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Lugano 2016/17: valutazioni di fine stagione di HSHS

LUGANO – La stagione del Lugano si è conclusa al termine di una regular season complicata, a cui ha fatto seguito un’esaltante quarto di finale vinto contro gli ZSC Lions e l’eliminazione in cinque partite contro il Berna in semifinale.

Di seguito vi proponiamo la valutazione di tutti i giocatori bianconeri per quanto riguarda la stagione appena conclusasi, con un breve commento dedicato ad ogni elemento della rosa.

Portieri

Elvis Merzlikins (51 partite, 92,3% svs, 2,6 GAA): In regular season lo abbiamo scoperto umano, tanto quanto le sue emozioni, esternate per un malessere che ne impediva prestazioni da top assoluto. Nei playoff ha ritrovato la serenità, e ha rispolverato dall’armadio il vestito da extraterrestre, con un unico passo falso in Gara 3 di semifinale, ma nessuno ha mai avuto il dubbio che fosse lui il “franchise player” di questo Lugano. Le fortune della squadra bianconera sono passate e passeranno dalle prestazioni di Merzlikins che, a 22 anni, ha sulle sue spalle le più grandi responsabilità della squadra, quelle spalle da ragazzo molto più umano del portiere che sa essere.

Daniel Manzato (12 partite, 91,75% svs, 2,77 GAA): Deve per forza aver combinato qualcosa di molto grave in una vita precedente, la sfortuna avuta in queste ultime stagioni è tale da richiedere un esorcismo. Schierato ad inizio stagione per l’infortunio di Merzlikins ha mostrato la mancanza di competizione soprattutto a livello mentale, poi nelle altre apparizioni durante l’annata ha pagato di nuovo dazio in materia di salute. Non giudicabile nel complesso, anche se di sicurezza non ne ha mai data soprattutto in autunno, si spera che il difficile per lui sia alle spalle e possa ripartire.

Difensori

Philippe Furrer (49 partite, 4 gol, 13 assist -5): Tempi di gioco impressionanti nella disastrata difesa bianconera in autunno lo hanno segnato per gran parte della stagione, minando il suo rendimento e la concentrazione. Solo nei playoff ha cominciato a mostrare il suo lato migliore, ma le titubanze non sono mancate del tutto. Gli è stato chiesto di essere Ray Bourque, poi Brent Burns e anche Shea Weber, e con la consueta professionalità e dedizione ha cercato di essere tutto ciò, anche se lui non lo è. Tornerà ad essere il miglior difensore del Lugano (e tra i migliori della LNA) quando gli si chiederà di essere di nuovo semplicemente Philippe Furrer, che non è Shea Weber ma sempre un gran cavallo di razza.

Alessandro Chiesa (52 partite, 4 gol, 8 assist, -12): Il Capitano per carattere, motivazione, leadership. Sempre a sbattersi in pista e in panchina come un secondo assistente dello staff tecnico. Non è stata decisamente la sua stagione migliore, ma il numero 27 di Biasca ha sempre uno standard minimo che riesce a mantenere anche nei momenti più difficoltosi, anche se ha dovuto pagare anche la mancanza di lucidità del compagno Furrer. Se al suo fianco ha la sicurezza di un all rounder in forma può concentrarsi sul lato fisico e prettamente difensivo del gioco, non sempre gli è riuscito ma la sua attitudine e la grinta compensano qualche errore. Punti guadagnati anche per qualche gol importante e fuori dalle sue consuete abitudini.

Stefan Ulmer (49 partite, 3 gol, 13 assist, +6): Il difensore austriaco è sempre più vicino alla completa maturazione, per intenderci quella che gli permetterebbe di giocare un’intera stagione come ha fatto nel finale di quella appena trascorsa. Tra i bianconeri solo lui e Klasen sanno transitare dal terzo difensivo all’attacco portando il disco sulla paletta del bastone dentro la linea blu, e nessun altro difensore ha delle mani veloci come le sue. Negli ultimi mesi ha dato pure un grande contributo a livello difensivo, risultando efficace grazie alla capacità di lettura del gioco e all’anticipo sulle giocate degli avversari mostrando intelligenza e leadership nei playoff, quando ha pure rischiato il k.o da Scherwey a Berna. Deve trovare la continuità e più concretezza (o coraggio) in zona offensiva, poi sarà veramente il top player che solo a metà riesce a mostrare.

