LUGANO – Per una volta, dopo tanti usi e soprattutto abusi, proviamo a lasciare da parte definitivamente la parola “progetto” ed entriamo così, a piedi pari nel discorso. Se non si ha un’idea, non si può avere un progetto.
O meglio, se non si sa quello che si vuole essere, se non si sa chi si è, se si vogliono mischiare credi diversi per non scontentare qualcuno o per non dover attingere al coraggio di troncare con il passato, allora da quel passato non ci si separerà mai e si continuerà ad andare avanti nella nebbia e per incerottamenti.
Ecco, fatta questa “entrée” nemmeno troppo delicata forse si è capito dove si vuole andare a parare. Lasciamo stare, oltre alla parola e al concetto di progetto, anche il risultato finale – che vede la stagione ancora monca del postseason – ossia quel raggiungimento in extremis dei playoff da parte del Lugano e concentriamoci più che altro sulle cause che hanno portato i tifosi a vivere un’altra stagione di sospiri e luoghi comuni.
Partendo dalla separazione da un direttore sportivo rimasto in sella per dieci lunghi anni, il Lugano aveva come intenzione quella di dare un taglio al suo passato e tracciare una nuova rotta, verso un hockey diverso e idee diverse, più moderne dal lato gestionale e sportivo, ingaggiando come “General Manager” l’ex agente e giocatore Hnat Domenichelli.
Tutto molto bello per carità, ma già l’idea stessa di ingaggiare l’ex attaccante nella sua nuova carica dopo aver già la firma del nuovo coach è sembrato stridere, anche se lo stesso Domenichelli ha sempre voluto ribadire che alla sua prima esperienza in quella funzione e con una squadra e uno staff tecnico già fatti, si sarebbe limitato a seguire le indicazioni sportive e a supportare Sami Kapanen nella sua avventura.
Qui uno dei nodi, il Lugano si è “innamorato” dell’hockey e delle idee del coach finlandese seguendo le vecchie indicazioni sportive, oltretutto tappando qualche pezza nella squadra senza preoccuparsi se fosse o no adatta al finnico, o se soprattutto lo stesso Kapanen si sarebbe saputo adattare ad un parco giocatori che non rispecchiava molto un certo stile.
Spoiler: non ha saputo farlo, imponendo da subito la volontà di giocare con due stranieri difensori e due attaccanti, ottenendo però risultati incoraggianti dopo un’estate a dir poco preoccupante. E per un po’ anche noi, dalla nostra barricata e dalle nostre tastiere avevamo creduto che la cosa potesse funzionare, in quel settembre-ottobre esaltante, tanto da farci dire quanto era cambiato finalmente il Lugano.
Purtroppo l’abbaglio ha colpito anche chi scrive, è andata finché è andata, fino a quando la verve di alcuni giocatori è calata di netto e gli avversari non hanno trovato delle facili contromisure e probabilmente anche la durissima preparazione estiva si è ritorta contro.
Da lì le crisi infinite, l’incapacità di un coach testardo di trovare soluzioni alternative e dietro un Domenichelli che ha un po’ titubato se cercare di lasciare andare le cose senza metterci troppo mano o se prendere la prima grossa e dolorosa decisione da direttore sportivo.
La seconda possibilità è stata inevitabile dopo quel famoso derby pre natalizio e per cercare di uscire da un nuovo pantano il Lugano si è dovuto per forza attaccare a un passato ancora più passato, con un hockey tremendamente speculativo che ha riportato più in alto un gruppo svuotato e fino a lì incapace di reagire.
Serge Pelletier non ha potuto fare altro, di tempo ce n’era poco, ma in sé ha fatto quello che ci si aspettava da lui, e gli va dato merito di averlo fatto con una squadra che per un mese ha portato a casa 2,5 punti a partita vivendo sulle prestazioni dei portieri e di altri quattro-cinque giocatori, non di più.
E qui sta un altro nodo tra i tanti venuti al pettine. Questa squadra, rappezzata male e senza troppo costrutto ha visto partire nel giro di due stagioni l’asse principale che ha costruito annate anche soddisfacenti e esaltanti, quel Merzlikins–Furrer–Hofmann–Lapierre che per caratteristiche caratteriali di alcuni e tecniche di altri erano l’anima dei bianconeri.
Oggi il Lugano palesa non solo un grande indebolimento sul piano tecnico – e ci può stare se c’è una programmazione – ma anche e soprattutto su quello caratteriale, tanto da fare sembrare questa squadra completamente snaturata rispetto a quella che cavalcava onde da playoff e superava ostacoli apparentemente insormontabili come fosse nella pubblicità di un noto olio da cucina.
