CALGARY – Non sempre per fare breccia nel cuore dei tifosi bisogna per forza essere dei grandissimi protagonisti. Un esempio su tutti? Peter Martin. L’ex portiere di Ambrì Piota e Lugano in Ticino non è mai stato un vero titolare (se non nei playoff del 1998 con i leventinesi) o un autentico fuoriclasse, ma con il suo modo di fare, la sua spettacolarità e la vicinanza alle persone del posto si è ritagliato un bel posto nei ricordi di tutti i tifosi ticinesi.
I suoi capelli a volte tinti di giallo o a macchie tigrate erano culto. Tre stagioni ad Ambrì, dal 1997 al 2000, in seguito un campionato a Lugano e infine altri tre anni in qualità di allenatore dei portieri bianconeri. Lo raggiungiamo telefonicamente nel suo Canada. Da lui è mattino presto. Peter interrompe la sua biciclettata e scende dalla sella per parlare della sua vita attuale e dei vecchi tempi.
Peter come stai, cosa fai ora nella vita, dove abiti?
“Sto bene grazie, vivo sempre a Calgary, ma non più nella casa dove eri venuto a trovarmi anni fa. Da quattro anni abbiamo traslocato in una dimora un po’ più piccola. Le figlie ormai sono grandi, lavorano e vivono con i rispettivi compagni. Quindi siamo rimasti solamente mia moglie ed io. La vita è un po’ più calma dunque. Io sono comunque sempre in giro. Quattro giorni a settimana mi reco al lavoro in bicicletta, faccio 50-60 km al giorno tra andata e ritorno. Lavoro sempre in un negozio dedicato esclusivamente ai portieri, vendiamo l’equipaggiamento. Sono il proprietario, adesso siamo diventanti abbastanza grandi, abbiamo avuto una bella espansione, siamo ormai uno dei negozi più grandi in Canada con questa tipologia dedicata appunto esclusivamente solo agli estremi difensori. Quindi a febbraio cambieremo location, avremo una superficie tripla a 5 minuti dal downtown di Calgary”.
Quando si pensa a Calgary è inevitabile pensare ai Flames, vai alle partite?
“Sì ogni tanto presenzio, specialmente quando arrivano gli Edmonton Oilers per la famosa battaglia dell’Alberta. Ogni amante dell’hockey deve vedere almeno una volta nella vita una partita di Connor McDavid dal vivo, è incredibile”.
Conosci ancora qualcuno attivo nella franchigia locale?
“Ormai no, sono troppo vecchio, la mia generazione è finita. L’hockey è sempre più uno sport per giovani in generale, che ricevono sempre prima grandi responsabilità. L’ultimo giocatore attivo in NHL che conoscevo personalmente era Joe Thornton. Ho ancora un amico che è uno dei più grandi agenti di giocatori in NHL e poi conosco molto bene Mike Vernon, il leggendario portiere che è stato inserito nella Hall of Fame un paio di settimane fa. Lui vive qui, viene almeno una volta a settimana in negozio, si ferma a discutere e a volte ci beviamo una birretta”.
E i pattini, ogni tanto li indossi ancora?
“No ormai ho smesso da tempo, pensa che l’ultima volta che ho giocato a hockey fu per la partita di addio di Sandro Bertaggia, dunque una vita fa”.
Sandro Bertaggia… Eccoci in Svizzera, hai ancora contatti?
“Sì certo, anche se ora è da cinque anni che non vengo più. Ma in ottobre arriverò. Ho già segnato in rosso il derby del 3 novembre. Seguo sempre il campionato elvetico e i derby li guardo anche da Calgary. I miei amici mi inviano spesso delle foto dalla nuova pista di Ambrì quando indossano la mia vecchia maglia, non vedo l’ora quindi di vedere finalmente la Gottardo Arena. Vedrò poi tanti vecchi amici, come ad esempio Marco Baron, Edgar Salis, Andy Näser, Sandro Bertaggia, Leo Leoni, i miei ex vicini di casa di Pregassona e tanti altri ancora. È sempre bello potere uscire a mangiare e discutere”.
Cosa ti manca di più del Ticino? Il carnevale, la luganighetta?
“La vita in generale. La vita luganese per così dire è stato il piacere più grande che ho avuto. Ma non solo Lugano, in generale tutto il cantone, anche quando ho abitato a Biasca e ad Osogna, è sempre stato bellissimo. La vita in Ticino è bella, idem la meteo. È un po’ il centro del mondo, sei vicino a posti come Firenze, Milano, Parigi, Venezia e in fondo anche Londra. Ho visto così tante cose e luoghi. Ho trascorso i migliori anni della mia vita da voi, cosa si voleva di più? C’era tutto, se fosse possibile tornerei domani, lo giuro”.
Arrivasti in Svizzera nel lontano 1986, come andarono le cose?
“Mia mamma morì nel 1985. Smisi per un attimo di giocare per prendermi cura della mia sorellina più piccola, volevo essere a casa con lei. Ricominciai dunque a giocare in una squadra universitaria del posto, con il team ci recammo in Svizzera per due settimane a disputare delle partite amichevoli contro squadre di Lega Nazionale. C’erano tanti osservatori e sapevano che avevo il passaporto rossocrociato. Ricevetti un’offerta dall’Ambrì lo stesso anno di Marco Baron, ma rifiutai, volevo tornare in Canada a finire la stagione. Qualche mese dopo l’offerta non c’era più, i biancoblù avevano già ingaggiato Brian Daccord e così accettai quella del Thun. Mi dissero che era una buona squadra a cui mancava solo un portiere. Quella fu la mia partenza, poi andai a Kloten, ma lì c’era Reto Pavoni, il portiere della Nazionale, quindi non giocavo praticamente mai. Non volevo fare per sempre la riserva e allora iniziai il mio giro della Svizzera. Desideravo vivere nuove esperienze, vedere tutti gli angoli, dalla Romandia sino al Ticino. Per questo non ho mai firmato un contratto superiore ai due anni durante la mia carriera, io volevo girare”.
