AMBRÌ – Avvicinarsi alla panchina dell’Ambrì Piotta e scorgere tra Luca Cereda e René Matte il leggendario allenatore canadese Claude Julien ha avuto un che di irreale. Ritrovarsi una delle figure più importanti dell’hockey NHL degli ultimi vent’anni sulla panchina leventinese è infatti un’opportunità non da poco, da cui il club biancoblù potrà sicuramente imparare molto.
“Sono qui semplicemente per condividere la mia esperienza con lo staff tecnico dell’Ambrì Piotta. Oramai alleno da trent’anni, di cui una ventina in NHL, dunque penso di poter portare il mio contributo”, ci ha spiegato il 62enne al termine della partita contro il Berna.
“Qui ho però trovato degli allenatori che ho apprezzato sin dal principio, ed il club è davvero in buone mani. Luca Cereda lavora molto bene e porta una grande energia positiva alla sua squadra, e quando si è in spogliatoio si vede come i giocatori rispondano molto bene a questi stimoli. Quello che sto cercando di fare e dunque seguire la loro linea, condividendo con lo staff delle piccole cose che ho imparato durante la mia carriera. La squadra ha iniziato bene la stagione, e la mia speranza al termine del periodo che passerò qui è di dare un certo contributo per permettere al gruppo di fare un passo avanti”.
Un’occasione per visitare anche una nuova regione ed un nuovo paese…
“Per me scoprire il Ticino è una bella sorpresa, mentre la Svizzera avevo potuto già visitarla un po’ lo scorso gennaio, quando avevamo avuto un camp con il Team Canada a Davos prima delle Olimpiadi. Per me quella era stata un’occasione un po’ sfortunata, durante una giornata sulle nevi con la squadra ho infatti perso il controllo della mia slitta ed ho rimediato un brutto infortunio (la frattura di alcune costole, ndr)”.
Cosa ti ha colpito in questa prima partita passata in panchina?
“Il finale di partita mi ha impressionato, e se fossi stato in tribuna avrei sicuramente fatto dei video con il mio telefono. È stato incredibile vedere come i tifosi riescono ad essere parte della partita, ed essere parte di questo match dalla panchina è stato davvero divertente”.
Quali sono le tue impressioni sulla NL, che hai potuto vedere da vicino in queste prime due partite? In Nordamerica qual è la percezione?
“Non ho mai avuto una percezione negativa dell’hockey svizzero, perché ogni volta in cui si affrontava la vostra Nazionale con il Canada si sapeva che sarebbe stata una partita dura. Ciò che mi è piaciuto molto dalle partite che ho visto sinora è il fatto che sul ghiaccio si vede un hockey duro ed offensivo, c’è un intenso forecheck e nessuno ha un atteggiamento rinunciatario. In tanti paesi il gioco difensivo è la priorità e quando si perde il disco si torna immediatamente sui propri passi, invece in Svizzera l’hockey è pura eccitazione… C’è continua pressione, che porta ad errori e dunque occasioni da gol, e questo è ciò che i tifosi vogliono vedere”.
Sei arrivato in Leventina grazie alla tua amicizia con René Matte…
“Ho incontrato René una ventina di anni ad un simposio di allenatori, e prima dell’ultima Coppa Spengler mi ha contattato chiedendomi di incontrarci. Purtroppo poi il torneo di Davos non si è più fatto, dunque ci siamo visti in occasione degli ultimi Mondiali, quando lui era impegnato nello staff della Francia. Abbiamo discusso della possibilità di raggiungere l’Ambrì Piotta per un breve periodo, e gli avevo risposto che avrei sicuramente considerato l’idea. Per me è un onore essere chiamato a condividere il mio sapere sull’hockey, perché ho una certa sensazione di umiltà nel realizzare che le persone mi ritengono in grado di arrivare qui e poter dare una mano. Ma come detto il coaching staff sta già facendo un ottimo lavoro, sono molto impressionato. Ricordiamoci anche che questa squadra non ha lo stesso numero di allenatori che possono vantare altri club, ma lavorano così duramente da compensare la situazione ed i giocatori questo lo percepiscono”.
Luca Cereda è stato anche una scelta al primo turno dei Toronto Maple Leafs…
“Sì, mi ricordo bene Luca da giocatore, ho anche allenato contro di lui nel periodo in cui era impegnato a St. John mentre io guidavo gli Hamilton Bulldogs, in quegli anni il farm team degli Edmonton Oilers. Parliamo di oltre vent’anni fa, era un buon giocatore ed è stato un peccato vedere ciò che gli è successo a livello di salute, ma il lato positivo è rappresentato dal fatto che ora sta vivendo una bella carriera da allenatore. Fa ogni giorno ciò che ama, ed è questa l’essenza dell’hockey. È un coach giovane, e vedrete che farà tanta strada”.
Quando partirai dalla Svizzera, cosa ti riserva il futuro?
