
14 gennaio 1992, uno dei giorni più tristi nella storia del nostro amato hockey. Impegnato in trasferta a Courmayeur in un match di Serie B con il suo Gardena, l’appena 19enne Miran Schrott perde la vita.
Il difensore, al 23’ nei pressi del suo slot, riceve una bastonata al ventre da Jimmy Boni, il capitano del CourmAosta. Il giovane si accascia al suolo, ma i primi soccorsi e il trasporto all’ospedale risultano purtroppo vani. Un caso che scosse tutti all’epoca e fece parecchio discutere, andando anche nel penale. Ci furono diverse versioni e ipotesi in merito ai motivi che portarono al decesso di Schrott, spentosi a causa di un arresto cardiaco. Boni fu condannato due anni più tardi per omicidio colposo a tre mesi di reclusione, commutati poi in una multa di poco superiore ai due milioni di lire.
Adolf Insam, figura emblematica dell’hockey italiano, era l’allenatore di Miran in quella tragica serata invernale in Valle d’Aosta. Il classe 1951 ha trascorso la sua intera carriera da giocatore nel Gardena dal 1968 sino al 1986, conquistando quattro titoli prima d’intraprendere una carriera da coach che lo ha portato sino sulla panchina della Nazionale italiana. Con lui abbiamo ripercorso questa dolorosa tappa della sua vita hockeistica e altro ancora.
Adolf, ti ringraziamo per la disponibilità. Anche se sono trascorsi ormai 33 anni dalla tragedia, non deve essere facile parlarne. Che ragazzo e che giocatore era Schrott?
“Miran era una forza della natura, fisicamente e atleticamente era molto robusto. Io lo allenavo contemporaneamente sia nel Gardena in Serie B che nelle Nazionali giovanili. La settimana prima della disgrazia avevamo disputato i Mondiali Under 20 del Gruppo C a Marino, una cittadina in provincia di Roma. Non so nemmeno dirti se la pista dove si svolse quella rassegna iridata esista ancora (il palaghiaccio di Marino ha chiuso i battenti nel 2011 e ormai è in stato di completo abbandono, una grande parte del tetto è crollata, la struttura è stata acquistata da una nota catena di supermercati che vorrebbe trasformarla in un centro commerciale, ndr). Miran fu scelto come miglior difensore del torneo. Lui era una persona molto entusiasta, piena di energia. Per la sua età era veramente forte, avrebbe fatto carriera, era uno degli elementi più promettenti. Quando morì era giovanissimo, addirittura giocava ancora con la griglia”.
Cosa ti ricordi di quel tragico momento?
“Sono passati tanti anni, ma mi ricordo ancora tutto. Era una normale azione da gioco, non sembrava nulla di che, non c’eravamo nemmeno accorti del fatto a velocità normale. Non si capiva cosa fosse capitato. Una volta visto che Miran era al suolo siamo tutti entrati sul ghiaccio e abbiamo visto che la situazione era brutta. Nessuno però s’immaginava in quel momento che fosse così grave, anche se Miran non reagiva. Aveva ricevuto una bastonata, niente di che, un colpo che si vede spessissimo durante le partite. Ogni tanto accadono queste tragedie e non si sa il motivo, non lo si capisce”.

La partita continuò, a quell’epoca sensibilità e percezione erano diverse rispetto a oggi. D’altronde, per esempio, anche la morte del mitico Ayrton Senna nel 1994 a Imola o quella di Fabio Casartelli al Tour de France del 1995 non portarono a un’interruzione della competizione…
“Eh, non si era capita bene la gravità. L’episodio accadde davanti alla nostra porta, il medico andò subito sul ghiaccio, dopo neanche 10 secondi era da Miran. Non sapevamo nemmeno bene come comportarci e cosa fare noi. Non c’erano, ad esempio, defibrillatori. Ultimamente, nel calcio, qualche atleta grazie a questo strumento è stato salvato. Non so però se sarebbe servito nel caso di Miran. Non eravamo a conoscenza delle condizioni del ragazzo, si continuò a giocare”.
