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Ambrì Piotta

Benin: “Koleff mi ha dato tanto, vorrei la ricetta di Duca per avere così tanta energia”

Il team manager dell’Ambrì si racconta: “Sono stati sin qui 13 anni variegati e intensi. Nella vita ho vissuto tante esperienze, organizzando anche tornei di golf, ma l’hockey è stato sin da bambino la mia grande passione”

È probabilmente impossibile quantificare le ore della sua vita che Alessandro Benin ha dedicato all’Ambrì Piotta. Il milanese, classe 1977, dallo sportivamente lontano 2013 è al servizio del club leventinese.

“Ale” è una sorta di tuttofare ed è il braccio destro di Paolo Duca. Analisi video, scouting, organizzazione logistica sono solamente una parte dei compiti che svolge da anni. L’italiano, naturalizzato elvetico, è pure una figura praticamente presente non-stop per le esigenze e i bisogni dei giocatori. Quasi sempre dietro le quinte, Benin ha saputo farsi apprezzare sin da subito per le sue qualità umane: flessibilità, capacità di adattarsi e un grande know-how hockeyistico sono sue ulteriori doti. Tutto ciò condito da un sano umorismo e un’autoironia che non guasta mai.

Alessandro è in fondo l’emblema che l’Ambrì Piotta non si riduce solamente a Filippo Lombardi, Paolo Duca o Luca Cereda, ma dietro ai riflettori ci sono appunto tante altre persone impegnate da molto tempo a favore della causa biancoblù.

Alessandro, sei ormai alla tua tredicesima stagione in quel di Ambrì, ti saresti immaginato una tale longevità?
“Assolutamente no (ride, ndr). Avevo appena concluso l’esperienza a Varese, non era stata per niente positiva. Dopo questo vissuto pensavo che fosse finita con l’hockey che conta e che il mio livello fosse ormai quello. Poi però arrivò la chiamata di Serge Pelletier e Diego Scandella. Abbandonai quindi la mia attività di organizzatore di tornei di golf e mi ributtai nel disco su ghiaccio. Ho cambiato tanti ruoli all’interno dell’Ambrì Piotta, ho fatto il videocoach, il team manager, ho ad esempio assistito Serge Pelletier in qualità di DS visto che lui era impegnatissimo essendo anche l’allenatore. Insomma sono stati 13 anni variegati e lo sono tuttora, non ci si annoia mai in Leventina”.

Ho guardato nel mio archivio, lo sai che questa è solamente la seconda intervista che facciamo insieme? Provo quasi imbarazzo…
“Amicizia a parte, è un vero piacere essere intervistato da te. Già prima sulla carta stampata leggevo sempre i tuoi contributi, le tue interviste e continuo a farlo tuttora online. Io faccio semplicemente il mio lavoro dietro le quinte come tanti altri collaboratori del club. A proposito di interviste, non invidio a volte i miei colleghi che ogni due giorni devono rispondere a certi giornalisti. Opinionisti che nelle loro domande in sostanza chiedono se con due cucchiaini di zucchero al posto di uno si sarebbe vinta la partita. Prendi ad esempio Cereda, ogni settimana deve fare 4-5 interviste del genere, non provo certo invidia”.

Torniamo indietro nel tempo ai tuoi primi anni di vita…
“Sono nato e cresciuto a Milano. Ti anticipo. Come mai l’hockey? Ogni tanto mi capita di sentire la domanda, è un classico e ogni volta mi viene da sorridere. Tanta gente pensa che Italia e hockey non abbiano nulla a che fare, ma quando io ero un ragazzo nel nostro campionato c’erano giocatori con un curriculum incredibile. A Milano c’erano due squadre all’epoca. Quella di cui ero tifoso aveva nelle proprie fila ad esempio John Chabot, Bill Stewart, Reed Larson e Bob Manno, oltre 2’000 partite in NHL in quattro. L’altra, i Devils, contavano su Gates Orlando e Mark Napier. Con quel curriculum, oggi, sarebbero degli stranieri top pure in Svizzera. Il livello del campionato italiano era forse anche più alto di quello elvetico. La differenza è stata che in Svizzera hanno seminato i campi e così sono cresciuti gli alberi, mentre in Italia hanno costruito i tetti dimenticando le fondamenta. Ciò fino a quando i tetti sono caduti e ora a parte qualche bella realtà non è rimasto molto. Devo però dire che negli ultimi anni si sono viste realtà che provano a ripartire ed altre che con pochissimo a disposizione, rimangono con i piedi per terra e riescono a fare belle cose. Lasciamo fare al tempo”.

