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Interviste

Noreau: “Ho dato tutto a questo sport, qui ho trovato passione e sono stato apprezzato”

L’ex biancoblù tornerà in Canada: “L’Ambrì Piotta resterà uno dei club più importanti della mia vita. Arrivarono anche delle offerte da Lugano, ma non so proprio come avrei fatto a disputare il derby da avversario”

RAPPERSWIL – Sabato mattina, il ritrovo è alla St. Galler Kantonalbank Arena. Maxim Noreau ci accoglie con un grande sorriso, ci offre un caffé nello spogliatoio del Rapperswil prima di dedicarci un’oretta del suo tempo per una sorta di “intervista d’addio”.

Fresco di ritiro, il canadese è stato uno dei difensori più dominanti dell’ultima dozzina di anni. Undici stagioni indossando le maglie di Ambrì Piotta, Berna, ZSC Lions e Rapperswil, 536 partite coronate da 94 reti e 265 assist. Nella sua bacheca ci sono un titolo nazionale vinto con il Berna e quattro Coppe Spengler conquistate con il Team Canada. Inoltre può vantare 2 partecipazioni alle Olimpiadi, nel 2018 a Pyeongchang conquistò pure la medaglia di bronzo e venne inserito nell’All-Star team. Alla soglia dei 37 anni la sua vita sta per cambiare.

Max, da due settimane la tua carriera è finita… Te ne sei reso conto oppure è ancora troppo presto?
“È tutto ancora un po’ fresco, sono sempre in Svizzera nello stesso appartamento, e mi reco ancora alla pista a fare sedute di allenamento. Non ho dunque ancora veramente captato il ritiro, probabilmente questo sentimento arriverà quando, settimana prossima, rientrerò definitivamente in Canada. Non dico sarà uno shock, ma mi renderò conto che mi allenerò per la mia salute e non più in qualità di giocatore che si prepara in vista della nuova stagione”.

Come mai questa decisione? Non avevi più offerte interessanti? Hai sentito i segnali dal tuo corpo o semplicemente non avevi più voglia?
“Non volevo diventare un giocatore costretto a prendere il ritiro perché obbligato dagli altri o dagli infortuni. A novembre ho iniziato il processo di scelta e a pormi domande su cosa fare. Mi sono detto che sarebbe stato bello aiutare le prossime generazioni di giocatori a progredire. A dicembre mi sono infortunato e sono stato out sei settimane, in questo lasso di periodo ho avuto molto tempo per riflettere. Al rientro ho giocato bene, sono arrivate diverse offerte, ma giocando un altro anno in Svizzera magari avrei perso un’opportunità per i prossimi 25-30 anni della mia vita. Ho la possibilità di iniziare qualcosa di nuovo, magari nel 2025 questa chance non si sarebbe ripresentata e dunque ho optato per il ritiro. È stata dura, mi sentivo bene, ero sempre uno dei primi ad arrivare in pista e anche se con il Rappi non vincevamo molto essere nello spogliatoio era bellissimo”.

Tua moglie Karine, compagna di una vita, è stata parte integrante della scelta presumo…
“Assolutamente, abbiamo parlato molto. Una delle ragioni per cui sono rimasto così tanto in Svizzera è proprio grazie a lei. A volte si sente che i giocatori stranieri vogliono rientrare in patria a causa delle mogli, lei invece ha sempre adorato essere qui, la Svizzera è stata casa nostra. Spesso i tifosi non si rendono conto che dietro al professionista c’è una vita. Penso anche ai nostri figli, che stanno diventando grandi. Non è facile per loro, specialmente per il più grande: ora va a scuola, è roba seria, non è più l’asilo, imparare il tedesco e frequentare le lezioni per lui è una grande sfida. Ho ricevuto offerte per restare in Europa, sia come giocatore che in qualità di allenatore, ma non avevo voglia di spostare nuovamente la famiglia oppure di partire lasciando i miei cari da soli”.

Per te è sempre stato chiaro che a fine carriera saresti rientrato in Québec, oppure hai pensato di restare a vivere in Svizzera?
“Restare qui era un’opzione. Ho frequentato corsi di tedesco per arrivare a ottenere il passaporto elvetico e il permesso C al fine di rimanere. Avevo l’opportunità, ma sarebbe stato un processo lungo di 1-2 anni. Alla fine ci siamo detti che non ne sarebbe valsa la pena, visto appunto la possibilità che mi si è presentata in Canada. Ne ho parlato molto ad esempio con Serge Aubin. Lui ha fatto questa scelta, è rimasto in Europa ad allenare dopo la sua carriera, i suoi figli sono ormai europei. Per intanto la nostra decisione è quella di tornare a casa, anche perché i miei bimbi non vedono mai i nonni. Certo c’è la tecnologia, ma mio figlio più grande presto avrà 8 anni, a quell’età i bambini mica vogliono le videochiamate, vogliono la presenza fisica. Abiteremo a 30 minuti da Montréal, a casa nostra, tanti programmi di allenamento in estate si svolgono in quella zona. Avevo altre possibilità, sempre in Québec, ma più lontano, a quel punto non avrebbe avuto senso, per tanto così allora sarei rimasto in Europa. Per me è importante essere a casa con la famiglia le sere e i weekend”.

