Social Media HSHS

Interviste

Lindemann: “Ai miei tempi la maglia contava di più, ma anche oggi amo tanto il nostro hockey”

Il leggendario giocatore si racconta: “Ad Arosa avevamo una squadra forte e un gruppo affiatato. Uno per tutti e tutti per uno, combattevamo uniti. I due anni ad Ambrì? Fantastici, ma gli allenamenti erano molto duri”

Il termine “leggenda vivente” viene spesso usato a sproposito o in maniera esagerata. Riferito a Guido Lindemann calza però a pennello. Il grigionese tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90 è stato una delle figure iconiche del nostro hockey e una vera macchina da gol.

Il suo nome è indissolubilmente legato al suo Arosa, con cui ha conquistato due titoli nel 1980 e nel 1982, ma evidentemente anche le sue due stagioni nelle file dell’Ambrì Piotta sono rimaste nella mente dei meno giovani. In carriera nella massima lega ha segnato oltre 200 reti e fornito più di 300 assist, questo in un’epoca in cui si giocava molto meno rispetto a oggi e in cui le statistiche non erano ancora complete e accurate.

Guido, hai recentemente tagliato il traguardo dei 70 anni, come stai?
“Sto bene, non mi posso lamentare, ho qualche piccolo acciacco dovuto all’età, ma nel complesso godo di ottima salute e sono in forma”.

Vai ancora sul ghiaccio ogni tanto?
“Attualmente purtroppo no, anche perché sei anni fa sono caduto da un tetto mentre spalavo la neve e ho riportato diverse fratture. Ultimamente, inoltre, ho subito un’operazione a un piede a causa di problemi di artrosi. Spero però di riprendermi in fretta e di poter infine tornare a pattinare. Questa è la mia intenzione, anche perché tra Natale e Capodanno tradizionalmente l’intera famiglia si riunisce e andare a pattinare tutti insieme è parte integrante delle nostre festività”.

Sei ancora impegnatissimo con la gestione del vostro hotel di famiglia e con quella del mitico “Overtime bar”. È anche un modo per rimanere giovane?
“Sì, è proprio così. È un grande impegno e io sono ancora molto attivo. Tutto questo mi permette di tenermi occupato, sia con l’albergo che con il bar. L’anno prossimo mio figlio Sven, che attualmente allena nelle giovanili dello Zugo, dovrebbe rientrare qui ad Arosa e immergersi nell’attività di famiglia. Se davvero così fosse, poi ecco che io e mia moglie potremmo togliere una marcia ed essere un pochettino più tranquilli”.

(HC Arosa)

Una volta terminata la tua carriera agonistica, professionalmente non sei mai stato attivo nel campo hockeistico. Non ti ha mai attratto questa possibilità, come ad esempio diventare allenatore?
“No, per nulla. Ho allenato un pochettino nella categoria “piccolo” e pure i ragazzi un po’ più grandicelli, ma poca roba. Per me l’hockey è sempre e solo stato giocare, giocare, giocare. Quello sì che mi piaceva. Allenare, dirigere o svolgere altri ruoli non mi ha mai interessato particolarmente. Poi ho sempre lavorato e conciliare un’attività hockeistica con quella lavorativa sarebbe stato troppo duro”.

Hai un po’ di malinconia dell’hockey dei tuoi tempi, quello con meno soldi, meno stranieri e un maggior attaccamento alla maglia?
“Una premessa: continuo ad amare tantissimo questo sport, seguo sempre le partite e vado anche a rivedermi tutti i riflessi filmati. È però ovvio e lampante: ai tempi c’era più fedeltà, era tutto più locale, la maglia contava di più. Oggi, se riceve un’offerta più remunerativa, il giocatore non si fa scrupoli ad accettarla. Questo, a mio avviso, non è un bene”.

Descrivici brevemente gli anni d’oro del tuo Arosa…
“Avevamo una squadra forte, piena di ottimi elementi e soprattutto eravamo un gruppo solido e affiatato. Uno per tutti e tutti per uno, combattevamo uniti. Anche dopo le partite eravamo sempre in giro assieme. Magari non sempre in 15, ma sparsi a gruppetti di 5 o 6 giocatori e alla fine ci si ritrovava comunque nello stesso posto. Non uscivamo per ubriacarci, ovviamente si bevevano una, due o tre birre, ma era esclusivamente una questione di camerateria il fatto di essere in giro assieme. Oggi ormai non è più così. I giocatori vanno ad allenarsi e poi, nella maggior parte dei casi, si torna subito a casa, ognuno per sé, e si fanno altre attività”.

A quei tempi ricevesti tante offerte da altri club più ricchi, quelli delle grandi città, ma tu le rifiutasti sempre…
“Un paio di squadre tentarono d’ingaggiarmi e intavolarono qualche discussione. Io a chi mi contattava rispondevo sempre che sarei andato volentieri a mangiare con loro, ma che avrei continuato in ogni caso a giocare ad Arosa. Sono sempre stato chiaro. Qui in inverno c’era il sole, la neve e la montagna, e avevamo successo. Chiaro, in qualche città, giù in pianura, avrei potuto magari guadagnare centomila franchi in più, ma a quei tempi per noi giocatori questo non era importante”.

Sei stato tra il 1982 e il 2012 l’ultimo topscorer del campionato dotato di passaporto elvetico, poi è arrivato Brunner che ti ha spodestato. Come hai vissuto il cambio di scettro?
“Già prima di Damien c’era stato qualche attaccante che c’era andato vicino, ma alla fine qualche straniero terminava davanti. Damien, nel suo periodo a Zugo, ha veramente giocato molto bene. È un buon amico di famiglia, sono contento che ci sia riuscito e se lo è assolutamente guadagnato. Lo stesso vale per Pius Suter nel 2019, ad esempio, anche se forse a livello mediatico si diede meno risalto rispetto a quanto fatto da Brunner, probabilmente perché erano trascorsi molti meno anni. I record sono fatti per essere battuti, prima o poi cadono: è la legge dello sport e del tempo che scorre”.

