(swiss-image.ch/Photo Andy Mettler)
Ancora una volta ha saputo stupire tutti. La sensazione che Arno Del Curto stesse facendo di nuovo qualcosa di straordinario lo si è capito a inizio stagione, con il suo Davos – dato da molti, me compreso, alla fine di un ciclo – primissimo in testa al campionato, e solo quella brutta flessione a cavallo tra 2014 e 2015 ha fatto pensare che i grigionesi tornassero nei ranghi.
Niente di più sbagliato, perché nei playoff la sua squadra ha acquisito forza mentale, consapevolezza e una maledetta sicurezza nei propri mezzi. Già far fuori lo Zugo non è sembrato propriamente una passeggiata, ma il capolavoro del 4-0 sul Berna ha fatto capire a tutti che il vecchio Arno avesse di nuovo trovato le orecchie del coniglio mentre frugava nel cilindro.
In finale ha portato una squadra che ha giocato a memoria, affamata e senza alcuna paura del sacrificio, che se n’è infischiata dell’organizzazione tattica di altissimo livello dello ZSC. E anzi, ha capito che anche contro quella che tutti hanno definito la “fuori quota” della LNA, si doveva continuare a mostrare personalità, sicurezza nei propri mezzi e una certa sfacciataggine da giovane rampante.
Il “nobile” Marc Crawford, venuto dalla NHL in cravatta ed etichetta, con pure una Stanley Cup nel bagaglio, si è scontrato con il guru in maglione venuto dalle montagne dell’Engadina. Due tecnici fantastici, intelligenti e vincenti, ma diversi nella loro visione dell’hockey.
(© Berend Stettler)
Del Curto ha fatto vedere che in Svizzera si può ancora vincere con materiale svizzero e idee svizzere, Crawford è invece la prova che oltreoceano si vede l’hockey rossocrociato con sempre più rispetto e con la consapevolezza delle sue potenzialità.
Una finale perfetta, la mescolanza di due visioni, l’hockey migliore proposto sulle nostre piste in cui ad avere la meglio è stata ancora la “tradizione” e la perfetta conoscenza di un bacino da cui attingere per costruire una squadra che è sempre più una famiglia che agisce come una sola entità.
In fondo è questa la bravura del tecnico campione, quella di forgiare un gruppo a sua immagine e somiglianza, nel quale ogni elemento – Reto Von Arx avanti a tutti – si sacrificherebbe in ogni momento per la propria guida, senza fenomeni straordinari ma con grandi leader a guidare i più giovani talentuosi.
Ha un ascendente sui giovani in particolare, che carica di grosse responsabilità ma senza pressioni, e gli fa praticare un hockey tanto semplice quanto accattivante, con il quale raggiungono risultati sia personali – vedasi Simion, Jörg, ecc. – che di squadra. Motivazione, fiducia nei giocatori, sia nei più giovani che nei più esperti, e un credo sportivo immutato nel tempo. Un credo che gli ha fatto vincere 6 titoli in 20 anni, molti dei quali quasi inattesi e che gli sono valsi anche il riconoscimento come tecnico migliore d’Europa nel 2009.
(swiss-image.ch/Photo Andy Mettler)
Già, l’Europa. Quella sognata e sfiorata con la mancata firma allo SKA San Pietroburgo nel 2010, probabilmente una delle poche ragioni per cui andarsene da Davos. Il buon Arno ne è sicuramente consapevole, l’intera organizzazione gialloblù senza di lui non sarebbe più la stessa, e mai come in questo momento il futuro suo e del Davos che conosciamo appare incerto.
Solo il tempo dirà, forse “Harry Potter” siederà ancora sulla sua panchina o forse no, ma state pur certi che ovunque andrà continuerà a “festeggiare” le vittorie come fatto nella notte di Zurigo. Con le mani in tasca e un sorriso nemmeno abbozzato a ribadire con la sua proverbiale modestia che in fondo lui ha fatto solo il suo dovere, quello di insegnare a dei bravi ragazzi a vincere divertendosi. Semplice, no?