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Interviste

Selänne: “Una carriera di passione, ho realizzato i miei sogni”

ZUGO – È stata una giornata speciale quella che ha vissuto lo Zugo, con l’Hockey Academy degli svizzero centrali che ha ospitato il leggendario attaccante finlandese Teemu Selanne, il quale si è allenato con i giovani nella prima parte della mattinata ed è poi sceso sul ghiaccio anche con la prima squadra.

Poche pattinate per lui, che hanno però lasciato immediatamente a bocca aperta i molti presenti alla pista di allenamento di fianco alla Bossard Arena. Cambi di direzione fulminei, tiri secchi e precisi ed un impressionate controllo del disco sono ancora nelle corde dell’asso finlandese, anche dopo una stagione di inattività.

Una passione infinita per l’hockey la sua, che gli ha permesso di giocare 21 stagioni in NHL, facendo registrare 1’545 punti in 1’581 partite con Jets, Ducks, Sharks e Avalanche, vincendo la Stanley Cup con Anaheim nel 2006/07.

“Per ottenere dei risultati dei genere ci vuole molta passione e spirito di sacrificio – ha spiegato Selannea cui vanno aggiunti il duro lavoro e la fiducia nei propri mezzi. Bisogna essere in grado di continuare a rincorrere i propri sogni anche quando le cose non sembrano andare bene, perché il modo in cui si reagisce alle difficoltà e agli infortuni è la cosa più importante. Sono stato fortunato che il mio hobby è diventato il mio lavoro, anche se non l’ho mai considerato come tale”.

Quando hai capito che fare il giocatore di hockey era la strada giusta da seguire?
“Lo sport è sempre stata la mia più grande passione, ed i miei genitori mi hanno dato l’opportunità di fare ciò che mi piaceva. Con il passare degli anni ho iniziato a divertirmi sempre più, e a 17-18 anni ho iniziato a credere che magari un giorno avrei potuto vivere di hockey. Il mio sogno era quello di poter giocare nel massimo campionato finlandese, e se tutto fosse andato bene avrei potuto raggiungere la Nazionale. Tutto è successo velocemente e d’un tratto ero il protagonista delle mie stesse fantasie”.

La tua prima stagione era stata impressionante, con 132 punti in 84 partite con Winnipeg…
“Forse con quella stagione avevo messo l’asticella delle mie aspettative un po’ troppo in alto (ride, ndr). Quell’anno ero molto ‘affamato’ e giocavo nella prima linea e in powerplay. Durante la mia carriera ho poi visto molti cambiamenti ed è stata una grande sfida riuscire ad adattarsi all’evoluzione dello sport. Con il passare del tempo ho anche apprezzato il gioco sempre di più, arrivando a 38 anni ad amare di più l’hockey rispetto a quando ne avevo 20”.

Puoi farci qualche esempio di questi cambiamenti?
“Quando sono arrivato in NHL il gioco era prettamente impostato all’offensiva, poi improvvisamente New Jersey ha iniziato ad applicare uno stile prettamente difensivo, vincendo alcune Stanley Cup… Tutti hanno così iniziato a seguire il loro esempio, costringendo i giocatori a cambiare stile. Ora i giocatori sono più veloci, abili e forti fisicamente, e stare al passo con i giovani è stata una vera sfida. Una parte cruciale era anche il processo di recupero, dopo aver giocato oltre 82 partite in un anno… Tutto deve essere pianificato alla perfezione”.

Cosa ti manca di più ora che ti sei ritirato?
“Sicuramente i miei compagni di squadra e la vita che viene a crearsi nello spogliatoio… È una cosa che non puoi trovare da nessun’altra parte. Quando poi si ha un obiettivo in comune come squadra, tutti si uniscono e si provano delle sensazioni uniche. Ora la mia vita è però diversa e non devo più programmare precisamente le mie giornate, sono libero di alzarmi quando voglio e decidere cosa fare a giornata in corso. Ho quattro bambini e dunque sono impegnato da quel punto di vista, ed in generale mi sto godendo la mia vita dopo l’hockey”.

Ora come occupa dunque tutto questo tempo libero Teemu Selanne?
“Molti giocatori quando si ritirano passano un periodo di difficoltà, sostanzialmente perché si annoiano e non hanno più nulla in grado di creare quelle emozioni a cui erano abituati. Personalmente mi piace giocare a golf, tennis e andare a sciare, e naturalmente avere quattro figli mi tiene molto impegnato. Quando però sono a scuola posso fare veramente quello che voglio”.

