LUGANO – Il suo nome è legato indissolubilmente a quello del Grande Lugano degli anni 80, con il quale ha potuto festeggiare ben quattro titoli di campione svizzero. Nove anni in bianconero in cui incantò i tifosi per l’intelligenza di gioco, la furbizia e il grandissimo talento offensivo, e oggi Fredy Lüthi fa parte delle grandi leggende bianconere inserite nella Hall of Fame del Lugano assieme a Silvano Corti, Alfio Molina, Andy Ton, Bruno Rogger, Bernard Coté e Glen Metropolit, festeggiato anche lui domenica assieme all’ex numero 11.
L’oggi 62enne si è raccontato a margine della partita e della cerimonia in suo onore: “Sono molto felice di essere qui in questa occasione, anche se vorrei frequentare la Cornèr Arena più spesso – le parole in un ottimo italiano di Lüthi – ma è un onore per me entrare a fare parte di questa Hall of Fame”.
Fredy Lüthi, frequenta ancora la Cornèr Arena o quella di domenica è stata un’occasione speciale?
“Ora sono tre anni che sono tornato definitivamente in Svizzera tedesca e mi sono allontanato un po’, ma cerco comunque di venire regolarmente in Ticino e a vedere qualche partita alla Cornèr Arena quando posso. Prima potevo essere qui più regolarmente anche grazie al mio lavoro di macchinista che per dodici anni mi ha permesso di frequentare questi posti giornalmente”.
Ha ancora qualche contatto con gli ex compagni di squadra?
“Devo dire con dispiacere che non ho più molti contatti con i miei ex compagni di squadra, ed è un peccato. Quando frequentavo più regolarmente Lugano ogni tanto mi incontravo con qualcuno ma oggi purtroppo non sento quasi più nessuno”.
Oltre ovviamente ai titoli vinti, cosa ricorda degli anni passati in maglia bianconera?
“Sono stati i miei anni migliori, per quasi dieci anni eravamo sempre primi o secondi in classifica, abbiamo vinto quattro titoli di cui tre in fila, è stato fantastico. Devo ringraziare persone come Geo Mantegazza che mi ha voluto fortemente, e poi John Slettvoll che spingendomi fortissimo ogni giorno sul ghiaccio mi ha permesso di diventare un giocatore migliore, senza di loro probabilmente non avrei fatto la carriera che ho alle spalle”.
Oggi il Lugano attraversa un momento difficile, che idea si è fatto della situazione?
“Credo sia un momento difficile per tutti, anche per i giocatori, vincere una partita e poi non riuscire a dare seguito a una bella prestazione ti intacca la fiducia e non ti permette di giocare con la testa sempre libera. Forse quando si pensa troppo a come cambiare le cose diventa ancora più controproducente e si entra in una spirale negativa”.
Rispetto alla squadra che formavate in quegli anni oggi ci sono molti più ticinesi o comunque italofoni, a quei tempi si parlava quasi solo tedesco anche a Lugano…
“Rispetto a tanti anni fa sono cambiati moltissimo i settori giovanili, c’è professionalità e programmazione, quindi tutti i giovani anche qui in Ticino hanno molte più possibilità di arrivare in prima squadra. Ricordo comunque anche un paio di giovani ticinesi che riuscirono ad essere professionista anche ai miei tempi, come ad esempio Andrea Bernasconi, che giocò con noi per due anni vincendo due titoli di campione svizzero”.
Le è mancato l’hockey in tutti questi anni?
“Giocare a hockey è stata la mia vita per lungo tempo, quindi è ovvio che mi manchi e mi sia mancato anche in passato quando ho smesso, chiaramente vedendo l’hockey che si pratica in questi anni in Svizzera si può dire che sia quasi un altro sport rispetto ai miei tempi. È cambiato in tutto, velocità, tecnica, pattinaggio, forza fisica, è tutta un’altra cosa”.
E come mai un giocatore dalla carriera come la sua, ricca di successi e di esperienze internazionali, non ha proseguito con la carriera da allenatore, o perlomeno non è rimasto nel mondo dell’hockey?
“Ho allenato per tre anni a Basilea, anche in LNB, e poi un anno a Tramelan in Canton Giura, ma poi ho capito che la carriera da allenatore non faceva per me e quindi ho cambiato completamente ramo uscendo dall’hockey. Va detto che rispetto ad oggi c’erano molte meno possibilità di restare nell’ambito di questo sport anche dopo la carriera da giocatore, oggi ci sono molte più posizioni, come direttore sportivo, team manager o anche da allenatore professionista nei settori giovanili che una volta non esistevano e quindi le opportunità erano decisamente minori”.
Ultimamente sono state apportate diverse modifiche in National League, come l’aumento degli stranieri schierabili, come vede questi cambiamenti?
“Questo è un discorso molto ampio, che implica tanti fattori sia positivi che negativi. Non so dire se oggi sia un male per i giocatori svizzeri, ai nostri tempi potevano giocare solo due stranieri e per questo noi svizzeri potevamo prenderci tante responsabilità facendo crescere tutto il movimento ma, come detto, oggi le cose sono cambiate moltissimo ed è ancora difficile poter giudicare questo cambiamento”.
Un piccolo aneddoto per concludere: quando tornò a Bienne negli anni 90 ebbe la possibilità di giocare qualche partita con Chris Chelios, a quei tempi un giocatore inarrivabile, se lo ricorda?
“Me lo ricordo bene, purtroppo rimase con noi solo per poche partite ma a vederlo nel nostro stesso spogliatoio è stato incredibile, a quei tempi per un giocatore svizzero era impensabile poter stare vicino a campioni di quel calibro. Arrivò durante il lock out della NHL nel pieno della sua carriera e sul ghiaccio si rivelò un grande professionista, ma purtroppo si infortunò e tornò dopo poche settimane in Nord America. Fu un momento particolare per noi, un giorno arrivammo all’allenamento all’Eisstadion e oltre a tanti tifosi del Bienne c’erano anche diversi giocatori del Berna sugli spalti, arrivati apposta per poter ammirare Chris Chelios da vicino”.