A che età ti avvicinasti all’hockey?
“Posso dire di aver scoperto l’hockey a circa 7 anni, grazie alla passione di mio padre, ma in famiglia quello “malato” di hockey ero solo io. Le Prime Squadre erano appunto forti, il problema però è che i settori giovanili a Milano praticamente non esistevano e quindi non ho mai potuto giocare a hockey. Potevo solamente gustarmelo da spettatore. I miei genitori non erano disposti a portarmi lontano da Milano per permettermi di scendere sul ghiaccio. La mia esperienza da giocatore si è quindi limitata a due anni di inline a Monza. È stato il mio apice (Ale ride ndr)”.

La tua prima stazione hockeyistica stando a EliteProspects è stata in qualità di assistente allenatore nelle fila degli Smoke Eaters, una squadra della British Columbia Hockey League collocata a Trail, cittadina di 8’000 anime situata tra Vancouver e Calgary. Come ci arrivasti e che esperienza fu?
“Dopo i miei anni nell’inline andai a militare e quindi smisi l’attività. Al termine del servizio feci un corso di allenatore ad Asiago. Una volta ottenuto il patentino cominciai a contattare un sacco di squadre in Nordamerica. Volevo fare un’esperienza e vedere dove mi avrebbe portato il mio patentino italiano di primo livello. Un giorno il Presidente degli Smoke Eaters mi contattò. Parlava perfettamente italiano. Lui rivedeva in me i suoi genitori che ai tempi avevano fatto le valigie dall’Italia per emigrare in Canada. “Tanta gente come me sogna di vedere arrivare qualche parente dall’Italia”, mi disse. Mi propose dunque un ingaggio. Il club mi pagava poco, ma era abbastanza per vivere. In pista parlavo inglese, mentre in città praticamente parlavo solo italiano. Era pieno di emigrati”.

Certo che ce ne vuole di fegato per fare questo tipo di scelta…
“Fu una mossa un po’ folle all’inizio, avevo solo 21-22 anni, ma è stata decisamente un’esperienza arricchente e bellissima. Inoltre Garry Davidson (coach pure di Wetzikon e Dübendorf negli anni ’80, ndr), allenatore e general manager della squadra, conosceva Jim Koleff. Non so nemmeno più come sia partita la cosa, ma da lì in poi sono stato in contatto con Jimmy e in sostanza l’hockey è diventata la mia professione”.

Koleff, un mito che ci ha purtroppo lasciato troppo presto. È stata la persona più importante nella tua vita hockeistica?
“Assolutamente sì, e non solo nell’hockey. Non ricordo una persona che mi abbia mai dato tanto. Jimmy mi ha insegnato moltissimo e mi ha dato un sacco di possibilità. Grazie a lui dopo l’esperienza canadese ricevetti l’opportunità di andare a Lugano, quando era l’allenatore dei bianconeri. Mi integrò ad esempio anche nello staff del Team Canada per disputare due edizioni della Coppa Spengler e mi fece inserire nello staff dei Los Angeles Kings: ebbi la fortuna di partecipare a due development camp della franchigia californiana. Onestamente non basta una semplice intervista per parlare e descrivere Koleff. Jim fu esonerato nel novembre 2002 dal Lugano, verso gennaio firmò poi a Langnau. La prima cosa che gli dissi era che avrei voluto seguirlo nell’Emmental. Ero un po’ più matto di adesso. Jim mi disse se davvero fossi sicuro di volermi aggregare, che Langnau era tutta un’altra cosa rispetto a Lugano. Mi convinse a finire la stagione in riva al Ceresio, coincisa poi con il titolo. Il suo fu insomma un consiglio da altruista. Una volta finito il campionato mi offrì un contratto a Langnau. Purtroppo però a Natale dovette lasciare la squadra a causa dei suoi problemi di salute. Io non avevo tutte le rotelle a posto e decisi di tornare a Milano, anche perché non volevo restare senza di lui nel Canton Berna”.

