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Lugano

Il fallimento di un’idea svela la grande occasione per il Lugano

McSorley si è rivelato incapace di adattare capacità comunicative e gestione del gruppo, ma questo ennesimo cambiamento potrebbe aprire la porta ai bianconeri per una dimensione nuova in cui inserirsi

LUGANO – Il vaso di Pandora si è scoperchiato. E ha lasciato esplodere tutte le cose che alla Cornèr Arena si era sperato non esplodessero, tutte le parole non dette, negate e nascoste sotto il sottile tappeto rappresentato dalle altrettanto sottili porte di uffici e spogliatoi della pista bianconera.

Non ci giriamo troppo intorno, come sorprendentemente – ma sicuramente con un risvolto positivo, se volete cercarlo – ha scelto di fare il club nel trasparente ed eloquente comunicato relativo all’allontanamento di Chris McSorley, l’elenco delle magagne lasciate uscire dal vaso è risultato piuttosto lungo e non ha risparmiato nulla, passando dalla gestione del gruppo e persino dalla qualità degli allenamenti, quasi ad ammettere “sì, i soliti spifferi stavolta erano maledettamente veritieri”.

Un comunicato che sorprende nella forma ma non nella sostanza, quello che stava ormai emergendo dallo spogliatoio bianconero era quasi sotto gli occhi di tutti e anche le porte non potevano più contenere un malcontento che è schizzato fuori tramite le interviste ai giocatori ma anche per voce del ghiaccio, il quale non ha mai nascosto che nella squadra fino a venerdì diretta da Chris McSorley c’era un male che non era curabile con i metodi naturali.

Un male che come ammesso onestamente dal direttore sportivo Hnat Domenichelli non si è palesato solo nei mesi estivi, ma che aveva cominciato a dare i suoi primi problemi già al termine della scorsa stagione e che poi si è fatto incontrollabile durante il preseason e in particolare nei camp estivi, quello di Lenzerheide e successivamente quello di Straubing in Germania.

Ma perché Domenichelli non ha agito subito quando ha capito che c’erano questi problemi tra squadra e staff tecnico? In molti si chiedono perché trascinare una situazione che viste le forze in campo sarebbe stata di difficile risoluzione. Il direttore sportivo bianconero ha semplicemente cercato di fare quello che chiunque avrebbe fatto nella sua situazione, quella di qualcuno in posizione di responsabilità alla testa di un progetto portato avanti con le proprie convinzioni e con la propria faccia, ossia cercare di tappare i buchi della barca sperando potesse arrivare al molo prima di affondare, mediando tramite molte, troppe riunioni tra parte della squadra e lo staff tecnico.

Dalla sua posizione Domenichelli ha fatto una cosa probabilmente sbagliata e che ha solo trascinato e peggiorato i problemi, ma anche assolutamente comprensibile, e allora non si può evitare di pensare che il problema stesse alla base della scelta di Chris McSorley.

Certo, difficile immaginare e comprendere come si sia arrivati a uno sfascio tale della gestione della squadra da parte dell’ex Ginevra, ma forse inizialmente il club bianconero si è fidato fin troppo di un allenatore che – col senno di poi, chiaramente – non ha più i mezzi comunicativi per gestire una squadra che non fosse stata costruita da lui, sia come direttore sportivo che finanziatore. Questa situazione, se confermate le parole del club quando si è affermato che McSorley non poteva più gestire uno spogliatoio nella maniera di venti anni fa, ricorda per certi motivi quella raccontata da Arno Del Curto dopo la fine della sua epoca di Davos e il breve interinato agli ZSC Lions: “Smetto di allenare i club perché non so più come parlare alle nuove generazioni di giocatori.”

Anche chi scrive credeva ancora nel McSorley allenatore e gestore, va ammesso, ma probabilmente quel McSorley si era fermato a Ginevra e in uno sport di squadra che evolve di anno in anno non solo tecnicamente o atleticamente ma anche umanamente, se non si sta al passo con i tempi come nella vita reale alla fine ci si accorge forse di essere fuori posto e che gli altri corrono in una direzione diversa dalla propria.

È evidente che pure a Lugano non ci si è accorti che quel McSorley era rimasto sul Lemano, e la colpa va data al fatto di essersi fidati troppo o di non aver approfondito in sufficienza sugli ultimi anni del canadese, andando sul sicuro con un profilo di esperienza e autoritario, contando anche sull’amicizia che lo lega a Hnat Domenichelli. Si è rivelato fin troppo autoritario in questo caso, ma non nel senso di “Sergente di ferro” (anzi, i giocatori chiedevano più impulsi e intensità anche in allenamento…) bensì inchiodato sulle sue idee senza voler ascoltare le campane attorno, convinto – come era in uso nell’hockey di troppi anni fa – che la parola dell’allenatore dovesse prevaricare tutte le altre, e incapace di accettare che in uno spogliatoio dei nostri tempi, la parola del gruppo e le opinioni dei professionisti (sempre comunque con le decisioni ultime in mano al coach) fanno parte del decalogo di un gruppo vincente.

