Di autunni facili per i tifosi bianconeri non se ne ricordano molti, in questi sette anni che ci separano dall’ultimo titolo vinto dal Lugano, ma anche dall’ultima stagione “seria” e con un obiettivo preciso ossia, la vittoria finale. Oggi non si vuole parlare di vittoria finale, ma di ricostruzione. Banale, direte voi, parole spese per anni e anni in riva al Ceresio, senza perô aver mai la pazienza di attendere i risultati, che non possono balzare fuori come pepite d’oro dalla roccia, ma abbisognano della maturazione come un frutto appeso ad un albero con radici solide.
Perché diciamoci la verità, nessuno era molto convinto quando si pronunciava quella parola così inflazionata, così difficile da giustificare: progetto. Di progetti ne sono stati fatti tanti, scritti, campati per aria, affumicati da parole grosse e incoscienti, affossati dalla fretta e dall’incompetenza. Ogni volta che partiva il famoso progetto, qualcosa, o qualcuno, tra i vari pezzi del puzzle non combaciava. Si era partiti dal dopo titolo 2006 con Zanatta, che qualcuno, anzi molti, credettero fosse l’artefice di quell’ultimo trionfo appena fu licenziato Huras.
Ma c’era un altro nome, arrivato in sordina da Coira, tanto silenzioso quanto professionale e in seguito vincente in Svizzera e in Europa. Sto parlando di Harold Kreis. Chissà che il sottovalutatissimo tecnico di origini germaniche non sarebbe riuscito in una ricostruzione seria e meticolosa di quel Lugano, vedendo i suoi risultati con lo ZSC Lions, ma con i se e con i ma non si va da nessuna parte e tanto vale metterci una pietra sopra.
E dopo il fallimento di Zanatta ci fu quello che personalmente ritengo sia stato l’errore più grave in quegli anni, quello sbaglio che ha fatto da guida a tutte le altre sciagurate scelte prese da lì in avanti. Archiviato con la salvezza firmata Slettvoll il primo play out della storia, si dovette fare affidamento sullo svedese che il Lugano lo aveva costruito per vincere, ma che sapeva benissimo che l’hockey era cambiato e che il “tutto e subito” era ben difficile da assecondare. Ammetto che John Slettvoll non aveva un carattere forse collaborativo e propenso all’accettazione dei consigli – e dico io: ci mancherebbe… – ma avergli messo “i bastoni tra le ruote” con certe scelte improvvisate e dettate dalla “cultura dell’eccellenza” [cit.] pur ben sapendo con quanta benevolenza potesse accettare questi impedimenti, ha di fatto bloccato una ricostruzione messa in atto con saggezza, raziocinio e una consapevolezza della realtà.
Il Lugano dopo quel titolo aveva chiuso un’epoca, un ciclo di vittorie e di campagne europee cominciata alla fine degli anni ’90, grazie a uno zoccolo duro di giocatori svizzeri che ormai erano logori, ad altri partiti nel pieno della maturità per vincere in nuovi lidi e stranieri che hanno sorvolato l’oceano per la dorata NHL. Slettvoll capì che quel Lugano doveva partire da un gruppo di svizzeri esperti, da giovani talentuosi ed entusiasti e da stranieri motivati e nel pieno della loro forma. Era il Lugano di Patrick Thoresen, dello sfortunato Johnny Pohl e del miglior Nummelin visto dal 2004. La filosofia, ce ne rendiamo conto oggi, era probabilmente azzeccata, il Lugano non era più l’unica potenza economica e tra le 2 o 3 realtà più attrattive hockeysticamente.
E per tornare a vincere con concorrenze così agguerrite occorreva lavoro e pazienza, pur con la consapevolezza di dover accettare risultati anche mediocri, ma con il binocolo puntato verso obiettivi a medio e lungo raggio. Quella pazienza che, ahimè, qualcuno nei piani alti non ha mai avuto, andando a minare uno spogliatoio e una serenità, e di conseguenza tutto il lavoro in corso in quel periodo, in maniera difficilmente riparabile. Da lì in avanti conosciamo la storia, tentativi più o meno buoni, decisioni figlie del panico e dell’illusione, politiche incoerenti e scelte sportive discutibili. Fino ai giorni nostri, fino ai giorni di Patrick Fischer, che in fondo sta facendo un lavoro poco diverso da quello iniziato da Slettvoll anni orsono.
Fui il primo questa primavera a criticare apertamente l’allontanamento di Huras quando stava costruendo la propria squadra e con oltretutto un solo anno di contratto da esaurire. Pensai: “ma costava così tanto attendere un solo anno per vederne i risultati?” Probabilmente sì, e ben si capisce oggi che quel costo sarebbe stato probabilmente vedere partire lo stesso Fischer, che si professa da tempo pronto per allenare una squadra di LNA e precisamente il Lugano.