Chi sono stati i tuoi compagni “ticinesi” più pazzi?
“Ce n’erano molti (grassa risata di Peter ndr). Iniziamo da Ambrì. Forse pazzi non è la parola esatta, ma citerei Mattia Baldi, Franz Steffen e Alain Demuth. In squadra avevamo gente del calibro di Oleg Petrov o Paul DiPietro, ma spesso il nostro coach Larry Huras faceva iniziare le partite al blocco sopracitato. Il primo shift era loro, davano una specie di direzione alla squadra. Franz faceva l’ingaggio e poi i tre partivano a 100 all’ora a fare check alle balaustre e dietro la porta come dei forsennati. Bum bum bum, wow. Io li guardavo e mi dicevo che erano un esempio per tutti… Erano fuori, dei matti! Per quel che concerne la pazzia nel verso senso della parola dire Chris Lindberg a Lugano. Ogni giorno nello spogliatoio con lui era geniale, non sapevi mai cosa sarebbe accaduto, cosa sarebbe uscito dalla sua bocca, era uno che urlava, rideva. Era un giocatore molto forte, ma era diverso, fuori dagli schemi. In uno spogliatoio hai bisogno anche di gente così e non solo di persone serie come ad esempio un Peter Andersson. Anche i vari, Näser, Fair, Tschumi erano un po’ come Lindberg. I canadesi ai vecchi tempi avevano un po’ la fama di essere diciamo più aperti, scalmanati e un po’ meno seri, ma quando erano sul ghiaccio andavano sempre al 100%. Ora mi sa che con le nuove generazioni questo lato del nostro carattere è un po’ andato a scemare”.
Ai tempi attuali con le tue dimensioni (172 cm) saresti un’eccezione, sono sempre meno i portieri di bassa statura…
“Attenzione, i tempi stanno cambiando di nuovo. Un po’ di tempo fa alcune persone “intelligenti” pensavano che se uno fosse più grande avrebbe coperto maggiormente la porta. Ai tempi si vinceva con gente come Marco Bührer. Oppure guarda il mio amico Mike Vernon, è alto poco più di 170 cm e ha vinto due Stanley Cup. Non dico che si tornerà sino a lì, ma si avverte un po’ una nuova tendenza e me lo confermano anche i tanti allenatori di portieri che conosco. I portieri devono essere veloci e agili, se si guardai ad alcuni elementi che giocano ora in NHL o anche solo draftati si nota che non sono tutti alti più di 190 cm. Ora gli estremi difensori devono pensare maggiormente ed essere capaci a leggere il gioco. Non basta più giocare il butterfly, mettersi per terra e aspettare che ti tirino addosso. Il disco devi andarlo a cercare. Gli attaccanti sono sempre più intelligenti, hanno più skills, entrano in zona, si fanno più passaggi e combinazioni e meno slapshot. Per un portiere è quindi più difficile ora decifrare le intenzioni degli avversari. Si deve avere maggior pazienza, stare un po’ più in piedi rispetto a una decina di anni fa. Poi vedrete ora che arriva Connor Bedard. Il suo tiro, già dopo il primo giorno, sarà il migliore dell’intera NHL. È così bravo, è di un altro livello. È come Connor McDavid. Un giocatore così nasce magari ogni 10 o 20 anni. Fa parte di quella piccola lista di campioni, comprendente un Wayne Gretzky, un Mario Lemieux e un Sidney Crosby”.
L’anno prossimo compirai 60 anni, quali sono i tuoi progetti e i sogni per il futuro?
“Per festeggiare il tondo compleanno andrò a giocare a golf con degli amici per cinque giorni. Solo noi boys, senza mogli o compagne. Uno della mia cricca ha appena compiuto i 60 anni e siamo già reduci da questa esperienza. Ci siamo divertiti molto e dunque la ripeteremo per il mio sessantesimo. Altrimenti non ho nessun grande progetto o chissà che grandi sogni. Sono felice, sto bene, mi sento in forma. Ti dirò, sto meglio ora a 60 anni che quando ne avevo 50. Ho tanti amici che soffrono, sono malati, il mio unico vero sogno è dunque di restare in salute. Altri piccoli desideri? Vivere una partita nelle due curve di Ambrì e Lugano, stare con i ragazzi che hanno bandiere e megafoni e bere birra con loro. È incredibile il supporto che danno. A proposito di supporto, vorrei ringraziare davvero entrambi i club ticinesi e la famiglia Mantegazza. Tutti mi hanno sempre trattato benissimo, mi hanno viziato e hanno permesso a me e ai miei cari di stare alla grande, non mi hanno mai fatto mancare nulla”
L’ultimo pensiero (avevamo chiesto a Peter 15 minuti del suo tempo, ma lui è invece rimasto seduto accanto alla sua bicicletta per oltre 40, ndr) va al compianto Jim Koleff…
“Correva l’anno 1992, io giocavo nel Coira, Jimmy era in panchina a Berna con Brian Lefley. Dopo la partita venne da me e mi disse “Peter, ti prometto che un giorno giocherai per me”. Io gli dissi che non doveva fare promesse, di stare tranquillo. Otto anni più tardi mi chiamò e mi fece firmare a Lugano, mantenne dunque la sua promessa”.