In fondo lo dicevamo già in tempi non sospetti, al giorno d’oggi ai giocatori, in un campionato di alto livello come quello svizzero, non occorre insegnare a giocare, bensì devi insegnare a vincere. E a vincere si insegna con la comunicazione, la psicologia e la motivazione, i tre articoli racchiusi nella gestione di un gruppo. Nessuno deve inventarsi l’acqua calda a livello di schemi o tattiche fantasiose (e su questo punto perlomeno sappiamo che McSorley non ci cascava di certo) ma la cosa fondamentale è saper parlare ai giocatori e instaurare un rapporto di grande fiducia reciproca, e soprattutto sfruttando i giocatori per le loro qualità. Luca Cereda, Dan Tangnes e Antti Törmänen hanno aperto la via, altri come Christian Wohlwend si stanno accodando, con Stefan Hedlund a confermare che in Svezia questo modello è già in uso da anni, anche con tecnici molto giovani.

E ora, da un fallimento totale come è stata questa esperienza con l’ormai ex coach, il Lugano ha la possibilità reale di creare qualcosa di duraturo lasciando da parte per un po’ dichiarazioni altisonanti. La mossa di dare in mano la squadra a Luca Gianinazzi è coraggiosa come non lo era mai stata in riva al Ceresio, anche se era stata programmata per i prossimi anni. Luganese DOC, 29 anni, sicuro di sé e promettente, il “Giana” ha la possibilità di cambiare quasi in maniera radicale la percezione che l’Hockey Club Lugano dà verso l’esterno e di aprire nuove visioni anche per chi dirige la società.

Comprendendo che per ora Gianinazzi è e rimane una speranza – ma perlomeno seguita e studiata negli anni dall’interno – se avrà successo nella misura che ci si può attendere a corto e medio termine, la sua promozione potrà finalmente portare il Lugano nella dimensione che racchiude le squadre svizzere più visionarie e coraggiose, quelle che in fondo hanno da anni trovato la loro stabilità, sia in termini di risultati proporzionati alle loro capacità, che di gestione e visione a lungo termine.

In questo caso Gianinazzi parte su un treno in corsa che è sempre pericoloso da prendere, quindi andrà protetto e sorretto, andrà atteso e giocoforza le prospettive del Lugano dovranno cambiare a medio termine. A meno che l’ex allenatore della U20 non si riveli un fenomeno, per quanto bravo egli possa essere – la sua personalità ha però già mostrato che non avrà problemi ad inserirsi in uno spogliatoio del genere – non si potranno piazzare subito sulle sue spalle obiettivi impensabili, anche se prima o poi il Lugano dovrà tornare a parlare di lotta per il titolo.

In fondo questo è l’obiettivo a cui deve aspirare un club come quello di Vicky Mantegazza nel suo futuro, ci sarà quindi da capire nei prossimi mesi come costruire una squadra attorno al nuovo coach e se quest’ultimo sarà in grado di gestire una pressione che prima o poi si farà sentire.

Per il momento il compito di Gianinazzi sarà quello di riportare serenità nello spogliatoio e cercare la maniera giusta di fare giocare questa squadra, valorizzando al meglio i giovani (chi meglio di lui?) e riportando la gente alla Cornèr Arena, per altri obiettivi se ne parlerà più avanti, compreso quello di creare un filo diretto con il settore giovanile e in particolare con la U20, anche qui per portarsi al passo dei club che fanno da esempio.

E la dirigenza? Hnat Domenichelli è stato l’uomo sotto i riflettori in queste settimane ovviamente e, sapendo come non ami troppo le telecamere (“se sarò poco su giornali e tv, significa che le cose vanno bene”) gli va dato atto dell’onestà con cui si è esposto e ha ammesso gli errori, mettendosi addosso pure la pressione in caso di insuccesso con Luca Gianinazzi. Il direttore sportivo però ora ha responsabilizzato anche i giocatori, difesi di fronte al vecchio coach, ma doverosi ora di dimostrare che questo gruppo non è assolutamente debole come qualcuno voleva semplicemente far credere, come rifugio troppo comodo per giustificare i risultati.

È stato un vero e proprio terremoto quello dell’ultimo mese, ma forse ora, con la leggerezza di aver scoperchiato il vaso e detto quello che andava detto, tutti sono più leggeri. E chissà che nel fallimento di un’idea sbagliata il Lugano non abbia finalmente trovato la chiave per entrare nella giusta dimensione di un hockey che cambia, senza illusioni di immediate magie e con la consapevolezza di un lavoro delicato ma promettente.

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