Ryan Wilson (39 partite, 2 gol, 13 assist, +2): Con il senno di poi (ma forse anche già del “prima”) far firmare da subito un contratto fino a fine stagione senza nemmeno un try out all’ex Avalanche può essersi rivelato un errore strategico. Ottimo soldato, professionale e mai risparmiatosi sul ghiaccio, il buon Wilson ha mostrato limiti importanti per un investimento sul mercato straniero, tra tanto lavoro ma anche amnesie paurose e poca presenza offensiva. Probabilmente anche per lui vale un discorso di valutazione, non può essere ciò che gli è stato chiesto di essere. Essere “solo” un buon difensore non basta per giocare da straniero in Svizzera in un hockey molto diverso dal suo.

Julien Vauclair (33 partite, 5 gol, 9 assist, +3): Un altro giocatore la cui sfortuna ha raggiunto livelli altissimi. Fuori per infortunio in buona parte dell’autunno, al rientro non ha ricevuto le responsabilità maggiori della difesa, inciampando pure in prestazioni non sempre impeccabili. Con l’arrivo di Ireland gli sono toccati da subito quei ruoli che tanto amava in passato, rivelandosi  uno degli uomini indispensabili nei playoff per energia, leadership e intelligenza tattica. Purtroppo il fatto che fosse così importante lo si è notato durante le sue assenze, per squalifica e ancora altri infortuni, ma quelle reti pesanti e dal sapore antico nei quarti contro gli ZSC Lions parlano di una nuova giovinezza vissuta sul finire di stagione.

Massimo Ronchetti (59 partite, 3 gol, 1 assist, -4): Quando si viene messi ai margini di un lavoro difficilmente si potrà estrarre il meglio da se stessi. Lo sa bene Ronchetti, il quale ha provato sulla sua pelle questa difficile situazione sotto la gestione Shedden. La mancanza di fiducia nei suoi confronti si è tramutata in prestazioni insufficienti e troppi sbandamenti. La politica del “a ognuno il suo” di Ireland si è rivelata un magistrale toccasana per lui, in un ruolo preciso e consono alle sue caratteristiche ha ritrovato la serenità. L’esordio da incubo nei playoff a Zurigo gli sarebbe potuto costare caro in passato, stavolta con la sua dedizione e il sacrificio si è rialzato, dimostrando che la giusta attitudine può compensare alcuni limiti tecnici.

Steve Hirschi (52 partite, 3 gol, 2 assist, -9): Ci sono giocatori dai quali una squadra non vorrebbe mai separarsi, e Steve Hirschi è uno di questi. Purtroppo però i legami “affettivi” devono essere messi in coda alle esigenze tecniche e bisogna anche essere onesti nell’affermare che il numero 8 comincia a soffrire la velocità del campionato svizzero. Anche per lui la stagione non è sempre stata facilissima, prima dei playoff ha accusato alcuni vuoti causati da un pattinaggio fattosi poco esplosivo, ma con il suo senso della posizione ha saputo anche limitare certe lacune. Per descrivere la persona basterebbe tornare al gesto della cessione del ruolo di capitano ad Alessandro Chiesa, ma in tutta la Svizzera il rispetto per Hirschi è totale. Lui stesso 14 anni fa prese l’eredità di Sandro Bertaggia, a Lugano si spera che ci sia un giovane in grado di dare continuità a questa dinastia di grandi difensori.

Riccardo Sartori (56 partite, 1 gol, 3 assist, -2): Anche per lui, come per Ronchetti, vale il discorso iniziale sulle preferenze di Doug Shedden, il quale non lesinava a lasciare in panchina il giovane Sartori ad ogni errore sul ghiaccio. Con il  passare del tempo ha guadagnato spazio con Ireland, ma non ha mai saputo rilanciare definitivamente la sua stagione. Vittima di troppi alti e bassi, il difensore deve trovare consistenza e continuità per ambire alla titolarizzazione.

Elia Riva (16 partite, 0 gol, 0 assist, -4): Dalle prime pattinate con la prima squadra ci si è resi conto di avere in mano un gioiello. Personalità, coraggio e nessuna paura di prendersi responsabilità anche in power play, il figlio d’arte dovrà essere cresciuto con cura e pazienza, dandogli lo spazio che merita. Se gestito bene (anche con la collaborazione dei Ticino Rockets) sarà un grande investimento per il futuro.

Daniel Sondell (8 partite, 0 gol, 5 assist, -2): Sopravvalutato nello Zugo di Bouchard e Martschini o male utilizzato a Lugano? Probabilmente ci sono entrambe le cose, ma quel che è quasi certo è che Shedden sin da subito non gli ha certo messo addosso la sua fiducia, “ritrovandoselo” tra le mani senza probabilmente averlo mai voluto.

