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Ambizioni legittime ma Olimpiadi deludenti, il “wolf pack” di Fischer è rimasto solo un’idea

A Pechino la Svizzera non è mai riuscita a fare quel “click” per sfruttare il potenziale di squadra, tra individualità insufficienti ed un gioco che non aveva gli elementi per fare un passo in più. Al Mondiale ci si attende un segnale

Puntava giustamente in alto la Svizzera di Patrick Fischer alle Olimpiadi, a quell’ultimo weekend che avrebbe messo in palio una medaglia, ma sin dalle prime partite si è capito che a questa Nazionale mancava qualcosa per sfruttare un potenziale che rimane evidente a tutti.

Il torneo rossocrociato è però stato all’insegna dei compromessi, con diverse partite che dal punto di vista del gioco non sono state sicuramente male – tranne l’inaccettabile sconfitta con la Danimarca – ma contraddistinte anche da lacune ed errori che sono andati a cozzare con le giustificate ambizioni del debutto.

Il gruppo che lo staff tecnico ha portato a Pechino non ha fatto l’unanimità al momento delle convocazioni, ma sulla carta aveva comunque individualità e caratteristiche per fare una figura sicuramente migliore rispetto al bilancio di una vittoria e quattro sconfitte con cui la Svizzera ha mandato agli archivi il torneo. Dei numeri deludenti, che ancora non ci permettono di fare quel salto in più che è necessario per considerarsi davvero una “delle grandi” dell’hockey mondiale.

L’argento conquistato a Copenhagen nel 2018 rimane sicuramente un traguardo di cui rimanere orgogliosi, ma questa seconda débâcle ai Giochi dopo quella di Pyeongchang ed il fatto di aver raggiunto la semifinale al Mondiale solamente una volta con Patrick Fischer impongono un segnale davvero concreto già nel mese di maggio in Finlandia.

A Pechino sono sicuramente mancate le individualità, su tutti Hofmann e Andrighetto che hanno giocato un torneo ampiamente insufficiente, ed anche altri elementi non si sono espressi in linea con le loro potenzialità. C’è da fare un applauso ad Ambühl, che a 38 anni è stato il migliore dei rossocrociati ed ha cercato di mostrare la via, ma complessivamente la squadra non ha mai fatto quel “click” necessario per far girare il suo motore al massimo.

C’è insomma da richiamare quella “wolf pack mentality” che sta alla base del lavoro di Patrick Fischer, quell’unità di gruppo e combattività che sul ghiaccio di Pechino non ha rappresentato una costante nel gioco della Svizzera. Questa è stata probabilmente la vera chiave che ha minato le prestazioni in un torneo giocato su piste più piccole, dove tanti momenti importanti avvengono nello slot e presuppongono una certa presenza fisica. La mancanza di mordente in attacco ed alcuni errori imperdonabili a questi livelli – basti pensare ai dischi persi da Haas e Frick nei quarti – hanno poi fatto il resto.

Il contesto non ha sicuramente aiutato lo staff tecnico, che ha dovuto rinunciare a Malgin e Simion per quasi tutto il torneo, ed alla fine qualcosa da recriminare ci può essere anche sulla decisione di deviare dalla regola “squadra che vince non si cambia”, in particolare pensando allo schieramento di Berra nei quarti.

Nel suo bilancio coach Patrick Fischer ha di fatto riconosciuto diversi di questi aspetti, sottolineando in particolare la volontà di portare al Mondiale una rosa più “ruvida”.

Non resta dunque che attendere ed osservare, perché se la formula (opinabile, in tutta sincerità) delle Olimpiadi di mantenere tutte le squadre in gioco dopo la fase di qualificazione ha in parte salvato le apparenze, ad Helsinki ci si aspetta di vedere una Svizzera che renda onore alle sue ambizioni.

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