Due giocate, tanti rischi
Del fallimento dell’idea Chris McSorley e di tutto quanto avrebbe dovuto caratterizzare la sua venuta in quel di Lugano ne avevamo già parlato in autunno, occorre però tornare indietro per capire come sia stato gestito quel momento. Le voci di un malumore generale nello spogliatoio avevano cominciato a circolare già alla fine della scorsa stagione, dopo l’eliminazione della squadra da parte dello Zugo nei quarti di finale e sono cresciute poi verso la fine dell’estate, quando ormai si era capito che con il fumo c’era anche il fuoco.
Da un lato si può anche comprendere come un direttore sportivo e chi intorno ha supportato un’idea e quindi l’ingaggio di una personalità “pesante” come quella dell’ex coach del Ginevra abbia cercato di sistemare la cosa sperando potesse risolversi nel tempo, ma dall’altro sappiamo bene che quando il tarlo del malumore e della non sopportazione si fa largo in un gruppo e in uno spogliatoio, difficilmente si riesce a liberarsene semplicemente con il dialogo e la speranza.
C’era un punto di non ritorno in questa faccenda, ed era probabilmente posto all’inizio della preparazione estiva, quando sarebbe stato ancora possibile risolvere la questione – e anche qui comprendiamo come la cosa avrebbe avuto ripercussioni sul piano dell’immagine, ma perlomeno il dente sarebbe stato tolto prima di causare altri danni – invece di attendere e aggravare la cosa, sapendo che si stava solo ritardando quel momento compromettendo nel contempo una stagione intera.
Forse però tutto questo è servito a qualcosa, a togliere definitivamente l’Hockey Club Lugano da una visione che oggi non starebbe più al passo della realtà, perché improvvisamente ci siamo accorti che senza la giusta motivazione o la capacità di comunicare con i giocatori di oggi (Arno del Curto docet) non è possibile stare nell’hockey (o nello sport in generale) di oggi.
La figura di Luca Gianinazzi rappresenta quindi un opposto totale a quella del canadese e, anche se sarebbe dovuto salire in sella teoricamente al termine del suo mandato, sorprende per come avrebbe comunque rappresentato un netto taglio con un certo tipo di gestione. Quindi sarebbe stato lo stesso un azzardo, ancora di più a lanciarlo al timone così dal nulla su un mare in tempesta, ma dopo qualche boa mancata il giovane coach ha dimostrato di saperci fare, di avere coraggio e maturità, oltre che una grande conoscenza della materia. In poche parole, il potenziale è elevato.
Giana e l’ottobre rosso
Come già detto, della “non gestione” generale nel periodo McSorley dalla fine della scorsa stagione al suo licenziamento – da parte di ogni figura in causa – si è scritto e detto tutto, e allora occorre ripartire dall’8 ottobre 2022, una data che potrebbe aver finalmente aperto qualcosa di nuovo e inaspettato per l’Hockey Club Lugano e i suoi tifosi. In quel giorno, Luca Gianinazzi passa dalla U20 bianconera alla prima squadra, così su due piedi senza pensarci troppo, com’è comprensibile che sia per una persona ambiziosa.
Un azzardo, lo abbiamo chiamato, per chi lo ha scelto e per chi ha approvato, ma anche una mossa di grande coraggio, da parte della società e da parte dello stesso giovane coach, salito al timone di una nave in piena tempesta marittima dopo aver imparato a navigare su un placido lago. Non immaginiamo le conseguenze per tutto e tutti se le cose fossero pure peggiorate con “Giana” in panchina, per questo vanno riconosciute le giuste dosi di coraggio in chi ha visto nell’allora 29enne le qualità per risollevare le sorti del Lugano e scrivere qualcosa di nuovo.
E che le cose potessero anche peggiorare lo si è capito quando il Lugano si è trovato sul fondo della classifica, quando ogni cosa sembrava non voler funzionare, ma Gianinazzi non si è mai scomposto, dopo aver anche imparato in fretta anche cosa significa a livello di immagine fare il coach di una squadra di National League in Ticino, dove l’esposizione e la pressione mediatica sono nettamente superiori che in qualunque altro posto della Svizzera, in qualunque sport.
Gianinazzi ha continuato con la sua comunicazione precisa, senza giri di parole e molto franca, prendendosi sempre responsabilità e mostrando grande personalità, la qualità che probabilmente lo ha aiutato ad uscire da certi momenti, senza mai rinnegare le sue idee verso la squadra e il gioco da proporre. Sbagliando, certo, ma in quelle condizioni da “rosso fuoco” chi non lo avrebbe fatto? Tutto questo, con una squadra disastrata sul piano fisico in autunno (ricordiamo ancora le parole dallo spogliatoio sulla tenuta fisica) è stato portato fino alla fine dal coach bianconero, fino allo sprint finale che ha scoperto una squadra compatta e uscita forte a livello mentale dalle difficoltà, l’opposto di quella squadra che in autunno crollava al primo tremolio.