Attaccanti

Alessio Bertaggia (56 partite, 5 gol, 19 assist, -3): L’energia e la voglia sono quelle da spaccare le montagne e come attitudine è il primo della classe. Sballottato tra le linee fino a trovare la sua collocazione nel bottom six, il numero 13 ha privato i bianconeri di una decina di reti, quelle che la passata stagione trovava con una naturalezza disarmante. Si sa, quando un attaccante di razza come lui perde quel minimo di fiducia sotto porta cerca di rimediare in ogni modo, a volte con troppa foga. Solo nel finale di stagione ha trovato qualche rete delle sue (come le due in semifinale a Berna) ma nel complesso è stato tradito da uno scarso equilibrio tra la voglia di trascinare tutto e tutti e la giusta freddezza.

Gregory Hofmann (56 partite, 13 gol, 17 assist, -10): Vale un po’ lo stesso discorso fatto per il suo compagno Alessio Bertaggia: la voglia e la grinta messe sul ghiaccio a volte vanno dosate meglio in favore di una maggior lucidità e una capacità di prendere la decisione giusta al momento giusto. Nel complesso ha giocato una buona regular season, con forse un po’ troppi alti e bassi, ma è mancato nei playoff, quando invece un anno fa segnò reti pesantissime. A volte gli si chiederebbe di essere più altruista, in diversi casi invece avrebbe dovuto essere maggiormente “egoista” (ciò che fanno gli attaccanti più letali), con l’esperienza troverà la formula per essere devastante.

Damien Brunner (35 partite, 8 gol, 19 assist, +2): Non si può certo affermare che siano stati anni fortunatissimi quelli Damien Brunner a Lugano. Troppi infortuni, tutti maledettamente seri, lo hanno tolto spesso dai momenti in cui sarebbe servito di più, lasciandogli trovare il suo vero rendimento solamente nei playoff di un anno fa. Lasciando da parte la sfortuna occorre però sottolineare come quando fosse in salute, raramente si sia potuto ammirare il vero numero 98, quello che si faceva rispettare in NHL e che faceva sfracelli in LNA. D’accordo l’attitudine, come pure il lavoro più di sacrificio e di squadra, ma sappiamo tutti qual è il Brunner che il Lugano vorrebbe da quando è stato ingaggiato. Sia pure più individualista e “meno” team player, ma faccia in modo che sia il vero Brunner, colui che i tifosi stanno ancora attendendo.

Tony Martensson (54 partite, 13 gol, 20 assist, -8): Il canto del cigno fu la sua strepitosa primavera del 2016, il colpo di coda avvenuto tra settembre e ottobre dello stesso anno fu solo ingannevole. Nonostante delle prestazioni discontinue, all’inizio della stagione ha fornito un’ottima quantità di punti, alcuni resi più facili dalla vicinanza con Linus Klasen, poi, complice la separazione dal topscorer e un pauroso calo fisico, si è definitivamente spento. Messo ai margini in inverno inoltrato, ha avuto ancora qualche chances con Ireland, ma il serbatoio piangeva miseria da tempo. Durato mezza (scorsa) stagione ha avuto un picco impressionante grazie all’intelligenza tattica e l’opportunismo, ma ormai è quasi certezza che sia giunto a Lugano con un paio di anni di ritardo.

Ryan Gardner (60 partite, 9 gol, 7 assist, -10): Lo scetticismo era generale al momento del suo  ingaggio, ma al tirar delle somme la stagione di Gardner è andata ogni oltre aspettativa. La lentezza nel pattinaggio è spesso stata compensata dal senso della posizione (grazie al quale ha pure segnato un numero non insignificante di reti) e si contano sulle dita di una mano i dischi gestiti male in tutta la stagione. Esperienza, leadership e tantissimo acume ne hanno fatto una pedina importantissima e uno specialista del box play, dove ha formato una coppia incredibile con Maxim Lapierre. Gli anni passano e probabilmente un’ulteriore stagione potrebbe essere di troppo, ma la sua annata appena conclusa si può definire ampiamente positiva.

Raffaele Sannitz (57 partite, 8 gol, 7 assist, -9): Lo disse lui stesso dopo la sua bellissima scorsa stagione: “sono come il vino, miglioro invecchiando.” Tra l’ironia di quelle parole c’era tanta verità, non solo per le reti segnate, ma per la maturità e la leadership che, passati i 30, il centro ticinese riesce a mostrare. Sempre nel posto giusto al momento giusto sia in attacco che in difesa, Sannitz è diventato uno dei pilastri più solidi del Lugano, grazie alla duttilità tattica, la professionalità e la capacità di gestirsi fisicamente. Le ultime stagioni stanno lì a dimostrare la sua crescita in una “seconda giovinezza”, ma soprattutto le serie di playoff giocate ad alto livello tattico e fisico contro ZSC Lions e Berna mostrano l’importanza del numero 38.