Dove lavorasti per tre anni…
“Svolsi il ruolo di assistente. Eravamo in due, l’altro era Muri Pajic. Oltre al ruolo di assistenti gestivamo le due squadre giovanili, io la Under 16 e il mio collega la Under 19. A Milano avevamo una prima squadra di alto livello dove il nostro budget superava di gran lunga quello dei secondi in classifica, ma non era la stessa cosa nel settore giovanile e dopo tre anni iniziarono i primi tagli. Possiamo chiamarla la tipica prassi dell’hockey italiano, tutto subito e dopo niente. Ricevetti un’offerta per allenare nel campionato di Serie C Under 26 i Milano Black Angels. Non è nemmeno su EliteProspects questa mia tappa. Era una lega semi professionistica, lavoravo al 50%. Era nata con l’intenzione di formare i giovani sotto i 26 anni per poi catapultarli nella massima divisione. Rimasi per due stagioni e a tempo perso iniziai a organizzare tornei di golf. Dopo due anni la squadra però non fu più iscritta al campionato e mi dedicai quindi completamente al golf sino alla chiamata del Varese, e infine quella di Pelletier e Diego Scandella. Il resto della storia lo conosci”.

Andiamo nel presente allora. Com’è lavorare con Paolo Duca. Spesso da fuori si ha l’impressione che “il Duke” abbia un carattere sanguigno…
“Non è cattivo, se è quello che intendi. Paolo è una persona piena di energia, ogni tanto mi chiedo in quale cassaforte sia custodita la sua ricetta per essere così, vorrei trovarla e farne una copia. Abbiamo un rapporto diretto e sincero, come due persone che si conoscono  da ancora più di 13 anni. Certo, non mancano le discussioni, ma il tutto si svolge sempre in modo molto costruttivo. Ribadisco, non è facile stargli a dietro con tutta la sua energia”.

Qual è il tuo rapporto con i giocatori? Sei pure una sorte di valvola di sfogo per loro. Magari quando hanno certi problemi preferiscono rivolgersi a te piuttosto che al grande capo?
“Se tu chiedessi a loro, penso che la metà ti direbbe che sono troppo buono, l’altra invece che sia troppo “stronzo”. Per loro sono un punto di riferimento su parecchie cose a livello amministrativo, aspetti della vita quotidiana o richieste particolari di ogni genere che magari non osano rivolgere ad altri. Forse un giorno in pensione, quando andrò su un’isola deserta, scriverò un libro su quanto vissuto, sarebbe sicuramente divertente per i lettori. Tornando più seri, il mio ruolo è anche questo. Il mio cellulare può rimanere muto sino alle ore 22:00 e poi da un momento all’altro sembra che il mondo stia crollando. In quel caso entro in gioco io mostrando a chi ha bisogno che in fondo il mondo è ancora in piedi”.

Hai parlato di libri. Sei anche uno scrittore. Nel 2017 hai pubblicato un romanzo storico intitolato “Agguato sull’Aventino”. Spiegaci i retroscena e da dove nasce questa passione per la scrittura?
“È una valvola di sfogo. Ho due passioni in sostanza, la storia e la bicicletta. Specialmente durante la stagione, considerando anche il lavoro con Everett, mangio hockey per 15 ore al giorno. Ci sono momenti, specialmente fuori stagione, ma non solo, dove devi fare attività che non centrano nulla con l’hockey. Adoro appunto la storia e mi piace leggere. Onestamente però non so nemmeno dirti perché abbia scritto questo libro. Ne ho pure ultimato un secondo, ma non l’ho mai pubblicato”.