E allora che fare adesso? La prima cosa da fare sarà consegnare le chiavi di ogni operazione sportiva in mano a Domenichelli, una persona che per contatti e rete di conoscenze ha pochi eguali in Svizzera, senza più interferenze o desideri da regalare per sfizio. Questo non significa che il direttore sportivo ha la bacchetta magica o sarà esente da errori, ma perlomeno in anni di decisioni sbagliate o mancate l’aver messo lui al comando del settore sportivo potrebbe essere stata l’unica scelta veramente vincente.
Le idee Domenichelli le ha e queste sono da tramutare nella famosa parola che all’inizio abbiamo deciso di lasciare da parte, ma ci vorrà tempo, stagioni intere e quella pazienza che stavolta potrà essere giustificata. Le sue idee sono semplici ma logicamente non facili da attuare nel contesto attuale: stranieri trascinatori, giovani da scoprire e che facciano la differenza, altri da coltivare e uno scouting capillare.
Il primo punto, quello degli stranieri, è quello che ha fatto discutere di più nelle ultime stagioni, in particolare in questa. Il Lugano di fatto, non può più permettersi gli stranieri “funzionali”, quelli che ricoprono ruoli specialistici o solo lavoratori, il Lugano deve avere stranieri che facciano la differenza, come tutti vogliono in Svizzera, dato che sono ancora questi – a parte eccezioni negli squadroni di vertice – a decidere la maggior parte delle partite e dei campionati.
Tanto più che il Lugano, impoverito tecnicamente e soprattutto offensivamente come lo è stato negli ultimi tempi deve avere un pacchetto stranieri competitivo, e se pensiamo che – tralasciando Spooner e Ryno – tra Klasen, McIntyre, Lajunen, Postma e Chorney in cinque hanno messo assieme 24 gol (uno solo in più del solo Clark del Rapperswil, per fare un esempio) ben si capisce quanta difficoltà si possa avere a vincere le partite.
Numeri impietosi, e non ci si può sinceramente nemmeno più aggrappare ai compitini diligenti o ai tiri bloccati, alcuni stranieri del Lugano non sanno più dare il meglio di sé e altri invece non sono proprio adeguati a quello che chiede un campionato sempre più difficile e con sempre più contendenti di valore.
Ma certamente non ci si può attaccare solo agli stranieri se pensiamo al crollo di Fazzini o alla fatica nell’adattamento di Suri, o ancora al trascinarsi senza costrutto di alcuni altri cosiddetti “senatori”, ma partire da una base di qualità nei giocatori di importazione costituisce già qualcosa di buono (chiedere per informazioni ancora ai Lakers) soprattutto quando si dispone di una rosa svizzera fortemente indebolita.
E la panchina? Domenichelli, da buon direttore sportivo, ha affermato che anche Serge Pelletier si può giocare le sue carte, ma ci sembra (sembra, ripetiamo) improbabile che il coach di Montréal sarà ancora sulla panca bianconera la prossima stagione.
Per ora risulta difficile capire cosa abbia in mente il direttore sportivo, ma mettendo assieme le sue idee, un profilo lo si può tracciare, e non sembra portare a nomi fortemente prestigiosi – leggasi mostri sacri da NHL – o a qualche altro salto nel buio con un esordiente.
L’importante per il Lugano però sarà avere un coach che condivida la stessa visione della direzione sportiva e di conseguenza di quella approvata dal club, senza più pericolose concessioni o accavallamenti, Per intanto comunque nulla sembra ancora deciso in attesa di sapere se i bianconeri potranno ancora dimostrare qualcosa nei playoff nel difficile impegno contro gli ZSC Lions.
Ora il Lugano è sul vero bivio, comunque vadano i playoff (se mai verranno giocati) o se finisse qui la stagione 2019/20. Un bivio per cercare di rientrare tra le migliori nei prossimi anni e per recuperare credibilità, l’ultima bava di ragno che lo separava dal passato e dalle sue idee confuse si è staccata, ora deve decidere cosa vuole essere, a patto di aver capito per primo chi sia.
Forse proprio questa stagione tribolata ha mostrato sul serio in che acque si è mosso incautamente il club bianconero, ma ancora una volta se n’è persa una intera sulla via della ricostruzione perché non si è avuto il coraggio di dare un taglio netto e completo al passato. E stavolta non può nemmeno più bastare un eventuale exploit nei playoff per nascondere altra polvere sotto il tappeto, le stagioni scorse hanno mostrato che non si può dormire sugli allori passati, figuriamoci sulle spine di oggi.