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Interviste

Cantoni: “Dopo due anni di grande pressione a Lugano, la scelta di Bülach per me è ideale”

L’ex bianconero è tornato anche sul periodo in prima squadra: “Nella mia testa vedevo un finale diverso, credo che come staff abbiamo fatto un buon lavoro. Il licenziamento? Ero sereno, ma molto dispiaciuto per Gianinazzi”

BÜLACH – Krister Cantoni è ripartito. Dopo la fine dell’avventura in qualità di assistente a fianco di Luca Gianinazzi alla testa del Lugano, il 52enne si è accasato a Bülach, club di MyHockey League. Con il due volte campione svizzero abbiamo discusso della sua nuova sfida e dei suoi ultimi movimentati mesi alla Cornèr Arena.

Krister, praticamente 30 anni dopo la tua esperienza a Herisau ti ritrovi nuovamente in Svizzera tedesca. Ti senti tornato ventenne?
“Neanche a farlo apposta, ieri sera ne parlavo con un mio amico, il batterista della nostra band. Siamo andati ad assistere a un concerto e l’ho ospitato. Mi ha detto che gli sembrava di essere in un appartamento per studenti, e gli ho detto che in effetti mi ricordava i tempi dell’Appenzello, quando abitavo da solo e la mia futura moglie veniva solamente a trovarmi”.

La vita è strana. Sino a 7 mesi fa non avresti mai pensato di ritrovarti qui a Bülach, ma così va il mondo dell’hockey…
“Eh sì, chiaramente quando fai il salto dal settore giovanile alla prima squadra è un rischio. Se le cose vanno bene tutto è perfetto, mentre se vanno male c’è un prezzo da pagare”.

Come mai hai scelto questa sfida?
“Avevo ancora un anno di contratto a Lugano. Una volta che ho trovato la soluzione per scindere l’accordo con i bianconeri, proprio il mio vecchio allenatore in quel di Herisau, Andy Flemming, mi ha chiamato per chiedermi se fossi interessato a questa opzione. Il giorno dopo mi sono incontrato con lui e il presidente Tobias Plüss. Abbiamo discusso e in sostanza in due ore abbiamo fatto tutto. Mi sono detto che era il momento giusto per fare un cambiamento. Subito dopo l’incontro ho chiamato mia moglie a comunicarle che avrei preso questa strada”.

Come ti trovi in questi primi due mesi a Bülach?
“Ovviamente è tutta un’altra realtà, ma mi trovo bene. La struttura non è certo una delle più moderne in Svizzera. Svolgiamo già una volta a settimana l’allenamento sul ghiaccio e poi c’è il preparatore atletico che segue tutto ciò legato all’off-ice. Ci sono tanti giovani, chiaramente devo fare anche attenzione, parecchi lavorano al 100%, quindi la mia testa deve un po’ switchare sul modus operandi in merito alla pretesa. La gente lavora magari sul cantiere o come muratore per oltre 8 ore al giorno, devo così fare attenzione. C’è qualche giovane che vuole ancora fare il prossimo step, c’è dunque un buon mix tra qualche giocatore esperto e diversi ragazzi. Il nostro obiettivo è di fare uscire qualche ragazzo dal nostro settore giovanile e, per esempio, farlo accasare in un Kloten o in un Winterthur di turno”.

A Bülach non sei solo l’allenatore della prima squadra, ma pure il responsabile del settore giovanile che comprende le categorie dall’U16 sino all’U21. Un bel mix dirigere adulti e lavorare con i ragazzi. In fondo quest’ultima cosa è sempre stata una tua peculiarità…
“Dici bene, è stato questo fatto a stuzzicarmi. Negli ultimi due anni avevo fatto l’assistente, il fatto di poter ora riprendere in mano come allenatore una squadra di adulti è una cosa che mi è sempre piaciuta, e infine poter dare una mano agli allenatori delle giovanili mi permette anche di tornare al mio vecchio amore, quello che ho svolto per più di 15 anni a Lugano”.

