconeri, e anche guardando i singoli – Sekac, Carr e Marco Müller per fare dei nomi – sembra che qualcosa si stia forse finalmente smuovendo.
Ma è anche osservando il Lugano sul ghiaccio che si capisce che Törmänen ha avuto buoni consigli (e soprattutto Gianinazzi ha saputo metterli in pratica) dalle uscite dal terzo più veloci e meno cervellotiche, alle situazioni speciali e al forecheck molto alto praticato dalla squadra. Anche i giocatori stessi hanno ammesso che si sta cambiando qualcosa, persino Daniele Grassi da avversario dopo il derby ha affermato che in alcune situazioni i bianconeri gli hanno ricordato il Bienne per stile e combinazioni.
Insomma, in una situazione di non ritorno, con un piede ormai oltre il baratro delle decisioni inevitabili, il Lugano forse ha trovato all’ultimo la maniera di riunirsi, di ritrovare un po’ di serenità, ed è un bene che a trascinare fuori dalle sabbie mobili la squadra siano per primi sempre i leader, da un Fazzini indemoniato, a Thürkauf, Joly, Alatalo, Jesper Peltonen, perché se Gianinazzi avesse dovuto perdere il polso anche dei suoi fedelissimi sarebbe stato un disastro ancora maggiore.
I bianconeri non sono ancora fuori da una situazione che rimane precaria, la penultima posizione in classifica rimane imbarazzante, e anche se i play-in rimangono ampiamente alla portata dopo le ultime partite, credere di essere fuori dal tunnel sarebbe l’ennesima leggerezza in una stagione fatta di superficialità e imperizie distribuite ad ogni livello. L’ultimo segnale (qualcuno potrebbe pensare che è l’ultimo dei problemi, ma rimane una spia sul come si lavora professionalmente) è quello di aver lasciato l’ultimo arrivato Valtteri Pulli con una maglia provvisoria e senza nome per praticamente dieci giorni e tre partite, ma se già dall’alto si tende ad improvvisare, non si può pretendere che anche nelle postazioni a cui si dà meno importanza si possa fare meglio.
A conti fatti, il Lugano visto fino a pochi giorni fa è stato il cumulo di decisioni sbagliate sul piano sportivo, su quello gestionale e della comunicazione, oltre che sulla (in)capacità di risolvere i problemi o perlomeno di prenderli di petto appena questi si sono palesati.
Sono state due le decisioni prese sul filo del rasoio da parte della società, entrambe ad alto grado di rischio, quella di confermare Luca Gianinazzi al suo posto – giusto così se si crede in lui fino all’ultimo – e quella di ingaggiare Törmänen come mentore dello staff e del “Giana” in particolare. Ma due mosse giuste – per quanto lo dovranno ancora dimostrare – non possono cancellare tutto quanto di non fatto quando andava fatto, anche per responsabilizzare per primi i giocatori e rinforzare crepe che qualcuno voleva coprire con i pastelli.
È ora di crescere, caro Lugano, la cosa buona è che il tempo è ancora dalla tua parte.