Dopo la tragedia non hai mai pensato nemmeno per un istante di lasciare il mondo dell’hockey?
“No. Ci fermammo per una giornata di campionato. La vita deve continuare, non puoi fare altro. Ci dicemmo che avremmo dovuto giocare e vincere per Miran. Difatti riuscimmo a vincere il campionato e a tornare nella massima divisione. Ci fu una bella reazione da parte dell’intero gruppo”.
Immagino che fu comunque molto difficile gestire le settimane e i mesi susseguenti alla morte di Miran. A quei tempi poi non esistevano gli aiuti psicologici come oggi. Come riuscisti a motivare e a ricaricare la squadra?
“Ne parlammo approfonditamente una volta, alla ripresa degli allenamenti. Certo, non era facile rimettersi in carreggiata dopo un simile choc. Oltretutto, io lì ero ancora agli inizi in veste di allenatore. Non erano proprio i miei primi anni da coach, ma non avevo nemmeno ancora molta esperienza. Io smisi di giocare dopo le Olimpiadi di Sarajevo nel 1984. Iniziai ad allenare le giovanili a Gardena e a dare una mano alle selezioni giovanili della Nazionale. Poi avevo sì allenato l’Appiano, che portai dalla prima divisione alla lega cadetta, ma a quei tempi lavoravo in banca. Di giorno mi occupavo quindi di finanze e solo alla sera allenavo. Solamente nel 1997 decisi di puntare tutto sull’hockey e quindi smisi di lavorare in banca per occuparmi a tempo pieno del mestiere di coach. Insomma, non fu facile per il sottoscritto gestire la situazione”.

Una curiosità: tu giocasti con Sepp, il papà di Miran (venuto a mancare nel novembre del 2021, ndr)?
“Praticamente poco o niente, forse disputammo qualche allenamento insieme o qualche scorcio di match. Sepp stava concludendo la sua carriera quando io la iniziavo, alla fine degli anni ’60. Ovviamente però lo conoscevo bene”.
Credo di conoscere la risposta, ma la domanda te la faccio lo stesso. Hai risentimenti nei confronti di Jimmy Boni, l’autore della bastonata a Miran?
“Assolutamente no. Non ho più rivisto Jimmy, ma pensa a cosa abbia passato anche lui. Sappiamo bene quanti colpi del genere si danno durante una partita di hockey. Pure per lui è stata sicuramente una cosa durissima da affrontare, pur se ovviamente per la famiglia di Miran lo è stata ancora di più. Purtroppo a volte capitano certe cose. L’ultimo esempio che mi viene alla mente è quello accaduto in Gran Bretagna nel 2023, con Adam Johnson che è morto dissanguato dopo che il pattino di un avversario gli ha tagliato la gola. Chissà come si sente l’avversario implicato nella tragedia”.
Sono trascorsi ormai 33 anni dalla tragedia. La figura di Miran è ancora radicata in Val Gardena, oppure inevitabilmente il tempo cancella un po’ i ricordi?
“Io onestamente non te lo so dire. Ormai ho lasciato Gardena oltre 25 anni or sono, quando appunto ho scelto di abbandonare il percorso bancario. Adesso abito ad Appiano, nei pressi di Bolzano, e non ho più molti contatti in valle, non so come sia la situazione”.
E personalmente pensi ancora spesso a Miran?
“Come ho detto in precedenza, la vita continua, sono trascorsi tanti anni dalla sua scomparsa. Ovviamente non l’ho dimenticato e a volte mi torna alla mente, ma più spesso ancora penso a Bryan Lefley”.