Credo ti abbia fatto particolarmente piacere che il Bülach abbia pensato a te. Non è evidente venir scelto in qualità di ticinese e in pratica senza nessun legame con il club…
“È così, diciamo che io non sono mai stato bravo a mantenere i contatti, forse anche perché sono stato per così tanti anni a Lugano e quindi non ho mai cercato altre sistemazioni. Mi ha fatto molto piacere questo interessamento. Io sono così, i dirigenti mi hanno subito fatto una buonissima impressione. Quando sento la fiducia io vado a testa bassa. Alla fine si lavora con queste persone. Poter svolgere l’attività di allenatore e seguire allo stesso tempo il settore giovanile in un contesto più tranquillo, dopo due anni di grande pressione a Lugano, anche se in qualità di assistente la mia era minore rispetto a quella di Gianinazzi, è l’ideale”.

E Bülach, anche se forse in Ticino lo si capta un po’ meno, è una piazza di grande storia. Negli anni ’90 militava in LNB e nelle sue fila c’erano pure i mitici Steve Tsijiura e Don McLaren…
“Sì, la società ha una grande tradizione. Adesso qui non c’è l’ambizione di salire, la voglia è quella di formare tanti giovani della regione. In MyHockey League ci sono molti club zurighesi, oltre a noi ci sono anche il Dübendorf e il Wetzikon. Il Dübendorf collabora prevalentemente con lo ZSC, noi invece con il Winterthur. Pure diversi allenatori, ora affermati, sono passati da Bülach, penso a Thierry Paterlini e a Christian Wohlwend”.

Spesso quando si parla dei grandi giocatori zurighesi ci si limita ad elencare lo ZSC o il Kloten come club formatore rispettivamente di provenienza, ma dietro all’origine ci stanno appunto le società più piccole. A Bülach ad esempio sono usciti campioni come Severin Blindenbacher, Marco Bührer, Reto Berra e il grande Felix Hollenstein. Ciò dimostra l’importanza di un club come il vostro…
“Aggiungerei anche Ronnie Rüeger. È fondamentale che un club sia consapevole del suo ruolo e non faccia il passo più lungo della gamba. Se noi riusciamo a formare due giovani ragazzi che possano andare a fare il prossimo step in Swiss o in National League, siamo contenti”.

Hai citato Rüeger. Nel 2013 proprio a Bülach partecipasti alla sua partita d’addio. Non dico che si chiude un cerchio, visto che sei ancora giovane, però è quasi un segno del destino…
“A volte la vita è veramente particolare. Io ricordavo due cose di Bülach. Quando giocavo nei Moskito del Lugano, quindi a 12 anni, venivamo qui in trasferta e nella compagine zurighese giocava un ragazzo di nome Sahin. Penso fosse di nazionalità turca, lui aveva già i baffi e la barba. La seconda è appunto la partita di addio di Ronnie. Sono queste le cose che mi collegavano al Bülach, altrimenti non conoscevo molto del club e della regione”.

Spulciando i tuoi giocatori, il primo nome che salta all’occhio è quello del 20enne difensore Kai Knak, il fratello di Simon, attaccante del Davos e della Nazionale elvetica…
“Kai l’ho allenato nella Nazionale U18 quando ero assistente di Marcel Jenni. Lo conosco già da lì. È un giocatore con tante qualità che forse non ha ancora trovato la sua strada. Sarà un po’ quello il mio ruolo, capire se ragazzi come lui vogliono ancora fare il prossimo step o se si accontentano di giocare a questi livelli”.

Altri due membri provengono direttamente dalla U20 del Lugano, il portiere Mattia Ferrari e l’attaccante Aleksiej Jori. C’è evidentemente il tuo zampino…
“Sì. Quando sono arrivato, due mesi fa, non avevamo nemmeno un portiere sotto contratto e quindi la prima cosa che ho cercato è stato qualcuno in questo ruolo. Mattia si sposterà a Zurigo per motivi di studio e quindi è la soluzione ideale per lui, può conciliare formazione e hockey. Per un ventenne, giocare in MyHockey League è un buon step. Lo stesso vale anche per Aleksiej. È anche un po’ il mio compito quello di andare a cercare dei giovani interessanti per la nostra realtà”.

Il campionato non è ancora iniziato, quindi non è forse il timing ideale, ma percepisci già un po’ la piazza e la tifoseria? Qualcuno ti riconosce o ti ferma per strada?
“È davvero prematuro ora. Ho cercato in questi primi mesi di conoscere bene i ragazzi. Sono stato contento di arrivare già a maggio e non solo ad agosto, altrimenti sarebbe stato ancora più duro iniziare la preparazione senza conoscere i giocatori. Siamo comunque ancora un po’ un cantiere, alcuni atleti sono tuttora all’estero e stiamo cercando qualche licenza B. A fine agosto ci sarà la “Büüli Fäscht”, una grande festa della città che si svolge ogni 8 anni, quella sarà una bella occasione per entrare nel cuore della regione e conoscere meglio anche i tifosi”.

