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Lugano

Da dieci a zero, quando la passione mette fine alle vertigini del Lugano

LUGANO – Quando il Lugano, il 10 settembre 2015, ha rinnovato anticipatamente – e con tempistiche di certo non casuali – il contratto di Patrick Fischer, qualcuno un “ahi” se non lo ha detto lo ha sicuramente pensato.

Un’esclamazione di dolore più di pensieri nefasti che di dolore fisico, anche se quello, forse non proprio a livello corporeo ma incentrato al cuore, allo spirito, non ci ha messo molto a fare capolino. Perché il fatal Davos, lo si chiamò, la notte della caduta, della goccia di troppo, arrivò il 21 ottobre.

Il 22 ottobre Patrick Fischer ricevette una telefonata da Roland Habisreutinger, e se sperava fosse per discutere della difficilissima, disperata situazione del suo Lugano, in cuor suo sapeva benissimo che poteva essere il suo capolinea, Davos come Caporetto, o meglio Waterloo, più adatta alla personalità del coach.

Il 22 ottobre, data infausta per già altri allenatori quali Kevin Constantine e Barry Smith, con Laporte ad anticipare di una decina di giorni forzato da una valigia  anni prima e Pelletier che cade solo tre giorni dopo Fischer, ma sempre di ottobre nero si parla, il mese dei coltelli per gli allenatori.

L’ennesimo fallimento, un coltello che ha trafitto la pancia dei tifosi, a guardare quella classifica deprimente che, sì, troppo forte e decisa ha riportato alla memoria i playout, il grigiume di quelle sfide vissute come un’onta da chi ha visto delle serie contro Basilea e Rapperswil, tanti ma pochi anni fa.

E no, non si poteva, con quella squadra, con certi campioni, non poteva essere così, un incubo vissuto nel profondo con la linea distante quanto il suono di una sveglia non caricata per uscire da quel brutto, reale e deprimente sogno.

Una coltellata alla pancia dei tifosi, al cuore di chi ha preso la decisione più dura della sua carriera da presidente e non solo. Vicky Mantegazza aveva creduto tantissimo in Fischer, nelle sue idee rivoluzionarie, nelle sue visioni moderne ma ancora astratte di un hockey ancora utopia, per il semplice fatto che l’umano è imperfetto, sbaglia, e se decide di ribellarsi, di non seguire più chi lo ha creato, diventa come il mostro di Frankenstein sfuggito al suo professore.

Ma quel coltello, infilato nel cuore, ha anche il suo vantaggio: distacca l’organo delle emozioni dal da farsi e ricollega a tutta forza la testa, la razionalità, che appena sarà uscita dall’elaborazione più rapida possibile del lutto deciderà finalmente per una via sicura, decisa e razionale.

Doug Shedden da Zagabria, libero da impegni ma alla ricerca di sfide è salito in sella senza ne se ne ma, e in poche ore ha estratto la sua diagnosi: “manca passione”. Tutto lì, sì, ma quella passione è da ritrovare in pochi giorni, non c’è tempo di piangere, e allora via sul ghiaccio a urlare come non ci fosse un domani, perché no, non c’è quel domani per chi dorme.

Responsabilità individuali, ruoli precisi per caratteristiche, ricostruzione del gruppo, con quella splendida Coppa Spengler a fare da team building, con una finale giocata, anche se persa, che pur amichevole fosse, ha insegnato di nuovo ad alcuni cosa significa lottare per un obiettivo.

Via via una scalata degna dei migliori free climbing, senza appigli, perché cadere di nuovo sarebbe stato stavolta fatale, e una volta raggiunto il campo base ai piedi dell’Everest, lo sguardo sempre in alto, mai verso la valle.

Il primo strappo di Zugo fatto a passo di corsa, in cordata strettissima, uno appigliato all’altro, con i leader a prendere la testa e i veterani a spingere da dietro, poi quell’intercapedine paurosa, che ha mietuto vittime e lasciato strascichi, quella cima intermedia dove osavano solo le aquile. Aquile cacciate dal nido, colpo dopo colpo, a sassate, con i disturbi del nuovo motivatore Lapierre e le picconate a salire di Martensson, con Hofmann ad agganciare il moschettone appena prima di cadere e poi Furrer, il primo a fare il passo sopra le aquile e a trascinare la cordata.

Il buon passo bianconero non è bastato però, appena sotto la cima i manometri di ossigeno segnavano il rosso, e dopo un primo coraggioso strappo l’orso di Leuenberger ha trovato la cima, dove non c’era spazio per due.

Ma da lassù i bianconeri hanno capito una cosa, che Doug da Pittsburgh gli ha fatto ritrovare veramente la passione, contagiando una tifoseria intera, entusiasta e entusiasmante, che ha fatto capire che a Berna saranno in 17’000, ma quello che si respira in Ticino, quando i giochi contano è lo sbuffo di un bufalo sul collo, e non c’è Postfinance Arena che tenga.

Peccato che anche i bianconeri non abbiano tenuto, ma costretti a rincorrere la cima a passi lunghi non gli si può rimproverare niente, perché ora sanno di nuovo come si scalano le montagne.

Uniti e senza guardare in basso.

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