BIASCA – Un’ora di allenamento intenso a poche ore dal debutto in amichevole contro l’Ambrì Piotta, Jan Cadieux è sempre un “martello” nel spronare i suoi ragazzi, con il più silenzioso Tamfal a distribuire consigli a ogni cambio di ritmo ed esercizio.
“È la mia maniera di aver rispetto per questi ragazzi, so che sembra strano da dire, ma sono una persona focosa e prendo a cuore il mio lavoro, se sembro troppo duro a volte è perché so che si possono raggiungere certi risultati”. Appena uscito da una seduta teorica il friborghese è ancora carico come una molla e ordina un té. “Non sono un gran bevitore di caffè, per fortuna non ne ho bisogno per darmi la carica!”.
Ci sediamo a un tavolo del ristorante della Raiffeisen BiascArena e il coach fa subito cenno di volersi sedere vicino alla finestra per continuare ad osservare il successivo allenamento dell’Ambrì Piotta di Luca Cereda.
Jan Cadieux, ti vedi lì fra qualche anno, ad allenare una squadra di LN?
“Lo spero, è il mio obiettivo, ma per ora mi limito a guardare ed ad imparare tutto quello che posso. Non lo so cosa mi riserverà il futuro, per ora sono felice di quello che faccio, ma è giusto avere obiettivi ed ambizioni”.
Intanto, dopo una lunga ferma fuori dal ghiaccio, siete pronti a ripartire finalmente…
“Finalmente si riparte, i giocatori non vedevano l’ora perché per noi la pausa è stata lunghissima, abbiamo terminato il campionato di Swiss League a metà febbraio. Qualcuno ha continuato il campionato in LN con Ambri Piotta e Lugano, ma per la maggior parte è stata dura stare via cosi tanto dal ghiaccio”.
E dalla scorsa stagione, la tua prima come head coach dei Ticino Rockets, cosa i porti oggi?
“Ho imparato veramente molto, già dal fatto che a Biasca sono arrivato a poche settimane dall’inizio del campionato e questo mi ha costretto a lavorare in una maniera in cui non ero ancora abituato e ho “squilibrato” un po’ il mio sistema. All’inizio ho voluto lavorare fin troppo sul lato tecnico e tattico, sempre sul ghiaccio, mentre avrei dovuto prendermi più tempo per conoscere i giocatori anche in altri ambiti e fuori dal ghiaccio, ho imparato che questo aspetto umano è molto importante nelle dinamiche di una squadra del genere. In questa stagione sono avvantaggiato in quanto lavoro con i ragazzi già da marzo e mi sono preso il tempo di conoscerli meglio come persone e non solo come giocatori, è un fattore comunicativo molto importante. Inoltre ho imparato anche a gestire molto meglio me stesso, come ho detto sono molto focoso e appassionato e ho dovuto migliorare gli equilibri del mio carattere quando approccio la squadra, in questo senso mi sento sempre meglio verso i ragazzi”.
Sei sempre più calato in una filosofia che non dovete perdere di vista e che si rinnova di anno in anno…
“Bisogna imparare a vincere, ma non intendo semplicemente il risultato numerico di una partita. Per me vincere significa raggiungere obiettivi di squadra e personali che ci si era prefissati, magari pure superandoli. Noi come Ticino Rockets abbiamo una dovere che è quello di dimostrare ad Ambrì Piotta, Lugano e oggi anche il Davos che il nostro sistema funziona per far progredire i ragazzi del vivaio e lanciarli verso la LN. Dobbiamo fare sempre passi avanti, ogni ragazzo che arriva dobbiamo aiutarlo a cambiare mentalità e ad uscire dalla gioventù sportiva e magari anche umana, fargli capire che questa squadra è qui per farli crescere. Qualcuno in passato è arrivato con il pensiero che i Rockets fossero a sua disposizione, mentre la realtà è che la squadra avanza come squadra, i risultati individuali arrivano se ci si spinge come gruppo e si ha voglia di vincere la concorrenza. Abbiamo fatto molto per cambiare questa mentalità di “partenza” ma occorre sempre migliorare”.
Poi però venite ripagati da alcune belle soddisfazioni, cosa provi quando giocatori come Vedova o Zorin arrivano in corso di stagione a giocare una finale per il titolo?
“Vedova e Zorin sono quelli che sono stati mediatizzati di più avendo giocato i playoff con il Lugano e logicamente si è parlato molto di loro, però occorre ricordare anche chi come Goi e Mazzolini ha disputato praticamente quasi tutta la stagione ad Ambrì, contribuendo alla salvezza dei biancoblù, mentre altri ragazzi sono andati ad Ajoie per giocare in una squadra di Swiss League di alto livello, tutti questi sono i risultati che provano quanto abbiano lavorato bene con noi. Parlando di Vedova in particolare ricordo il lavoro che è stato fatto con lui anche a livello individuale, con sedute intense sul ghiaccio e fuori, ore passate al video per migliorarsi e quando l’ho visto segnare all’Hallenstadion in una finale per il titolo ero molto emozionato per lui. Loic deve essere un altro esempio per far capire ai ragazzi che risultati si possono ottenere con il lavoro in gruppo di tutti i giorni, questo succede quando ci sono 20 o 30 giocatori che si spingono e si spronano in allenamento e in partita, senza questa mentalità non si arriva a certe soddisfazioni”.