Certo, non saremmo probabilmente qui a dire le stesse cose se quella sconfitta di Rapperswil non avesse visto una reazione vera e decisa, o se quella rimonta del Bienne all’ultima giornata fosse andata a termine prima dei sessanta minuti, ma la dietrologia non serve più, anche se tutti questi fatti e le cose negative non devono essere dimenticate nel sunto di un’annata, perché il Lugano è stato a lungo vicino anche a un esito opposto della sua stagione.
Le pesanti parole straniere
Quanto siano state trascinate le tossine di una preparazione e un inizio di stagione deleteri è difficile dirlo, soprattutto sul piano sportivo, dove una squadra ha dovuto imparare in fretta un altro stile, capirlo e sostenerlo, magari correggendo assieme al coach quelle cose che non davano garanzia di successo. Fatto sta che al Lugano è mancato tremendamente l’apporto della maggior parte degli stranieri – con l’affare Kaski a pesare moltissimo sull’economia della squadra – con alla testa quel Mark Arcobello che a parte qualche sprazzo di buon hockey ha attraversato la sua peggiore stagione da quando è in Svizzera.
“Inchiodare” l’americano per una stagione negativa dopo quella ottima precedente può risultare forse eccessivo se si riporta troppo peso degli insuccessi sulle sue spalle, semmai grava su di lui non tanto la campagna pubblica contro Chris McSorley (da capitano, nel modo giusto o sbagliato che sia stato, ci ha messo la faccia pubblicamente), ma piuttosto il fatto di non essere mai riuscito a dare una svolta sul piano della personalità alla sua stagione, risultando impalpabile caratterialmente anche dopo il cambio di allenatore e il ricompattamento dello spogliatoio.
Arcobello era stato nominato capitano da McSorley, e Gianinazzi non ha voluto entrare a gamba tesa togliendogli i gradi, ma alla luce anche di quanto dimostrato da alcuni giocatori nel postseason, c’è da pensare che il coach ticinese rifletterà bene su quale maglia riporre la C per la prossima stagione. Una riflessione va fatta anche su Daniel Carr e la gestione della sua situazione partendo dalla diatriba medica pubblica al suo rientro, e questo va dunque annoverato come il terzo grosso azzardo giocato da Domenichelli, attendendo a lungo un giocatore che non poteva dare quello che dava in passato uscendo da una lunga convalescenza.
Con Bennett spesso inaspettatamente tra i migliori della squadra, il Lugano ha forse capito che nel gioco futuro della squadra occorre anche la “garra” e non solo la classe, e il pacchetto di stranieri andrà composto in maniera oculata, partendo da quella base di classe, forza e carisma che risponde al nome di Markus Granlund e da un Daniel Carr – se rimarrà – in piena forma.
Svizzeri a sprazzi
Il discorso sui giocatori svizzeri rispecchia un po’ quello sugli stranieri, e se le delusioni principali vengono dalla scarsa vena realizzativa di elementi come Fazzini e Thürkauf (ripresosi alla grande nei playoff e con al C sul petto), è stato altresì evidente come alcuni giocatori ricoprissero posizioni non adatte alle loro caratteristiche.
La coperta offensiva del Lugano è apparsa da subito corta soprattutto sul piano qualitativo e quando i primi infortuni hanno cominciato a lasciare il segno, i limiti di alcuni giocatori come Stoffel, Vedova, ed Herburger (quest’ultimo tanto impegnato e determinato quanto però inconcludente) hanno iniziato a palesarsi. Se questi nomi verranno sostituiti dai vari Lorenzo Canonica (per ora l’unico confermato) e dai vari Cole Cormier e Matthew Verboon, non solo potrebbe esserci una crescita sul piano tecnico, ma si tratterebbe di giocatori su cui costruire sul lungo periodo, affamati e abituati a giocare anche in contesti di pressione e competizione interne più alti rispetto agli spogliatoi delle U20 svizzere o della Swiss League.
In molti si sono stupiti della qualità portata da Marco Müller, ma l’ex Zugo non doveva essere una sorpresa per chi lo conosceva e il ruolo di primo centro lo ha reso una pedina forse meno performante sotto porta ma ben più sostanziale globalmente, un giocatore che può fare metà della linea. Questo tipo di giocatori dovranno essere sempre più obiettivo del Lugano nel futuro, consapevoli della loro rarità e dei costi di ingaggio, ecco perché sarebbe importantissimo poterseli costruire in casa, magari puntando proprio su quei nuovi arrivi tutti da scoprire, da valorizzare e da sviluppare.