Dopo la retrocessione volontaria nel 1986 dell’Arosa giocasti un anno in Prima Lega, prima di poi trasferirti ad Ambrì all’età di 32 anni. Nel 2025 un simile percorso è praticamente impensabile, avrebbe dell’incredibile…
“(Guido ride, ndr). Esatto, oggi è quasi utopia. Io avevo una grande volontà. Ero reduce da una buona stagione in Prima Lega e, oltretutto, avevo patito un infortunio a un legamento del ginocchio. Dopo la stagione in Prima Lega con l’Arosa desideravo assolutamente tornare a giocare nella massima divisione, la voglia era troppo forte. Ricevetti diverse offerte, come per esempio quelle del Berna o del Bienne, ma optai per Ambrì. Il motivo? Lo trovavo un bel club, una società di paese, come l’Arosa, inoltre la squadra era attrezzata e mi piaceva l’infrastruttura”.

Che ricordi hai del tuo periodo in biancoblù?
“Molto positivi, sono stati due anni fantastici. Lavorai molto duramente al fine di riadattarmi al ritmo. Sarei anche potuto rimanere più a lungo, anche perché le mie prestazioni erano state buone e segnai parecchie reti (12 la prima stagione, 15 la seconda, ndr). Gli allenamenti erano però veramente duri, bisognava investire molto tempo e decisi quindi di tornare ad Arosa”.

Dove però non resistesti a lungo…
“(Altra risata di Guido, ndr). È vero, giocai nuovamente un anno in Prima Lega e poi la storia si ripeté. Volevo di nuovo giocare a livelli più alti, quindi andai a Coira in LNB e centrammo la promozione. Così, nel 1991, a 36 anni, mi ritrovai di nuovo a militare in LNA. Fu davvero speciale. Quella fu la mia ultima stagione in Lega Nazionale”.

Hai ancora molti contatti con i compagni di Ambrì?
“Non tanti. È stato però molto piacevole ritrovarne parecchi in occasione dell’inaugurazione della Gottardo Arena. Incontrai, ad esempio, Brenno Celio e Dale McCourt. Potemmo godere di una visita all’interno della struttura, visitare gli spogliatoi e ricordo con piacere anche la chiacchierata con Luca Cereda”.

Voi Lindemann siete una vera dinastia. Tuo fratello Markus faceva pure parte del grande Arosa. I tuoi figli Sven e Kim sono pure stati per decenni professionisti ai massimi livelli. E ora è il turno dei tuoi nipoti Colin e Kevin che stanno cercando di sfondare…
“Eh sì. Adesso tocca a loro. Kevin ha 22 anni, Colin ne ha 20. Sono i figli di Sven. I due hanno sempre avuto gioia nel praticare l’hockey. Nessuno ha mai detto loro che dovevano avvicinarsi a questa disciplina o addirittura provare a fare carriera. In passato hanno entrambi fatto delle esperienze in Svezia. Si applicano molto. Kevin giocherà nuovamente nel Turgovia, mentre Colin, dopo un prestito pure nel Turgovia al fine di avere più spazio, tornerà a Zugo. Credo che quest’anno riuscirà a ritagliarsi un posto nelle fila dell’EVZ”.

Certo che però, quando si sente il nome “Lindemann”, è innegabile che si pensa praticamente solo ed esclusivamente a te e non agli altri membri della famiglia…
“Sì, puoi formularla così. Ma è anche perché i miei figli hanno ‘aiutato’ con le loro carriere a non far dimenticare il nome. A volte sono sorpreso: quando sono in giro, e non solo ad Arosa, c’è ancora parecchia gente che mi riconosce e mi saluta. Eppure ormai sono passati praticamente 40 anni dai miei trascorsi hockeistici. Mi fa estremamente piacere questa cosa”.

Restiamo sul presente. L’Arosa è tornato nella lega cadetta, che ne pensi?
“La cosa importante è che il club sia riuscito a raccogliere i soldi per disputare il campionato di questa categoria. Certo, i giocatori guadagneranno comunque poco, ma il fatto di giocare in Swiss League potrebbe rappresentare una bella rampa di lancio per tanti ventenni che magari in altre società più forti non trovano spazio. Anche la MyHockey League era una buona vetrina, ma evidentemente era un pochettino sotto. Vedremo cosa ci riserverà il futuro, magari un giorno non troppo lontano le due leghe verranno fusionate”.

E sportivamente come la vedi?
“Non sarà una stagione facile, ma è sempre difficile fare previsioni. Anche l’anno scorso c’erano molti dubbi, si diceva che l’Arosa avrebbe fatto molta fatica visto che praticamente aveva 18 nuovi giocatori. Invece il campionato si è rivelato molto buono”.

Presumo che tu sia un fedele spettatore…
“Presumi bene, praticamente assisto a tutte le partite casalinghe”.

Guido, noi ti ringraziamo di cuore per il tuo tempo, ma non prima di averti fatto l’ultima domanda. A 70 anni hai ancora qualche sogno nel cassetto, qualcosa che vuoi assolutamente ancora fare o vivere nella tua esistenza?
“Di base no. Sono semplicemente contento di poter vedere giocare i miei nipoti e osservare come s’impegnano e come migliorano. Questo è, per così dire, il mio sogno e lo sto vivendo”.

Click to comment

Altri articoli in Interviste