Forse si è voluto guardare una stagione più in là, consapevoli che si rischia di veder bruciare i possibili risultati a breve termine per poter puntare su quello che forse sarà il coach del futuro, dopo aver capito che le potenzialità dell’ex attaccante dei Phoenix Coyotes sono elevatissime. Perché rischiare di perderlo proprio nel momento in cui ci si poteva trovare di fronte a un fallimento, rischiando di dover andare in lungo e in largo a cercare un coach che garantisse futuro e idee nuove? Qui la società ha capito di avere un potenziale patrimonio in casa propria, uno che ha sempre dimostrato di avere il Lugano nel cuore, non fosse altro che dopo aver chiuso la carriera è approdato alla Resega per cominciare il suo apprendistato.
Alla fine possiamo dire che almeno nella buona fede la decisione è giusta, non tanto per i risultati, perché solo quelli daranno il verdetto unico e inappellabile, e per il momento non sono ancora decifrabili, ma per il cambio di strategia a medio e lungo termine e per il coraggio di dover magari sacrificare qualche piccola soddisfazione di oggi per costruirne di grandi in un domani. Quello che ha fatto da subito Fischer è stato mettere in chiaro le cose su come gestirà la squadra, e la società, di sicuro non a cuor leggero e magari anche con una certa riluttanza, si è trovata a doverlo assecondare.
Subito si è scatenato il caso Domenichelli, gestito male soprattutto dal lato comunicativo e tempistico, ma il segnale forte è quello che nessuno sopra allo stesso coach ha osato proferir parola. Forse lo stesso Fischer ha usato parole sbagliate in frangenti sbagliati, errori dati anche dall’inesperienza, ma ha fatto comunque capire alla sua maniera che per ripartire, per vedere costruire qualcosa di ben fatto non guarderà in faccia a nessuno. Qualcuno ha additato Fischer di mancanza di autocritica e va pure bene, e di aver detto quelle parole pesanti solo ora e non d’estate quando il problema – che poi nessuno conosce – era forse risolvibile, e allora proviamo a guardare la faccenda da un’altra prospettiva: forse Fischer durante l’estate ha legittimamente creduto che le cose si risolvessero, ma anche che scoperchiare tal pentolone a maggio, giugno o luglio non avrebbe avuto lo stesso effetto.
Sollevare quel problema al mese di ottobre con il pubblico schierato dalla sua parte – il che significa essere in una botte di ferro, visti i precedenti e l’aria del cambiamento in atto – potrebbe essere stata una mossa tattica. Con che coraggio la società, trovatasi con le spalle al muro avrebbe smentito o ricoperto di sabbia la faccenda? Al diavolo i risultati sul corto periodo, se il prezzo da pagare saranno altre stagioni di sofferenza tanto vale cercare di risolvere ora i problemi all’ordine di “chi vuole mi segua, chi non vuole non fa per il Lugano”.
Fischer sta eseguendo, pur con tutti i passetti incerti di un esordiente, quello che cinque anni fa era stato interrotto bruscamente, perché ha capito anche lui, che solo passando dalla sofferenza, da risultati mediocri e dalle critiche si può tornare grandi. Il pubblico, nella sua gran maggioranza, sembra aver recepito il messaggio, anche e soprattutto per il rispetto incredibile che ha nel suo allenatore, che si sta rivelando carismatico e altrettanto rispettoso nei confronti di chi segue le partite. L’impressione che Fischer sta dando è quella di un giovane tecnico che ha fatto i suoi normali errori e che probabilmente ancora ne farà, ma anche di un grande conoscitore di hockey e di spogliatoi, di un uomo che sa quello che vuole e come ottenerlo.
Persino Arno del Curto ha parlato di Fischer come della miglior scelta possibile e che “con lui sulla panchina bianconera non si parlerà più di me come allenatore del Lugano” e allora come non credere nel buon Arno? Occorre pazienza, e lo dico con la consapevolezza di diventare nauseante a ripeterlo, ma come negli scorsi giorni si è resistito a momenti difficilissimi, lo si dovrà fare anche in futuro, ma ricordiamoci che anche nello sport, mai come oggi si deve passare dal dolore per tornare a gioire – vero, tifosi biancoblu? – e allora attendiamo che i tempi siano maturi prima di giudicare.
Ora non voglio addentrarmi in cifre e statistiche, quelle sono sotto gli occhi di tutti, la mia è stata semplicemente una riflessione su chi ci ha provato ed ha fallito, e su chi ci prova oggi, come Patrick Fischer assieme al fido Peter Andersson. Magari sarà un successo, o forse un fallimento, ma né oggi né domani e forse nemmeno tra un mese potremmo dirlo. Oggi dobbiamo solo dire a Patrick che se vorrà dimostrare quanto vale deve andare avanti per la sua strada e che non si curi delle critiche, anche le più feroci. Ma siamo sicuri che lui questo lo sa già.