Julian Walker (60 partite, 6 gol, 0 assist, -6): È partito a mille in autunno, trovando anche reti pesanti nel difficilissimo inizio di stagione, ma poi si è spento alla distanza. La sua proverbiale energia sul ghiaccio è sembrata per gran parte della stagione cercare “bersagli” inesistenti, con movimenti e pattinaggio senza disco piuttosto fini a se stessi, nonostante il sempre grande lavoro difensivo e di tiri bloccati. Praticamente sparito nei playoff, non ha saputo proporre quella continua produzione di fisicità, scosse telluriche alle assi e altissimo forecheck che lo hanno sempre caratterizzato come uno dei “disturbatori” per eccellenza.

Linus Klasen (61 partite, 12 gol, 43 assist, -12): Quando si ingaggiano giocatori come Linus Klasen bisogna accettare di portare con se tutto “il pacchetto”, fatto di talento infinito, spettacolo, ma anche un carattere più volubile (ricordate Michael Nylander?) agli eventi e alle persone. Il topscorer del Lugano ha la scusante di aver “tirato il carro” per un autunno e mezzo inverno senza mai avere al suo fianco un centro completo e di altissimo livello per esprimere tutto il suo potenziale. D’altra parte ha anche la responsabilità di voler sempre cercare la soluzione di fioretto in quei contesti in cui verrebbe richiesta una rude sciabola, e tutto ciò ha prodotto il deludente finale di stagione. L’atavico dilemma su quale sia la soluzione giusta per farne un “franchise player” e dargli la serenità giusta non avrà risposta facile, perché è un giocatore impegnativo, sia per gli avversari che per gli allenatori.

Sebastien Reuille (61 partite, 2 gol, 4 assist, -7): Le stagioni passano, e il numero 32 ha sempre tanta fame di ghiaccio, ma alle sue spalle ci sono giovani giocatori come Morini e Romanenghi che scalpitano per “rubargli” il posto. Reuille ci mette sempre tutta la grinta e la voglia del mondo, ma pur con l’impegno mai mancato il suo pattinare diventa sempre meno incisivo ai fini del gioco. Instancabile e impavido anche nel bloccare i tiri, è stato ricollocato da Ireland come enforcer ruotandolo tra i blocchi, diminuendone il minutaggio ma rendendolo più efficiente. La sua esperienza servirà ai giovani perché ne prendano in mano l’eredità.

Dario Bürgler (60 partite, 23 gol, 21 assist, +7): Una stagione del genere non la vedeva dai tempi in cui era allenato da Arno Del Curto e, guardando il rendimento avuto a Zugo, si può dire che il suo ingaggio è stato l’affare di rigenerazione migliore della LNA. Se sente la fiducia dell’ambiente attorno a sé sa dare il meglio che ha in corpo e nella mente, diventando un attaccante dalla freddezza e dal senso della posizione straordinari. Ha avuto un leggero calo tra gennaio e febbraio, ma ha saputo riprendersi nei playoff, confermando pure la predisposizione al lavoro e alla creazione dell’azione, adattandosi in qualunque linea e chiunque fossero i suoi compagni.

Patrik Zackrisson (44 partite, 6 gol, 19 assist, +4): Bene il lavoro difensivo, ottima la pulizia dei suoi dischi quando vanno smistati, eccellente la professionalità. Ci mettiamo anche lo scarso utilizzo oltretutto fuori ruolo che ne faceva Shedden, e di attenuanti ne abbiamo fin che vogliamo. Però alla fine una cosa conta: conta che le giocate da straniero nazionale svedese fatte da “Zack” sull’arco di quelle 44 partite si contano sulle dita di una mano, mentre il resto del lavoro è paragonabile (con il massimo rispetto) a un buon centro svizzero, e il santo non è valso la famosa candela. Non è uno scorer, non è un playmaker alla Klasen, è un two way molto tecnico ed efficiente, purtroppo gli sembra mancare la personalità necessaria per ricoprire il ruolo di straniero in Svizzera, che propriamente facile non è, va detto.