Alcuni giocatori hanno dovuto lasciare i Rockets, questo è difficile da dire a un ragazzo che si carica di grandi speranze…
“È il brutto del nostro lavoro come allenatore, più ancora come formatore in una squadra così larga. Se la squadra ha la mentalità giusta c’è sempre una lotta per farne parte, poi un’altra per avere più ghiaccio, infine un’altra ancora per strappare un contratto da professionista. Tutte queste sfide sono grandissimi sforzi per dei ragazzi che fino a poco tempo fa non erano abituati a tanto e quindi rispetto tantissimo i loro sacrifici. Non è facile quella parte del lavoro, ma fa parte dei miei compiti, anche se è sempre dura dire a qualcuno che non farà più parte del progetto, perché ho troppo a cuore quello che fanno e rispetto tantissimo i loro sacrifici. D’altra parte siamo tutti sotto osservazione, i giocatori ma anche noi dello staff tecnico, è il mondo dello sport, occorre raggiungere dei risultati e a volte non va come si sperava”.
La concorrenza aumenta ancora di più con l’arrivo del Davos come terzo team affiliato, più pressione anche per il coach nel fare le scelte?
“È stata una proposta del nostro CdA che abbiamo accolto subito positivamente. Stiamo passando degli anni in cui il livello degli élite delle squadre ticinesi si è abbassato ulteriormente e ci sono pochi ragazzi sia numericamente che qualitativamente in grado di fare il salto da noi. È vero che come farm team dobbiamo aiutare i giovani a progredire facendo la parte di un gradino intermedio ma, parlando chiaramente, non possiamo nemmeno aprire le porte a tutti, occorre avere comunque un certo livello base per la Swiss League, che è un torneo molto difficile. Ambrì Piotta e Lugano vogliono che ci sia una base di qualità, ma guardando solo al Ticino non era più garantita, la soluzione di accogliere anche i ragazzi del Davos ci aiuta in questo senso. Come allenatore dovrò fare scelte difficili, ma se lo sono è perché la qualità si alza, inoltre abbiamo sempre bisogno di allungare la rosa perché la scorsa stagione abbiamo giocato molte partite in venti e quindi non solo ci possono essere difficoltà di formazione, ma nella nostra filosofia non va bene nemmeno avere il posto assicurato perché si è in pochi, non avrebbe alcun senso”.
Pensi che il futuro della Swiss League possa essere quello di un torneo composto in maggior parte da farm team come il vostro, GCK Lions e EVZ Academy?
“Ci sono molte squadre in Swiss League che non vedono di buon occhio questo aumento del numero dei farm team, perché sostengono di avere le loro ambizioni, ma per il bene dell’hockey svizzero secondo me è la direzione giusta. I farm team come sono stati pensati da noi servono come passo intermedio per quei ragazzi che hanno il potenziale per arrivare in LN, prima di queste squadre per molti giocatori il salto dagli élite alla prima squadra era troppo alto e alcuni club non potevano o non volevano aspettare il loro sviluppo. Oggi probabilmente non ci sono abbastanza giocatori per creare una lega interamente di farm team, ma sicuramente il numero aumenterà se si capirà che lo si fa solo nel bene dell’hockey svizzero, magari cercando più equilibro all’interno delle varie rose, anche perché ci sono diverse squadre di Swiss League che non danno alcuno spazio a questi ragazzi. Ripeto, per me lo sviluppo dei giocatori a questa età è troppo importante per tutto il movimento svizzero e se è vero che la nazionale U20 è il giusto parametro di misura, allora direi che c’è moltissimo lavoro da fare”.
Una squadra affiliata in più ma pure un Sebastien Reuille in più, anche in un ruolo dirigenziale. Un bel colpo potersi affidare alla sua esperienza…
“Uno come Reuille ha la giusta esperienza per essere una nuova voce nel club, una persona che lavorando anche all’esterno del ghiaccio ha una visione più globale dell’insieme dei Ticino Rockets. Reuille arriva da una realtà importante e può essere un aiuto non solo per il club ma anche per i ragazzi stessi, perché è in grado di portare qualcosa a tutti. Ha preso subito molto a cuore il suo nuovo ruolo, con grande passione e la stessa professionalità che ha sempre dimostrato sul ghiaccio la porta anche negli uffici”.
Alleni un club giovane fatto di ragazzi giovani, ma anche tu fai parte di questa categoria, solo come allenatore. Sempre più coach delle nuove generazioni riescono ad imporsi sulle panchine svizzere, ci sono meno pregiudizi o è una questione di preparazione?
“È vero che fino a pochi anni fa era impossibile imporsi in svizzera per un giovane allenatore, c’era sempre lo stesso numero chiuso di coach che girava da un’organizzazione all’altra, mentre oggi la mentalità è un po’ cambiata per fortuna. Le squadre stanno finalmente dando chances ad allenatori più giovani, ma noi siamo nella stessa situazione dei ragazzi che per esempio alleno io a Biasca. Giusto dare una possibilità che fino a pochi anni fa era impensabile ottenere ma poi bisogna anche guadagnarsi la fiducia con il lavoro e i risultati. Le porte ci sono state finalmente aperte e per noi allenatori più giovani è molto positivo e stimolante, però non si può improvvisare ma occorre formarsi e imparare ogni giorno. Proprio come i miei ragazzi”.