Cosa che invece non potevi permetterti da giocatore, data l’importanza della preparazione estiva…
“Sì. Quando ho iniziato la mia carriera in NHL i giocatori arrivavano al training camp in sovrappeso almeno di dieci chili, e per quello le sessioni erano molto più lunghe. Personalmente agli inizi mi ritrovavo sempre ad essere tra i giocatori con la forma migliore, tanto che gli allenatori mi dicevano di pattinare più lentamente, altrimenti i miei compagni si sarebbero innervositi. Con gli anni questo è cambiato molto e, anzi, se oggi si arriva ai camp non al top della forma si hanno dei seri problemi ad avere un posto in squadra”.

Hai mai pensato di ritornare nel mondo dell’hockey diventando coach?
“Al momento no. Se si vuole fare l’allenatore ad alto livello bisogna avere lo stesso tipo di passione e impegno di quando si era un giocatore… Al momento non so se riuscirei davvero a rendere felici 25 giocatori, è una sfida che solo i buoni coach riescono a portare a termine. Forse potrei allenare dei giovani, ma non dei professionisti, perché al momento non mi sento pronto”.

La KHL sta cercando di raggiungere il livello della NHL… Cosa ne pensi?
“Non è una cosa che succederà. La KHL sta facendo un ottimo lavoro ingaggiando tanti buoni giocatori, ma nonostante questo non credo che possa rappresentare una minaccia per la NHL… In tutto il mondo i migliori giocatori vogliono giocare nella NHL. Non credo ci siano reali possibilità di business in Russia, tante squadre stanno perdendo soldi e chiudendo i battenti. Per un giocatore rimane comunque interessante avere questa opzione, magari prima di fare il salto in NHL”.

Cosa ci puoi dire invece dei rumors relativi alla possibilità per te di giocare un’ultima stagione con lo Jokerit?
“Lascio aperta anche questa opzione, ma ho preso una decisione e mi conosco abbastanza bene… Difficilmente cambio opinione. Ci sono state delle voci, ma non sono mai state vicine a diventare realtà”.

Dopo tanti anni oltre oceano, dove ti senti a casa?
“Il mio cuore è sempre in Finlandia, anche se la mia vita al momento è in California. Con i miei figli però parliamo solo finlandese, ed ogni estate torniamo a casa per almeno due mesi… Ed in futuro forse lo faremo più spesso, come ad esempio a Natale e in altre occasioni simili”.

Con la rinascita dei Jets hai avuto occasione di tornare a Winnipeg… Com’è stato giocare nuovamente dove tutto ha avuto inizio?
“È stato incredibile, ho davvero dei bei ricordi lì. Quando me n’ero andato a causa di un trade non avevo avuto l’occasione di salutare, dunque tornare dopo 15 anni è stato molto bello, ed il modo in cui i tifosi mi hanno accolto è stato pazzesco. Winnipeg potrà essere uno dei posti più freddi al mondo, ma il cuore della gente che vi abita è caldissimo”.

Nel corso della tua carriera hai vissuto tanti momenti memorabili… Ce n’è uno che ricordi in maniera particolare?
“Sicuramente vincere la Stanley Cup, un vero e proprio sogno che è diventato realtà. Con la Nazionale ho sempre perso tutte le finali, e finalmente quando sono riuscito a vincere qualcosa è diventato subito il mio ricordo più grande. Non ci sono parole per descrivere quanto duro sia vincere la Stanley Cup, ci sono talmente tante cose che devono andare bene ed è una guerra che dura nove mesi… Devi andare oltre i tuoi limiti ed avere un po’ di fortuna”.

Quale invece il momento più difficile della tua carriera? Magari quell’anno giocato in Colorado?
“La stagione agli Avalanche è stata la più difficile della mia carriera. Il mio ginocchio era in brutte condizioni e ho perso la passione per il gioco… Non mi divertivo più nell’andare ad allenamenti e partite, perché sapevo di non potermi esprimermi al mio solito livello. Dopo l’operazione ho poi deciso che sarei tornato a giocare solamente se il mio ginocchio fosse stato al 100%, e fortunatamente è quello che è successo. La passione è tornata, tanto che andando agli allenamenti mi ritrovavo a sorridere senza nemmeno rendermene conto. L’anno in Colorado è stato difficile, ma guardando alla mia carriera in generale molto importante”.

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