Sliding doors
L’invasione di portieri stranieri ha contagiato anche il Lugano, che nelle parole di Hnat Domenichelli con l’ingaggio di Mikko Koskinen ha voluto coprire al massimo una posizione che in passato aveva dato problemi di quantità (e in parte qualità) a causa dei molteplici infortuni. L’ex NHL ha subito preso in mano la situazione, tanto che a inizio stagione Niklas Schlegel ne ha sofferto, e la dimostrazione la si è avuta quando lo zurighese è stato messo in pista con risultati tutt’altro che soddisfacenti.
Poi è arrivato anche per il finlandese un periodo negativo, accentuato da un infortunio al piede che però non ne ha precluso la possibilità di giocare (pessima idea, vien da dire, per molti fattori) ma in quel caso è uscita la capacità dello staff tecnico e di Michael Lawrence in particolare di recuperare fisicamente e soprattutto mentalmente Schlegel, rientrato alla grandissima nel momento di bisogno.
E sul finire della stagione anche Koskinen si è ripreso, giocando alcune partite di postseason di altissimo livello, relegando di nuovo il compagno in panchina. La gestione dei due è risultata ottima nei momenti di difficoltà, ma sul piano del dosaggio di gioco forse le cose andavano programmate meglio.
Per la prossima stagione Domenichelli ha precisato che probabilmente Koskinen dovrà accontentarsi di giocare un po’ di meno (d’altra parte ha dato il meglio sul corto periodo) e con un Fadani in partenza andrà assolutamente trovata una soluzione per dare continuità a Fatton, tenendo conto della situazione ancora da chiarire dei Ticino Rockets. Il giovane portiere romando nei piani della società rappresenta il futuro, e dopo una stagione sfortunata non può permettersi di stare fermo a lungo, ecco perché l’ideale sarebbe un prestito in Swiss League con la possibilità di rivederlo a sprazzi di nuovo in National League.
I lunghi silenzi nella sofferenza
Nel corso della stagione il Lugano si è trovato confrontato con diverse difficoltà, anche e soprattutto dopo il cambio di allenatore, e in alcune circostanze la situazione è sembrata quasi disperata. Le serate nere di Langnau (due), l’ultimo posto in classifica, le tante reti subite, un giovane allenatore comprensibilmente in difficoltà in comando, tutto questo è stato percepito dai tifosi come l’insieme di una società che non sapeva che rotta prendere o che avesse abbandonato a sé stesso l’ambiente bianconero.
Non si mette in dubbio che Gianinazzi non sia mai stato lasciato solo e che ogni giorno sentisse l’appoggio e l’aiuto della società e di Domenichelli, il problema era semmai l’ermeticità verso l’esterno, verso un pubblico che andava disaffezionandosi da una squadra sempre più in difficoltà e difficile – nel senso emotivo – da voler seguire.
In quei momenti sarebbe bastato un semplice messaggio (spontaneo, è un compito anche quello di leggere le situazioni) da parte del club per incoraggiare o compattare i tifosi, così come chiarire quali sarebbero stati gli obiettivi dopo la promozione di Luca Gianinazzi, cosa mai fatta del tutto o perlomeno in maniera poco chiara.
Perché ovviamente gli obiettivi dovevano cambiare, sia per la situazione in cui sedeva il Lugano, quasi impossibilitato a raggiungere i primi sei posti, e sia per l’incertezza logica e naturale che regnava attorno al giovane allenatore e a uno staff tutto nuovo. Nel finale il pubblico si è riavvicinato alla squadra creando un ambiente esaltante che non si vedeva da tempo, ma non si deve pensare che i tifosi del Lugano abbiano tutto a un tratto dimenticato i terribili sei mesi prima dei playoff.
Il Lugano che verrà
Hnat Domenichelli alla sua prima stagione da direttore sportivo del Lugano affermò che gli stranieri e il power play sono le armi principali per poter competere in National League. In questa stagione la squadra bianconera ha sofferto paradossalmente proprio per questi due elementi, con un parco stranieri incompleto, male assemblato e di salute cagionevole, e con un power play a dir poco disastroso.
Ad oggi gli stranieri confermati dal Lugano sono Koskinen, Granlund e probabilmente Carr e Arcobello. Ci sono altre tre posizioni da definire – Arttu Ruotsalainen sembra fatto, di Michael Joly si vocifera e si continua a puntare forte su Sami Niku per la difesa – e queste prima che con i nomi dovranno convincere per la loro utilità nel tipo di gioco che vuole proporre Gianinazzi e per quello che manca alla squadra bianconera.