“Una volta terminato il mio periodo con l’Ambrì Piotta tornerò probabilmente a casa, dove aspetterò ed osserverò l’evolversi degli eventi. La scorsa stagione ho declinato un’offerta per tornare ad allenare in NHL, perché se dovessi decidere di tornare dovrà essere nel giusto contesto. Sappiamo tutti che in Nordamerica c’è tanta pressione sugli allenatori ed i cambiamenti avvengono spesso, dunque aspetterò e se si presenterà la giusta occasione sarò felice di considerarla. Nel frattempo amo davvero ciò che sto facendo, posso restare nel mondo dell’hockey in qualità di consulente ed aiutare alcune persone. Per me è una passione, e questa non muore mai”.
Una parentesi interessante potrebbe arrivare con la Coppa Spengler, potremo magari vederti alla guida del Team Canada?
“Nulla è ancora stato deciso in merito a chi allenerà il Team Canada alla prossima Coppa Spengler. Avrei dovuto avere quel ruolo lo scorso anno, ma come sappiamo il torneo è stato purtroppo annullato. Mi sarebbe piaciuto molto vivere quell’esperienza, ora vedremo cosa verrà deciso per il futuro. Da Hockey Canada ho ricevuto tantissime opportunità di rappresentare il mio paese, ma capisco anche che potrebbero esserci altri allenatori alla ricerca di questa opportunità”.
Prima hai parlato di pressione, ed avendo allenato i Montreal Canadiens l’hai vissuta in prima persona. La Stanley Cup manca oramai da una vita, come vedi la direzione in cui sta andando ora il club?
“Credo che ora stiano facendo la cosa giusta. C’era davvero bisogno di un reset, non si scappa da un rebuild, e da quanto posso vedere dall’esterno stanno affrontando questo processo nella maniera giusta. Ci saranno sicuramente degli anni dolorosi da affrontare, quanto questo periodo durerà non lo so, ma credo che la direzione sia promettente. Ho avuto l’opportunità di allenare i Canadiens in due circostanze diverse, dunque non c’è alcuna amarezza da parte mia, e da lontano continuo a supportarli come faccio anche con i Boston Bruins. In entrambe le organizzazioni ho vissuto dei bei momenti e spero di vederle entrambe avere successo”.
Proprio con i Bruins avevi vinto la Stanley Cup, ma il club ora è pronto per girare pagina. Bergeron e Krejci sono di ritorno ma prossimi al ritiro, mentre altri come Chara o Rask sono già partiti. Insomma, si percepisce come il tempo sia passato…
“Sì, a volte c’è quel momento in cui ci si rende conto che il tempo è davvero sfuggito via. Certo, in squadra ci sono ancora alcuni dei core players degli anni migliori come Bergeron, Marchand e Krejci, ma i vari Chara, Recchi e Rask non ci sono più. Insomma, tutti invecchiano e dunque le cose sono un po’ cambiate… La squadra sta affrontando un periodo di transizione. Da ciò che vedo dall’esterno credo che l’intenzione sia quella di concedere al gruppo un’ultima possibilità di vincere la Stanley Cup, ma poi probabilmente arriverà il momento di voltare pagina ed iniziare un rebuild”.
La Stanley Cup è stato il punto più alto della tua carriera…
“C’è una cosa che posso dirti con certezza: vincere la Stanley Cup è davvero qualcosa di unico. Puoi chiedere conferma a tanti giocatori… Prendi ad esempio un grande attaccante che ora vive qui in Svizzera, Joe Thornton, che ha vissuto una carriera strepitosa e sicuramente meritevole della Stanley Cup, ma non l’ha mai vinta. Arrivare alla coppa è molto più difficile di quanto la gente non creda, e quando la alzi al cielo devi davvero esserne fiero perché non è un momento che arriva molto spesso. Dico sempre a tanti giovani giocatori che arrivano sino alla finalissima e poi perdono, di non prendere questa opportunità per scontata, perché nessuno può garantirvi che avrete una seconda chance. Le carriere passano velocemente, e quando si ha la possibilità di vincere la Stanley Cup si deve davvero dare tutto”.
Nel tuo palmares c’è però anche un oro olimpico vinto come assistente con il Canada nel 2014… È davvero uno scalino sotto rispetto alla Stanley Cup?
“Indubbiamente crescendo in casa il trofeo più importante è sempre stata la Stanley Cup, ma quando ho vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi ho realizzato velocemente quanto importante potesse diventare questo obiettivo. I Giochi sono il palcoscenico più grande, in pista ci sono i migliori atleti del mondo, dunque dire che l’oro olimpico sia meno importante della Stanley Cup per me è sbagliato. Mi ricordo quell’anno a Sochi dove la nostra squadra era determinata in maniera incredibile, ed abbiamo davvero dominato ogni partita perché tutti i giocatori – e stiamo parlando di superstar in NHL – erano disposti a fare tutto il lavoro sporco necessario. Tanti tiri bloccati, backcheck senza interruzione… Tutti aspetti del gioco che non dovevano necessariamente fare, ma che ci avevano permesso di controllare il disco praticamente per intere partite. Vedere quel gruppo – Crosby, Weber, Price e via discorrendo – assumere quell’atteggiamento è stato impressionante”.