Il Serge Pelletier allenatore, direttore sportivo e opinionista alle nostre latitudini ormai lo conosciamo tutti molto bene. Il classe 1965 nei suoi diversi ruoli ha segnato gli ultimi decenni dell’hockey elvetico e ticinese.
Quello che invece è evidentemente meno noto è il Serge ragazzino nella sua Montréal, il bimbo che si divertiva sul ghiaccio del Québec. Siamo quindi andati un po’ alla scoperta della sua “prima vita” per cercare di conoscere più da vicino gli anni della sua beata gioventù.
Serge, prima di riavvolgere il nastro della tua giovinezza, una domanda è d’obbligo. Dopo oltre un trentennio abbondante in Svizzera, ti senti più elvetico o québécois?
“Direi proprio che mi sento più svizzero, anche perché la vita è fatta di evoluzioni e queste in una persona arrivano più tardi. Quando sei giovane sei più spontaneo, meno riflessivo. Quando arrivi a 30-40-50 anni rifletti di più, sei più posato e quindi ecco perché in sostanza sono diventato svizzero e tale mi sento”.
Facciamo un balzo a ritroso, all’inizio della tua vita. Com’è stato nascere e crescere a Montréal?
“È stato qualcosa di bello. Nascere lì ti dà l’accesso a questa grande passione per l’hockey, qualcosa che ti resta dentro per l’intera vita”.
Parlaci un po’ della tua famiglia…
“Mio papà Michel, che purtroppo non è più con noi, aveva diversi commerci di ogni genere. Mia mamma Marie Claire faceva invece l’insegnante, mio fratello Martin, che ha due anni in più di me, è diventato maestro di sport. Anche lui ha praticato l’hockey, giocavamo tantissimo assieme, sia all’interno delle piste artificiali che fuori sul ghiaccio naturale”.
Che bambino eri? Uno che faceva disperare mamma e papà?
“Non tanto, anche se chiaramente preferivo giocare e trascorrere più tempo con gli amici che con i genitori. Ogni giorno in classe, ancora prima di terminare le lezioni, avevamo già organizzato la partita di hockey per il doposcuola. Ero un bimbo parecchio competitivo, abbastanza aperto, parlavo tanto, ero un giocherellone. Mi piaceva fare degli scherzi ai miei amici”.
A scuola andavi volentieri? Ti impegnavi?
“Diciamo che non mi sono mai rifiutato di andarci (Serge ride, ndr). Mi piaceva frequentarla, anche per questo mi sono in seguito diplomato all’università in qualità di maestro di sport. Questo diploma mi ha aperto la strada al management sportivo, all’insegnamento e mi ha forgiato questa attitudine. È stato il trampolino che mi ha aiutato a emergere nel coaching”.
Oltre all’hockey quali erano i tuoi passatempi?
“Sono sempre stato un appassionato di golf. Già da giovane giocavo tantissimo, trascorrevo le mie estati tra gli allenamenti e il golf. Ancora adesso lo pratico, mi piace provare un po’ tutti i campi a destra e a sinistra. Adoro ritrovarmi nella natura, all’aperto e svolgere questa attività. Ho inoltre praticato un po’ tutti i tipici sport d’oltreoceano, come il baseball, il football americano, la pallamano e il volley. Insomma facevo un po’ di tutto, ero polivalente”.
Il tuo rapporto con il disco su ghiaccio, anche se per certi versi predestinato vista la tua provenienza, com’è nato?
“Mio padre giocava a hockey, era un ottimo pattinatore. La nostra televisione a casa era sempre accesa sui canali che trasmettevano le partite NHL. Abitando a Montréal c’era la fortuna oltretutto di avere il fuso orario ideale. Erano delle vere maratone, delle scorpacciate. Si cominciava a guardare le partite che iniziavano alle ore 19, vedevano impegnati i Montréal Canadiens e i Québec Nordiques. In seguito alle 21 si seguivano i match della parte ovest con Edmonton Oilers e Calgary Flames e alle 23 per finire c’erano le sfide dei Vancouver Canucks. Sono sempre stato un grande appassionato di hockey, mi piaceva già da piccolo studiare i singoli giocatori e valutarli”.
Andavi a vedere i Canadiens dal vivo?