Per quello che riguarda il power play, molto passerà anche proprio dai nuovi elementi d’importazione (e non solo) oltre che da un lungo lavoro atteso durante l’estate, magari puntando anche di più sull’intesa tra i giocatori che tra le sole qualità tecniche, come già mostrato da altre squadre in Svizzera. Il gioco che vedremo fare ai bianconeri, nelle parole dell’allenatore, non sarà quello che abbiamo visto anche nei momenti migliori di questa stagione, se non per la combattività e la determinazione portate sul ghiaccio.
Gianinazzi ha le sue idee in testa, sicuramente di un hockey moderno e attrattivo, non semplicemente quello fatto di muscoli e sacrificio messo in pista nel postseason, ma capace anche di comandare il gioco ed essere concreto allo stesso tempo, un po’ il contrario di quanto fatto finora, con un attacco incapace di segnare praticamente più di due reti a partita. Sul piano difensivo la squadra ha già una base di alto livello, non ci si può nascondere con certi nomi in rosa e sarà interessante vedere come ne esce da un Riva in partenza e un Peltonen in arrivo, ma in quanto a rendimento in contenimento, il reparto arretrato ha già dato ottima prova negli ultimi mesi, ecco perché questa è una base importantissima su cui costruire, con la leadership di elementi come Mirco Müller e Guerra e il recupero dei veri Andersson e Alatalo.
Molto delle idee del coach è basato sulla competizione interna, ecco perché l’abbassamento dell’età media e l’allungamento della coperta dovranno essere uno dei punti focali della prossima estate, ma Gianinazzi, nonostante venga dall’esperienza nelle giovanili e ha saputo dare fiducia ad alcuni ragazzi, non regala nulla, e se Domenichelli sarà di parola dovrà ascoltare il suo allenatore per ciò che riguarda ogni posizione della squadra.
Obiettivo: accettare la realtà
Con la separazione da Chris McSorley il Lugano si è (almeno crediamo) separato da un’ideologia dei propri obiettivi che questa stagione ha forse messo definitivamente nel cassetto, perlomeno nella loro forma. Il Lugano deve restare una società con l’ambizione di vincere il campionato svizzero, ma vanno cambiate la modalità con cui si vuole raggiungere questo traguardo. Oggi stiamo capendo che non è possibile – o perlomeno ha un altissimo grado di rischio – costruire una squadra per vincere in un lasso di tempo molto corto (parlando dei 3 anni), ma occorre ragionare su dei tempi molto più lunghi, perché molto sta cambiando e il campionato si fa sempre più equilibrato.
Questo non significa che il Lugano non possa sperare di vincere il titolo anche a medio termine, ma è stato dimostrato negli anni delle due finali con Ireland in panchina che senza una pianificazione sul lungo periodo e costruendo una squadra basata su un solo asse di fenomeni senza un ricambio dietro, si rischia di rimanere a bocca asciutta nonostante i grandi investimenti, perdendo poi tantissimo altro tempo per ricostruire.
Oggi una squadra va progettata per mantenersi ai vertici (intesi come le prime 4-6 posizioni di classifica) per tanti anni, cercando continuamente i ricambi, costruendoseli magari in casa o con una rete di scouting molto fitta e professionale, tanto più quando si ha la consapevolezza di essere a livello di budget una società nella media e non più tra le dominatrici. Quando si raggiungerà tutto questo – per niente facile – poi si potrà lavorare e attendere quella stagione in cui tutto gira dalla propria parte e tentare l’assalto alla cima, con la certezza (relativa) che in caso di insuccesso, la base costruita continuerà a mantenere la squadra a un livello che gli permetterà di riprovarci a breve, anche quando arriveranno stagioni più difficili.
È abbastanza chiaro capire a chi ci si riferisce, lo Zugo è l’esempio perfetto di una squadra e una società che si sono ricostruite negli anni (certo, con mezzi finanziari diversi) e i suoi successi non arrivano da due o tre anni fa, ma da molto più indietro, dalla costruzione della nuova pista e la continua ricerca dei pezzi giusti per completare il puzzle, anche quando il budget era inferiore a molte altre società, dal centro di formazione a una gestione sportiva che ha coinvolto tutti i livelli sportivi del club anno dopo anno.
E non solo i campioni svizzeri in carica ne sono un esempio, il Bienne sta vivendo una stagione pazzesca e mai come quest’anno sembrano lanciati, dopo anni e anni a mettere assieme i mattoncini con pazienza e continuità e pure il Rapperswil nel suo “piccolo” – inteso come obiettivi e capacità – funge da sano esempio di lungimiranza.
Questa è la realtà in cui l’Hockey Club Lugano dovrà infilarsi, e se ritiene che Luca Gianinazzi sia la persona giusta per il cambiamento, che venga protetto, appoggiato e soprattutto ascoltato.