BERNA – Quando due settimane fa è stato annunciato in veste di nuovo direttore sportivo del Berna, sono stati in parecchi a chiedersi chi fosse e da dove spuntasse Diego Piceci. Già, il 38enne di Rapperswil non è certo un nome né un viso conosciuto dalla massa. Solamente per chi frequenta le piste e il dietro le quinte delle sfaccettature hockeistiche Diego non è uno sconosciuto, anzi. Da tanti anni è attivo nel disco su ghiaccio e il suo è un profilo poliedrico.
Diego, è trascorsa una settimana da quando hai iniziato la tua attività in seno al Berna, come sta andando?
“È tutto molto interessante e variato, l’SCB è un’organizzazione grande, c’è tanto da scoprire, ci sono diversi dipartimenti. Insomma, c’è molta roba nuova. È una gran bella sfida essere qui”.
Come mai hai accettato questa nuova sfida?
“Beh, è il classico treno che forse passa una sola volta nella vita. Quando ricevi un’opportunità del genere da un club così prestigioso e attraente come il Berna, non puoi dire di no. Avere la chance di poter costruire qualcosa all’interno di questa società è fantastico. Non ho dovuto praticamente riflettere nemmeno un secondo prima di accettare. Le discussioni si sono sviluppate sempre in maniera positiva, ho continuamente avuto un sentimento positivo. Con il mio pedigree e il mio vissuto non si riceve spesso una chance così. È stato dunque veramente facile accettare l’offerta del Berna”.
Facendo così hai però messo fine alla tua attività di agente iniziata sei anni fa con tanti sacrifici e sudore. Davvero non è stata dura farlo, sapendo oltretutto che ultimamente a Berna i DS non durano molto?
“Questa è una bella domanda. C’è stato un momentino in cui ho riflettuto se il tutto avesse un senso. Ho investito molto tempo e forze in questo progetto, ma ribadisco, una chance del genere non volevo lasciarmela sfuggire. Quindi, con tutto il rispetto per il romanticismo e per il legame stretto che avevo – e che ancora ho – con i miei giocatori, non mi sono spremuto la testa in questo senso. Mi prendo il rischio, lascio cadere tutto e prendo la via di Berna. Questo è stato il mio pensiero. Cosa accadrà ora? I giocatori sono comunque di base sempre liberi, io ho ovviamente già terminato questa attività, sono in corso delle discussioni per vedere se qualcuno vorrà subentrare e riprendere l’agenzia, altrimenti verrà semplicemente liquidata”.
Lo stesso vale per la tua posizione all’interno dello studio di architettura della tua famiglia, dove eri membro del consiglio di amministrazione e ti occupavi di marketing, ambito nel quale ti sei diplomato. Come hanno reagito i tuoi familiari?
“Molto positivamente. Mi hanno detto di provare a sfruttare questa occasione, in un ramo che è la mia vera passione, aggiungendo di farlo per poi non dover avere rimpianti magari più tardi. Per me è stato bello e importante ricevere una simile reazione da parte dei miei cari. Anche se mio papà si renderà poi conto solo tra un paio di mesi che non lavoro più lì, quando noterà la mancanza del mio apporto (Diego ride, ndr)”.
Qual è la tua visione, la tua filosofia hockeistica?
“Sai, è sempre difficile fare questi tipi di discorsi. Ho semplicemente ereditato un gruppo, ora sta a me farlo sentire bene e aiutare per fare in modo che renda al meglio. Verso l’esterno è chiaro, si vuole sempre mostrare un hockey spettacolare e veloce. È facile dire ciò, lo affermano tutti, ma bisogna anche essere realisti. Ci sono dei paletti finanziari da rispettare, ci sono determinati profili di giocatori che si possono ingaggiare e altri che invece non lo sono. Io voglio essere vicino ai ragazzi, dare loro fiducia ed esserci in caso di bisogno e difficoltà. Sono giovani esseri umani, anche loro hanno tante cose in testa e a volte magari dei problemi. È importante non limitare il sostegno solo all’aspetto sportivo. Per me un club è inoltre un’unica unità, tutti sono sulla stessa barca, insieme – questa è la mia filosofia di base. Spesso si tende a fare distinzioni tra i vari settori, per me non è così. Staff medico, allenatori, dirigenti, responsabili del materiale, addetti stampa, giocatori, impiegati in ufficio e così via: solo con una grande solidarietà e unità si può fare bene”.
Hai svolto un’esperienza in qualità di DS per cinque stagioni a Wetzikon in Prima Lega. Può esserti d’aiuto oppure la differenza tra le due realtà è così grande che non fa testo?