Mi hai anticipato, saremmo arrivati a parlare di lui. Continua pure…
“Ho lavorato in qualità di suo assistente della Nazionale italiana dal 1993 sino al 1997, quando purtroppo a fine ottobre morì tragicamente. Se la memoria non m’inganna – anzi ne sono sicuro – ero però già stato al suo fianco ai Mondiali del 1992 a Praga e Bratislava, c’era anche Dale McCourt come assistente. Da Bryan ho imparato tantissimo, era sì il mio capo, ma avevamo un rapporto di amicizia. Il legame con la sua intera famiglia era stretto e poi ci legava anche Gates Orlando, che fu un suo giocatore pure a Berna. Ci vedevamo parecchio, anche in estate c’erano diversi lavori da fare per la Nazionale. Il fatale incidente automobilistico avvenne proprio quando stava venendo a Selva a pranzo. Avremmo dovuto pianificare le prossime attività e discutere delle convocazioni per gli impegni che la Nazionale avrebbe avuto in novembre. La sera prima avevamo ancora guardato assieme una partita a Bolzano. Ricorderò per sempre quella telefonata arrivatami attorno alle 6 o 7 del mattino, con il presidente della nostra Federazione che mi diede la triste notizia”.
Non solo Bryan Lefley. Tra il 2004 e il 2007, a Milano, il tuo assistente era un giovane Alessandro Benin, noto alle nostre latitudini per essere ormai da una dozzina d’anni nello staff tecnico dell’Ambrì…
“Ho incontrato Alessandro lo scorso inverno a Bolzano, assisteva a una partita. È stato un vero piacere rivederlo. Abbiamo discusso un po’ dei vecchi tempi di Milano. Io sono stato per ben 10 anni lì e poi più tardi vi ero tornato per fare altre due stagioni. Alessandro era ancora verso gli inizi della sua attività. Ora so appunto che è da tanto tempo l’assistente del direttore sportivo dell’Ambrì Piotta. Erano i bei tempi, quelli con lui. Ora, vedendo la situazione dell’hockey in quel di Milano, mi piange il cuore. Il palazzetto dell’Agorà ormai è chiuso, allo sbando completo, e ci stanno abusivamente i poveri. Le Olimpiadi? Non rimarrà nulla. L’impianto nuovo che stanno costruendo per l’hockey maschile resterà come arena da concerti, mentre quello dove giocheranno principalmente le donne è solamente un provvisorio che verrà montato e poi smontato al termine della manifestazione”.

Parliamo infine un po’ di te al presente. Sino al 2023 eri direttore sportivo del Renon, ora a 73 anni ti godi la pensione?
“Ho svolto questa attività per 8 anni, ho gestito sia la sezione giovanile che la prima squadra. Mio figlio Marco gioca tuttora a Renon. Adesso mi limito a qualche consulenza e do dei consigli ad alcuni club, l’età avanza, tra poco compirò i 74. Per esempio sono in ottimi rapporti con il Bolzano, un altro club dove militò mio figlio. Faccio un po’ di scouting, ho contatti con qualche agente che propone dei giocatori. Riassumendo, do dei consigli sugli acquisti, il mercato è sempre difficile. Già ai tempi di Milano in parte aiutavo in queste mansioni”.
Una cosa è quindi certa: l’hockey non lo abbandonerai mai…
“È così, certamente. Vado ancora a vedere le partite, in particolar modo appunto quelle di mio figlio e a Bolzano. Qui, per fortuna, c’è hockey in abbondanza”.
Noi ringraziamo di cuore Adolf Insam per aver aperto una dolorosa pagina dei suoi ricordi, che ci ha permesso di ricordare Miran Schrott e di far conoscere la sua figura e la sua storia ai nostri lettori più giovani. Miran, il cui numero 3 fu ritirato dal Gardena e alla cui memoria per qualche anno si organizzò un torneo giovanile, oltre a giocare a hockey aiutava il papà Sepp nella falegnameria di famiglia. Una famiglia composta anche da mamma Sabine e dalla sorella Tanja.
Un grande grazie inoltre al collega Stefano Zanotti, compagno di scuola di Miran, per la gentile concessione delle fotografie.