Maxim Lapierre (38 partite, 10 gol, 13 assist, +0): Alla fine è tutta una questione di gestione. Il canadese è uno di quegli “animali” nella truppa che si adattano ai dettami del proprio coach con dedizione infinita, dimostrando di saper passare dalle intimidazioni controproducenti volute da Shedden a giocatore dalle doti insospettabili ai più. Dal 2017 ha cambiato marcia, la sua e quella del Lugano, prendendo in mano il secondo blocco e lo spogliatoio intero, valorizzando ancora di più le qualità di Luca Fazzini e trovando reti pregevoli oltre che importanti. Dotato di intelligenza di gioco rara, compensa i limiti tecnici con una convinzione al limite dell’ossessione, come quella che ha per i playoff, periodo nel quale è stato l’ultimo a mollare prendendosi responsabilità che non erano nemmeno sue. Animale.

Luca Fazzini (56 partite, 21 gol, 14 assist, +6): La scintilla è partita in un derby autunnale, la fiammata non si è più esaurita, tanto che con 5 reti e 4 assist è stato il topscorer dei playoff tra i bianconeri. Da anni si attendeva la sua detonazione, il botto ha fatto tremare le reti da novembre in avanti, fugando ogni dubbio anche quando è stato spostato dal primo al secondo blocco, girandolo dalle mani di Klasen a quelle di Lapierre. Questo è successo perché il numero 17 ha imparato che il disco non va sempre aspettato pur con un istinto rarissimo per la posizione giusta, ma va anche cercato e “lavorato”. Tutto questo, unito alla fiducia dei coach, ha prodotto un attaccante intelligente, elusivo e letale, che riesce finalmente a sfruttare un polsino dal rilascio rapido, potente e preciso che in LNA possono vantare forse solo lui e Julien Sprunger. Mica pizza e fichi.

Giovanni Morini (43 partite, 3 gol, 0 assist, -12): La sfortuna purtroppo non l’ha mai abbandonato in queste prime stagioni in LNA, frenando l’ascesa di un giovane tanto determinato quanto intelligente. Si spera che da settembre la salute gli dia tregua, perché le qualità ci sono, ma a ogni lunga assenza viene pagato un rientro stentato e difficoltoso.

Matteo Romanenghi (34 partite, 0 gol, 0 assist, -4): A livello di fisico, ritmo e pattinaggio è il giocatore che meglio ha giovato dall’esperienza formativa dei Ticino Rockets, e nelle poche apparizioni concrete sul ghiaccio della Resega questi progressi si sono notati eccome. Volenteroso e dotato di buon senso dell’hockey, col tempo dovrà sviluppare la concretezza e la continuità. L’età è tutta dalla sua parte.

Allenatori

Greg Ireland: Il colpo riparatore di Habisreutinger è una sua conoscenza, di rapido passaggio a Lugano in quattro partite di playout contro il Rapperswil anni fa. Il canadese ha il grande merito di aver ricostruito il gruppo, ridando fiducia e responsabilità a chi era messo ai margini e sgravando di troppe responsabilità chi era schiacciato dal lavoro extra. Intelligente e pacato nonostante una proverbiale calma e pazienza, ha preparato al meglio la squadra per i playoff, vincendo dei duelli tattici con Walsson che non ha saputo ripetere contro un mostro sacro come Jalonen in semifinale. Ha fatto ciò che ha potuto ed è stato moltissimo, onesto con se stesso e i tifosi, purtroppo non era attrezzato a fare miracoli per recuperare (o migliorare) giocatori che non ne avevano più o che non reagivano agli impulsi. Lui spera di rimanere, e se lo meriterebbe, vi è da capire se il Lugano non abbia già fatto una scelta diversa per la prossima stagione prima del suo arrivo.

Doug Shedden: Dopo lo scossone basato sulla sua motivazione estrema l’anno, l’ex tecnico dello Zugo non ha saputo costruire una stagione da zero, affidandosi da subito a pochi suoi eletti e lasciando da parte pedine importanti. Ha il merito di aver contribuito all’esplosione di Fazzini e di avergli dato continuità, ma ha perso la fiducia di mezza squadra e con il suo continuo nervosismo ha cercato di nascondere i suoi limiti nel condurre un gruppo e di gestire alcuni giocatori. Gioco inesistente e una difesa disastrosa hanno rischiato di lasciare il Lugano fuori dai playoff e lo ha eliminato da ogni altra competizione prima dei giochi per il titolo, con la figuraccia in quel di Langenthal. Mai entrato in sintonia con la direzione tecnica per alcuni ingaggi evidentemente mai digeriti (Zackrisson, Sondell) e per dichiarazioni non condivise dal club, non ha fatto nulla per migliorare la situazione, restando schiacciato dalle sue stesse scuse e invettive.

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