(JustPictures)

Avevi ancora un anno di contratto con il Lugano, saresti presumibilmente potuto restare e svolgere qualche mansione lì, oppure semplicemente farti un anno sabbatico. Hai scelto di partire. Avevi voglia di staccarti dopo quanto vissuto negli ultimi mesi sulla panchina?
“Tanti mi dicevano ‘che bello, stai a casa pagato senza dover fare nulla’, ma questo non è nel mio carattere. Dopo due o tre mesi che sei a casa cominci a guardarti in giro. Non è così facile come potrebbe apparire dall’esterno. Per correttezza devo dire che Marco Werder mi ha offerto di continuare a lavorare nel settore giovanile del Lugano. Un ambito a cui sono profondamente legato. In questi 15 anni abbiamo sicuramente fatto un percorso di crescita e sviluppo costante, sempre con l’obiettivo di fare emergere il talento e tutelare la crescita personale dei giovani. Tuttavia la nuova via intrapresa adesso non combacia più con la mia idea di formazione e quindi per questo motivo ho preferito cominciare un nuovo percorso. Alla fine siamo riusciti a trovare un accordo sereno con la società per sancire la fine del nostro legame contrattuale nel pieno rispetto reciproco e con la sincera gratitudine per quanto condiviso insieme”.

Anche il “Giana” ha cambiato aria. Non c’è stata la possibilità di seguirlo a Visp, non ci sono state discussioni in merito?
“Ci sentiamo spessissimo, non come un figlio o un fratello, ma poco ci manca, sento quasi più spesso lui che mia moglie. Ne abbiamo parlato alla larga per così dire, io non ho mai messo pressione. Penso che avremmo lavorato ancora molto bene insieme, ma credo che sia per lui che per me uno stacco, dopo tanti trascorsi a lavorare fianco a fianco, ci possa stare e trovo che sia giusto che lui si faccia la sua esperienza. Ovviamente in futuro mi piacerebbe tanto poter lavorare nuovamente con lui”.

Quanto è stato duro dover accettare il fatto di essere stato sollevato dall’incarico?
“In tutta sincerità, io paradossalmente ero molto tranquillo. Non so dirti nemmeno il motivo, mi è dispiaciuto tantissimo più per il Giana. Ho avuto tanti allenatori, ne ho visti parecchi, uno così preparato come lui non l’ho mai incontrato e so cosa ci ha messo a livello d’impegno. Mi è inoltre dispiaciuto un po’ forse perché avevo idealizzato il fatto dell’essere due allenatori ticinesi. Noi con Kalle Kaskinen avevamo fatto un buon lavoro a mio avviso, nella mia testa vedevo un altro finale. Quando da un giorno all’altro ti ritrovi senza più questo sogno fa specie. Però ero tranquillo appunto perché sapevo quanto ci avevamo messo dentro. Mia moglie dopo un paio di settimane mi disse che non mi ero reso conto, che non ero nemmeno arrabbiato, ma io non lo ero, ero calmo. Sapevo quante energie avevamo investito e quanto ci credevamo. Alla fine ci sono delle cose che non puoi gestire e i risultati non arrivavano. Rimpianti? Sì, probabilmente cambierei qualcosa, anche il Giana verosimilmente, ma questo fa parte della tua crescita di allenatore. Lugano non è una piazza facile quando le cose non vanno bene. Chapeau al Giana per come è riuscito a gestire il tutto, io non so se ci sarei riuscito nella sua posizione”.

Il licenziamento “lo hai sentito arrivare” o è stata una sorpresa?
“Noi durante tutto l’anno abbiamo sempre sentito la dirigenza dietro di noi. Dopo la sconfitta di Porrentruy lì si è percepito qualcosa, tornando in bus. Non ne abbiamo mai parlato, ma c’era una sorta di percezione. Il giorno dopo, la domenica, è poi arrivata la chiamata. Forse però il primo momento dove ho iniziato a farmi qualche pensiero in merito è stato quando il club ha ingaggiato Antti Törmänen in qualità di Senior Advisor a inizio dicembre, un mese prima del cambio in panchina”.