Spiegaci nei dettagli quale sarà la tua nuova attività di coach “Noreau Hockey”…
“Ho iniziato per divertimento facendo dei video su Instagram. Penso di avere delle buone competenze e volevo indurre altri giocatori alla riflessione. Ho avuto ottimi feedback, anche di tanti agenti canadesi, mi hanno scritto dicendo che erano cose utili e ci vorrebbe una maggior attenzione a questi aspetti. Voglio portare queste peculiarità ai ragazzi al fine di metterle in pratica nelle partite da subito. Mi sento un po’ come uno studente dell’hockey, studio ad esempio i video dei migliori difensori, quelli capaci d’impostare meglio. Avrei dovuto iniziare dieci anni fa, sto imparando tantissimo. Il mio obiettivo è dunque quello di sviluppare tanti giovani, in particolar modo quelli come me e non il top dei top. Spesso ci si concentra sui migliori 10-20 e si perdono i giocatori che sono nella media, ma che un giorno potrebbero fare il grande salto. Io con il mio occhio penso di riuscire a individuare e aiutare questi ragazzi al fine fornirgli le condizioni per renderli più forti. Bisogna aiutarli, magari non avranno subito una carriera da NHL, ma con il tempo potrebbero arrivarci grazie al lavoro duro, d’altronde sono tanti i non predestinati ad essere arrivati nella miglior lega al mondo. Mi concentrerò all’inizio soprattutto sui ragazzi dai 14 ai 17 anni, è l’età ideale per aiutarli a sviluppare. In estate però collaborerò anche con giocatori NHL. Sarà interessante lavorare con elementi che hanno avuto una carriera migliore della mia, sarà una bella sfida avvicinarmi a loro e guadagnarmi il rispetto. Io sono lì per aiutarli appunto, e non per essere arrogante. Chiaro non potrò dire a loro cosa fare o mostrare chissà cosa a livello tecnico, ma con la mia esperienza e i miei studi sull’hockey potrò dargli un aiuto al fine di migliorare. Spesso si lavora troppo sull’allenamento individuale del singolo, la sua tecnica, il suo pattinaggio, ecc. e si trascura appunto l’hockey-sense. Vedi elementi che dispongono di tutte le qualità per fare bene, ma non sanno applicarle perché mancano d’intelligenza di gioco”.

(Instagram)

Dal futuro al passato. Torniamo sulla tua carriera. Partiamo dalla fine e dalla tua ultima partita a Rapperswil. I tuoi bambini sono entrati a sorpresa nello spogliatoio e hanno annunciato la formazione a tutti voi giocatori. Alla fine del match c’è stata una foto di squadra davanti alla curva dei tifosi con i tuoi bimbi pure presenti….
“È stata la fotografia più bella della mia carriera, più bella di qualsiasi foto che mi ritrae esultando per una rete. Non era prevista la cosa, erano solo due minuti, ma minuti per l’eternità. I tifosi ci vedono come atleti, ma noi siamo essere umani. Io alla fine ho giocato per i miei figli, per dargli una vita migliore e assicurarmi di poter avere cura di loro. Devi sempre trovare un motivo per scendere sul ghiaccio, vale per ogni giocatore. Da quando sono padre loro sono stati in sostanza il mio motivo. Non ho mai firmato un contratto per i soldi ad esempio, prima mi sono sempre chiesto se loro si sarebbero trovati a loro agio oppure no. Sono contento che le ultime settimane siano andate bene, non volevo finire dopo 17 anni di bell’hockey con molte sconfitte. Era importante anche per i miei compagni, ho captato il loro appoggio, si sono presi cura di me, hanno fatto molto. Terminare a Lugano con una vittoria e segnando grazie a un assist di Cervenka è stato bellissimo. Ne abbiamo create tante di reti io e lui. Non potevo chiedere di meglio come conclusione, ho provato tante emozioni”.