Come tu sai non ho mai letto il tuo libro, il tema non è di mio gradimento. Perché non scrivi un bel libro di hockey? Questo sì che lo leggerei sicuramente…
“Come detto devi aspettare che vada in pensione. Prima non lo farò”.

Ma nemmeno un romanzo?
“No, neanche qualcosa d’inventato, la gente leggerebbe troppo tra le righe”.

Va bene, mi arrendo. Tredici anni nella stessa società sono tantissimi. Non hai voglia di vedere qualcosa di nuovo e abbracciare una nuova sfida?
“Sono da 13 anni ad Ambrì perché non mi vuole nessun altro. Scherzi a parte, la mia ambizione è sempre alta. Deve sempre esserla. Se uno non prova a fare qualcosa in più da come la vedo io è meglio che stia a casa sua. Paolo Duca ne è al corrente. Intendiamoci, sto veramente benissimo nell’Ambrì, e sono felice di risiedere nel comune di Quinto. Semplicemente non c’è mai stata finora l’occasione che avrebbe reso sensato un addio alla Leventina. Nel novembre 2020, durante il Covid, ho avuto ad esempio due mesi di colloqui con i Carolina Hurricanes per un posto da european scout. Ogni dieci giorni avevo dei meeting con qualcuno del loro staff. Dovevo fare degli esercizi, come per esempio analizzare giocatori e spulciare vari ranking. Mi dissero che ero tra i finalisti, ma al tirare delle somme venne scelto un ragazzo finlandese senza alcun tipo di esperienza. Da 0 a 100 in NHL, insomma. Dopo questo episodio ho accantonato il sogno di diventare scout per una franchigia NHL, capendo che per arrivarci serviva altro che l’esperienza. Questa è stata la possibilità più concreta per lasciare Ambrì. Un giorno mi piacerebbe diventare direttore sportivo di qualche squadra. Magari vorrà dire di dover fare le valigie e salutare la Leventina, ma ora una nuova gran bella stagione è alle porte e quindi tutta la concentrazione è sul presente”.

Certo che comunque se sei ancora in carica dopo 13 anni vuol dire che sei apprezzato, considerando che hai lavorato non solamente con lo staff attuale, ma appunto anche con Serge Pelletier e Ivano Zanatta…
“Ci sono due possibilità. O non hanno trovato un altro matto come il sottoscritto, oppure sto facendo un buon lavoro (Benin ride, ndr)”.

Viriamo su Everett. Credo sia gratificante poter svolgere il ruolo di scout europeo per questo team…
“Molto, mi sono tolto delle belle soddisfazioni. Negli ultimi sette anni ho gestito autonomamente il Draft europeo ed i numeri dimostrano che tutte le scelte si sono rivelate valide. Per esempio nel 2023 abbiamo draftato Miettinen con la 30esima scelta, e ci ho visto giusto perché l’anno successivo Julius è stato scelto da Seattle con la 40esima scelta assoluta al Draft NHL. Quest’anno abbiamo scelto un altro finlandese, Matias Vanhanen, un 2007 che potrebbe addirittura già disputare i Mondiali U20”.

Per concludere, a Everett giocava anche un giovanissimo Dominic Zwerger, prima di trasferirsi ad Ambrì. Ovviamente c’è stato il tuo zampino…
“Paolo Duca stava giocando il suo ultimo campionato, il direttore sportivo era Ivano Zanatta, c’erano milioni di cose da fare. Un sabato sera presi un treno verso Zurigo e poi m’involai a Seattle. Da lì noleggiai un’auto per andare sino a Everett. Guardai due partite, una al lunedì e una al martedì, incontrai Zwerger di persona per conoscerlo e convincerlo ad eventualmente venire ad Ambrì. Mercoledì ero già di nuovo in Ticino. Un tour de force. Fu il primo approccio, la trattativa e la firma furono poi concluse da Paolo Duca, il quale con Cereda ed il sottoscritto andò a Dornbirn a casa sua”.

Un retroscena davvero interessante…
“Lo metterò nel mio libro”.

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