“Perlopiù li seguivo alla TV, ma una volta o due all’anno andavamo a vederli al Forum. Ci andavo con mio papà e mio fratello, solo gli uomini della famiglia in pratica, mia mamma ci accompagnava raramente. Quando poi frequentai il college a Québec mi recavo pure parecchie volte a vedere i Nordiques”.
Magari qualcuno non sa che ti sei anche cimentato in qualità di giocatore. Che tipo di hockeista eri?
“Io ero piuttosto un’ala veloce e orientata più alla fase offensiva rispetto a quella difensiva. Lo sai una cosa? Hnat Domenichelli diceva sempre a tutti ‘nel nostro club c’è qualcuno che ha qualcosa che gli altri non hanno’. Sai che intendeva? Il fatto che io abbia giocato con il grande Mario Lemieux”.
Wow, questo mi mancava, veramente Serge?
“Sì, prima del college, a livello junior, ho giocato con Mario a Laval. E dopo essere stato scambiato mi sono ritrovato a Verdun, lì ho militato con il papà di Sidney Crosby, Troy. Era il nostro portiere”.
Che forte. Hai ancora contatti con Lemieux?
“No, ormai lui abita a Pittsburgh, fa la sua vita lì”.
Hai smesso prestissimo di giocare, come mai?
“Avevo avuto diversi problemi fisici, in particolar modo alle spalle e a un ginocchio. Ho dunque giocato poco. Le ultime partite sono state una o due amichevoli disputate con il Lugano di John Slettvoll, proprio quando arrivai in Svizzera nel 1989, all’età di 24 anni”.
Bella chicca pure questa. Spiegaci i retroscena, come si concretizzò questo cambio di continente che segnò una grandissima svolta nella tua vita?
“Avevo appena ottenuto il mio diploma di maestro di sport all’università di Trois-Rivières. Questo diploma conteneva anche l’opzione ‘hockey’. Con questo attestato potevo insegnare educazione fisica in una scuola. All’epoca era però tutto molto bloccato a causa del livello di contingente e dunque non avevo un lavoro fisso. François Bessette, un allenatore canadese che conoscevo bene, era già a Lugano. In quegli anni i bianconeri stavano potenziando il settore giovanile e c’era una grande crescita. In estate François mi aveva accennato alla possibilità di andare in Ticino e lavorare con i giovani del Lugano. Mi dissi che invece di aspettare una chiamata di qualche istituto avrei colto l’opportunità… Da quel momento non sono mai più tornato a insegnare in una scuola”.
E già, 36 anni dopo sei ancora qui…
“Non era certo nelle mie previsioni (Serge ride, ndr). La mia idea era di venire a Lugano e fare semplicemente una stagione. Dopo questo primo anno non ho però più avuto l’intenzione di rientrare in Canada. È cominciato in sostanza il mio percorso al fine di diventare svizzero. Ho imparato la lingua, mi sono inserito a fondo nella realtà e nella cultura ticinese. In fin dei conti il Ticino e il Québec si assomigliano. In entrambi i posti sei un po’ considerato il ‘piccolo’, la ‘minoranza’…”.
È stato l’inizio di un lungo cammino non sempre facile, una maratona che hai affrontato con entusiasmo, coraggio e che ti portato fino ai massimi livelli. Gli anni passano, ma sei pieno di energia e professionalmente parlando il tuo viaggio è ben lungi dall’essere terminato. Quali sono i tuoi sogni nel cassetto?
“Adesso abbiamo creato un’agenzia di giocatori che mi permette pure di collaborare con la famosa agenzia CAA di Pat Brisson a Los Angeles, che segue campioni del calibro di Crosby e MacKinnon. Continuare con questo percorso è una delle due cose che ho in testa. L’altra sarebbe invece quella di tornare a fare il direttore sportivo in qualche club”.
E il profumo dello spogliatoio, l’aria della panchina? Veramente non ti mancano?
“Se dovesse arrivare una società con un progetto serio a medio termine e mi dicesse di avere bisogno di me in qualità di allenatore ci penserei sicuramente. La cosa che veramente mi manca è l’adrenalina precedente la partita. È un feeling indimenticabile, mi mancherà per sempre, è un dato di fatto. Non posso nasconderlo”.
Un sentimento più che comprensibile per una persona patita di hockey a 360 gradi e che vive questo magico mondo al ritmo delle reception dei grandi hotel, ovvero non-stop. Questo è Serge Pelletier, che ringraziamo per essere salito con noi sulla giostra dei suoi ricordi d’infanzia.