Impressionanti i numeri di messaggi nei vari social media che hai ricevuto, da vecchi compagni, avversari, tifosi di tutte le squadre. È il massimo credo per un giocatore…
“Quante emozioni, accendere il telefono e vedere una marea di notifiche del genere. C’era di tutto, persino tifosi del Langnau che mi ringraziavano. La gente ha apprezzato quello che ho fatto. Chiaro si parla spesso di statistiche, ma la cosa più importante per me è sempre stata guadagnarmi il rispetto dei colleghi. Ricevere messaggi di ex compagni di squadra, allenatori, direttori sportivi, membri dello staff che mi dicono di aver passato gli anni più belli al mio fianco e di essersi goduti ogni giorno con me è il meglio. Ci sono giornate ottime, altre negative, ma penso che la gente ha visto in me il vero professionista. Quando si giocava male non me ne fregavo, cercavo sempre le soluzioni. Sapere ad esempio che un Beat Gerber, tanto per fare un nome, con cui ho giocato due anni a Berna, si sia preso un momento per scrivermi e fare i complimenti vale di più di qualsiasi statistica o premio”.

Dalla fine all’inizio. Quando sei arrivato ad Ambrì e hai visto la vecchia Valascia, non ti sei detto “ma dove cavolo sono finito”?
“(Max ride ndr.) Non mi nascondo, all’inizio ho dovuto adattarmi, ma dopo le prime due o tre settimane, quando mi ero detto che sarebbe stata dura giocare in una simile pista, ho scoperto che questa era la bellezza dell’Ambrì. Vedere l’ambiente, i tifosi… Ne ho parlato anche con Inti Pestoni, in seguito non c’è stato un giorno dove ho pensato in negativo della Valascia. Chiaro ci sono stati allenamenti in gennaio con meno 20 gradi, era dura, ma ero felice e penso di averlo dimostrato. Dopo il primo anno, quando addirittura a novembre seppure in qualità di difensore ero il topscorer della lega, avevo sul tavolo 7-8 offerte di altre squadre di NL. C’era l’imbarazzo della scelta, dissi al mio agente che avrei preferito rinnovare con i leventinesi, mi diede del pazzo. Gli dissi che per me contava la passione e il sentirsi apprezzato, non i soldi o la possibilità di vincere. Oltreoceano ad esempio non c’è questo feeling, in questo senso là è il posto peggiore. Non sai mai dove sei, vuoi arrivare in NHL, chiamano però altri giocatori e non te, non ti senti apprezzato. Camminare in Ticino, venire riconosciuto dai fans era bellissimo. Terminare l’avventura in biancoblù con la partecipazione ai playoff, dopo tanti anni, è stato magnifico. Ho ancora tanti amici lì, non solo nel mondo hockeistico, con la famiglia siamo sempre tornati spesso, passeggiare attorno ai castelli di Bellinzona è splendido. L’Ambrì resterà uno dei club più importanti della mia vita, mi ha dato la chance di ritrovarmi come giocatore e riguadagnare la fiducia in me stesso. Ne ho parlato in passato con Paolo Duca, non sempre ho sfoderato le mie migliori prestazioni – in qualsiasi squadra dove ho militato – ma ad Ambrì non c’è mai stato un match dove non ho dato il 100% di quello che avevo in quell’istante. Un sabato sera in casa, con i fans biancoblù, non m’importava se stavo male o avessi dolori, sarei sceso comunque sul ghiaccio, dovevo giocare a ogni costo. Questo feeling in una carriera di hockey non lo provi spesso”.

I derby contro il Lugano sono state le partite più folli della tua vita?
“Al 100%. Quando arrivai non avevo nessuna idea di cosa fosse un derby. In America o in Canada non esiste nemmeno questa parola, ci sono delle rivalità, ma non così. Il giorno della mia presentazione i tifosi mi dissero “non ce ne frega nulla, in fondo non siamo una squadra da playoff, ma bisogna sconfiggere il Lugano”. Io chiesi cosa fosse il Lugano, non lo sapevo… Ho capito in fretta cosa rappresentasse il derby. Nella mia carriera ho avuto diverse opportunità di firmare per il Lugano. A mia moglie sarebbe piaciuto tornare al sud. Io le dissi che mentalmente non avrei potuto, non sarei riuscito a dare ai bianconeri tutto quello che avrei potuto dare ad altre squadre. Ho lasciato tanti soldi sul tavolo rinunciando a questa possibilità, ma non me ne pento. Non so come avrei fatto a giocare un derby da avversario, specialmente ad Ambrì. Anche in questo caso ci furono discussioni con il mio agente e mia moglie. Mi chiesero “ma perché prendi sempre certe decisioni strane?” Io risposi che alla fine ero io che sarei dovuto scendere sul ghiaccio e non loro, farlo in certe condizioni sarebbe stato mentalmente troppo stressante. La gente a volte non pensa a questi aspetti”.