“Bisogna essere realisti, sono semplicemente due paia di scarpe differenti, non c’è nemmeno bisogno di discuterne. Non è la stessa cosa, ma alla fine quanto fatto a Wetzikon è sicuramente utile. Pure lì devi creare e costruire un gruppo di 25 giocatori e portarlo al successo. Ovviamente l’aspetto finanziario è completamente diverso, ci sono altre dinamiche, ma pure a questi livelli hai dei budget da rispettare e si tratta pur sempre di piccole/medie ditte. Ho avuto la possibilità di occuparmi di diversi compiti, legati ad esempio al movimento giovanile, all’aspetto delle licenze e tanto altro ancora. Ripeto, non è la stessa cosa, ma è una buona fondamenta”.
Sei praticamente un no-name, sei conscio che i fans hanno parecchi dubbi?
“Assolutamente, e li capisco benissimo. Il mio profilo non corrisponde a quello abituale di un ex giocatore di National League, un ex professionista. Comprendo i dubbi e lo scetticismo, lo avevo messo in conto. Io non sono uno “zampano”. Sono convinto delle mie capacità, ma non sono uno che fa la primadonna e vuole prendersi la scena. Cercherò di mostrare a tutti di essere in grado di svolgere questo ruolo. A me piace, di base, dover dimostrare il contrario di quanto la gente pensa, e preferisco i fatti alle parole”.
Il tuo è d’altronde un bell’esempio e uno sprone per tante altre persone, di come si possa avere la chance di arrivare in alto anche senza avere un passato da gran giocatore…
“Spesso si crede che solamente se si è giocato a grandissimi livelli si possa davvero avere un’idea dell’hockey ed essere esperti. È troppo semplice così. Non per forza bisogna essere stati dei campioni, rispettivamente dei professionisti, per essere intenditori. C’è anche l’altra prospettiva, quella di seguire il gioco dalla tribuna, trascorrere tante ore a studiare i dettagli legati al gioco e i vari movimenti dei singoli giocatori. Tutte attività che svolgevo già da giovanissimo. Bisogna sempre crederci, questo vale anche per gli atleti. Penso ai miei ex giocatori Yanick Sablatnig, Joel Scheidegger oppure Alessio Brun. Chiaramente, qualcuno dirà che quest’ultimo gioca solamente in Swiss League nel Coira, eppure 2 o 3 anni fa in pochi se lo sarebbero aspettato a questi livelli. Bisogna portare la mentalità giusta, non mollare mai e lavorare duro. Così è possibile raggiungere dei bei traguardi che sembravano difficili. Io ho sempre lavorato duro, facendo lunghe trasferte e svolgendo attività nel cuore della notte, ma alla fine – come ti dicevo – per me è una passione e non un lavoro”.
I lunghi viaggi non ti mancheranno nemmeno a Berna evidentemente. Tra l’altro ti sei già trasferito da Rapperswil nella Capitale?
“Non ancora, l’estate non è il periodo migliore per quanto concerne i traslochi e la disponibilità di appartamenti. Sto dunque ancora facendo il pendolare, ma evidentemente mi trasferirò a Berna prestissimo. Voglio essere vicino alle persone, marcare presenza, per me è logico abitare nei pressi del club in cui si opera”.
Il tuo nome ha chiare origini italiane…
“Mia mamma è cresciuta a Lucerna, il mio nonno materno proviene da Belluno. Mio papà invece è di Lecce, arrivò in Svizzera all’età di 17 o 18 anni. Si è costruito tutto da solo, ha svolto il suo apprendistato, la sera studiava e contemporaneamente ha sempre lavorato, prima di poi mettersi in proprio. Parla perfettamente lo svizzero tedesco ed è il tipo che indossa le cinture appenzellesi raffiguranti le mucche. S’identifica proprio con la Svizzera. Una curiosità divertente: il mio babbo proviene esattamente da Tricase, mentre quello di Antonio Rizzello da Alessano, due paesini vicini a Lecce distanti pochissimi chilometri l’uno dall’altro. Entrambi si sono ritrovati a Rapperswil”.
Se i colleghi in Ticino ti volessero intervistare in diretta televisiva, come sei messo con l’italiano?
“Capisco tutto, ma non lo parlo benissimo. Faccio più fatica ad esprimermi rispetto al tedesco. Diciamo che forse sarebbe meglio se loro mi facessero le domande in italiano, ma poi risponderei in tedesco (Diego ride, ndr)”.