Una volta messo alla porta hai continuato a seguire il campionato del Lugano o hai staccato completamente?
“La prima partita, in casa contro il Davos, non l’avevo guardata, poi però ho seguito tutti i match alla televisione e una volta sono andato pure alla Cornèr Arena. Non riuscivo a non guardare le partite, anche in ottica di allenatore. Guardavo i cambiamenti tattici, le modifiche e poi quando hai una relazione quotidiana con i giocatori è difficile in seguito staccarti o non essere più interessato”.

Con Krupp non è andata meglio. È stato una sorta di sollievo? Se con il nuovo corso i risultati fossero migliorati, forse sì che potevate davvero sentirvi degli idioti o degli incapaci. Oppure ha prevalso il dispiacere per la squadra e la società?
“Sai, queste discussioni sono da bar. ‘Se vi licenziavano prima sarebbe stato meglio, se foste rimasti le cose sarebbero migliorate’ e così via. Con i se e i ma non si va da nessuna parte. L’unica cosa che a me dispiaceva è che la squadra andava male. Krupp o non Krupp a me non interessava. Non godevo vedendo che anche con lui le cose non andavano bene. Anzi, Krupp non lo conosco, ma nello staff c’erano Paolo Morini e Flavien Conne, gente con cui ero sempre in contatto e con cui lavoravamo insieme da anni”.

Luca Cereda afferma che allenare la squadra del tuo cuore, quella della tua regione, è bellissimo e un motivo di orgoglio. Però c’è anche l’altra faccia della medaglia. Quando le cose vanno male, non puoi fare come il canadese di turno: tornare a casa tua, andare lontano, chi si è visto si è visto e chi se ne frega. Considerando quanto hai vissuto, sposi la frase del coach biancoblù?
“Sicuramente. È vero, ho giocato anche ad Ambrì, ma sono cresciuto nel settore giovanile del Lugano e andavo a vedere mio papà giudice di porta davanti alla Curva Nord. Per me pensare a quello che ho fatto sia in qualità di giocatore che di allenatore in seno all’HCL è qualcosa d’indescrivibile. Quello che dice ‘il Cere’ è vero, condivido la sua affermazione al 100%. Uno che non è del posto non può capire cosa c’è dietro. Quando sei indigeno invece lo sai, entrano in gioco talmente tante emozioni che un coach proveniente dall’esterno non può comprendere”.

Lugano e i suoi tifosi li conosci come le tue tasche. È reciproco. Come sono state le reazioni dopo l’allontanamento? Hai sentito supporto in un momento professionalmente difficile?
“Assolutamente. Alla fine ero quasi un po’ stufo, non volevo più parlarne. Dopo due, tre, quattro settimane volevo girare pagina e guardare al futuro. Ho captato tanto sostegno, forse anche i fans speravano in un’altra fine con dei ticinesi in panchina”.

Per Vicky Mantegazza silurare il Giana e te è stato probabilmente il momento più difficile e sofferto dei suoi 15 anni di presidenza, anche se in fondo la domanda andrebbe posta a lei…
“Sinceramente, io quella domenica lì non avrei mai voluto essere nei suoi panni e in quelli di Marco Werder. Io l’ho vissuto personalmente e non è stato un bel momento, non avrei mai voluto essere al loro posto, questo te lo posso sottoscrivere”.

Siamo praticamente alla fine, ma c’è un’ultima domanda. Janick Steinmann ha deciso di separarsi da Michael Joly. Sei sorpreso?
“Sì. Ho avuto Joly per 2 anni, io l’avrei tenuto, sia come persona che come giocatore, ma è solo la mia opinione personale. Sicuramente Steinmann ha un’altra visione e forse è anche giusto così, che sia entrato con le sue idee e che abbia fatto alcuni cambiamenti. Porta il suo credo e se lui pensa che Joly non sia adatto al suo stile di gioco, va bene così”.

Quindi deduco che i tifosi dell’Ambrì potranno rallegrarsi e che secondo te Paolo Duca ha fatto un’ottima mossa…
“Michael è un giocatore che ti può cambiare la partita quando e come vuole. Chiaro, ogni tanto si prende qualche rischio, ma abbiamo visto a Lugano di cosa è capace. Io ripeto: come persona e come giocatore è uno che io prenderei a occhi chiusi nella mia squadra”.

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