Il fatto che non sei riuscito a importi in NHL resta un rammarico? Sei magari arrabbiato con te stesso?
“Bella domanda, me la sono fatta spesso. Il fatto più duro non è quello di avervi giocato solo sei partite, prima di giungere in Svizzera. Quando arrivai ad Ambrì non ero pronto mentalmente e il mio stile di gioco per l’epoca non era l’ideale. Ora con i difensori offensivi e che prendono dei rischi più in auge, come me, sarebbe magari stato più semplice, ma non mi attacco a questo fatto. L’epoca non si può scegliere, quindi sta a te fare il tuo cammino e dare il massimo. Ci ho provato, il momento più duro è stato quando ho lasciato la Leventina firmando un contratto one-way con Colorado. Ho giocato due anni in AHL molto bene, vedevo altri giocatori con statistiche peggiori delle mie, meno performanti del sottoscritto che venivano chiamati, mentre io mai, anche quando la franchigia era già eliminata dalla corsa ai playoff. Alla fine del contratto dissi a Joe Sakic e Patrick Roy “grazie mille per l’opportunità, ma non mi avete mai dato una chance”. Ho fatto di tutto, ho prodotto offensivamente, ho fatto pure 5-6 bagarre solamente per dimostrare di essere pronto a tutto per giocare con gli Avalanche. Non molti difensori possono vantarsi di avere simili statistiche in AHL. Quando giochi male e hai brutte stagioni capisci perché non vieni promosso, ma in questo caso fu davvero dura da digerire. Ancora peggio mentalmente fu nel 2018 alle Olimpiadi, dove giocai alla grande. Sean Burke e lo staff di Hockey Canada dissero pubblicamente che fosse incredibile e deludente che nessuna franchigia di NHL mi avesse dato una vera chance. C’erano giocatori presenti reduci da carriere con 800 partite in NHL mentre ne avevo disputate solamente 6, vedendo il mio livello in rapporto a quello degli altri era per me mentalmente pesante. Ma non sono scontento, ho avuto una bella carriera, sono uno degli stranieri ad aver disputato il maggior numero di partite in Svizzera, ho raggiunto molto e sono fiero. Torno a casa con un sorriso”.

E ti sei appunto tolto belle soddisfazioni anche con la mitica maglia canadese, vincendo pure quattro Spengler…
“Assolutamente, portare la foglia d’acero così tante volte è speciale per un canadese. Chiaro, se giochi in Svizzera normalmente vieni convocato alla Spengler, ma essere nominato sovente capitano o assistente, pure alle Olimpiadi, con tutti i giocatori presenti attivi in Europa, è qualcosa di speciale. Vincere la medaglia di bronzo nel 2018 a Pyeongchang alla presenza dei miei genitori, di mia moglie e il mio primo figlio è stato magnifico. C’erano pure degli amici arrivati apposta dal Canada per vivere queste due settimane. È stato uno dei momenti più belli della mia carriera. Ho la foto di mio figlio con al collo la medaglia, aveva un anno, è qualcosa di splendido”.

I tuoi figli giocano a hockey? Magari tra 20 anni rivedremo un Noreau in qualche pista elvetica?
“Frequentano la scuola hockey al sabato mattina. Il più grande non credo che diventerà un giocatore. A me non disturba, l’importante è che trovi quello che gli piace e noi lo sosterremo. Penso sia più un artista, un po’ come la mamma. Il secondo invece ha più l’indole hockeista, vuole essere come papà. Il problema è che, avendo solo quattro anni, il suo tedesco non è al top e così non è facile per lui legare con gli altri bambini. In Canada sarà più semplice creare il connubio amici-ghiaccio. Questo magari lo motiverà ulteriormente, ma io non ci tengo ad avere dei figli hockeisti. Non sono il tipo che li obbliga ad andare sul ghiaccio, al sabato quando non hanno voglia di recarsi alla pista, facciamo altre attività. Vedo tanti genitori che vogliono vivere i propri sogni attraverso i figli, ma non ne conosco molti che siano riusciti in questo intento o che abbiano trovato la felicità agendo così”.

Ora l’intervista puoi finirla tu…
“Dapprima ringrazio voi per il tempo e lo spazio che mi avete dedicato. Come dicevo prima, partire dalla Svizzera lasciando un bel ricordo a tutti era il mio obiettivo. È bello e divertente essere conosciuti per quanto si sia fatto in qualità di giocatore, ma alla fine l’hockey non è quello che sono, è stato semplicemente il mio lavoro. Io ho cercato in ogni istante di essere simpatico e autentico con tutti, non ho mai nascosto nulla e ho sempre mostrato le mie emozioni. Ho dato tutto a questo sport, ho investito più di altri, sono sempre stato il primo ad arrivare alla pista e l’ultimo a lasciarla. Non sempre ho giocato al top, ci sono state stagioni difficili, come una a Berna e una a Zurigo, ma ho ogni giorno cercato di guardarmi allo specchio e di uscirne. Non ho mai dato la colpa ad allenatori, compagni o terze persone, ma sempre e solo a me stesso. Se vuoi avere una lunga carriera, devi pensarla in questo modo. È troppo facile per noi atleti andare in palestra o salire su un auto e sfogarsi con gli amici contro terze persone”.

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