È l’inizio di marzo di un anno non qualsiasi appena passata la metà degli anni 80. Il mattino è pungente a Lugano, l’inverno sta ancora lasciando l’impronta della sua mano nell’aria e qua e là si scorge ancora qualche segno della grande nevicata.
Un uomo silenzioso sta camminando sul marciapiede, stanco ma felice, l’adrenalina ancora in corpo gli permette di essere ancora molto lucido, e nonostante la fatica e la notte in bianco di bagordi, sa che probabilmente prendere sonno sarà un’impresa.
L’uomo silenzioso si sta incamminando verso casa e per strada, mentre il sole sorge sopra il Brè, chi è in giro di domenica mattina presto lo riconosce e lo saluta, fa cenno di vittoria e suona ancora qualche clacson. Già, i clacson delle auto. Gli sembra di sentirli ancora incessanti, quelli che lo hanno accompagnato nel tragitto da Davos fino a Lugano e le orecchie gli fischiano come dopo essere uscito da una discoteca.
Non prenderà sonno subito, lo sa, perché ripenserà a quella cosa accaduta la sera prima e si sforzerà di credere che è tutto vero. Penserà a come sarebbe andata se Sergio Soguel a tu per tu con Thierry Andrey non avesse colpito il palo sul 4-5 per il Davos, e penserà al suo tiro di soli pochissimi secondi dopo che ha sorpreso Bucher per il pareggio che lanciava il definitivo sorpasso.
Penserà che è stato uno dei tiri migliori della sua carriera, ed è capitato proprio nel momento giusto al posto giusto. Penserà se è stato merito del destino. E ripenserà a quanto abbiano contato le emozioni per risalire dal 2-4 e poi dal 4-5 negli istanti finali, quanto li aveva spinti quella mezza pista abbondante a tinte bianco-giallo-nere e poi ripenserà anche alle parole di John Slettvol nella seconda pausa: “Chi pensa che sia finita rimanga nello spogliatoio”.
Persino lui, l’uomo silenzioso e pacifico si era scatenato come mai prima per completare un poker incredibile che lanciò la leggenda del Grande Lugano degli anni 80 e si lasciò andare a festeggiamenti insospettabili ma inevitabili e del tutto spontanei.
Mentre attraversa la strada, con il sole che intiepidisce l’aria, l’uomo silenzioso incontra qualche gruppetto di tifosi che esce dai bar e dalle panetterie ancora bardato di sciarpe, berrette di lana, in una mano una bandiera ormai logora e nell’altra un cornetto appena sfornato. Li riconosce quei ragazzi, perché erano tra quelli che qualche ora prima lo avevano atteso sul ghiaccio di casa e lo avevano sollevato sulle spalle per portarlo in trionfo, e usciti da lì avevano continuato i festeggiamenti altrove.
Ma chi era tutta quella gente? Da dove usciva? Dai festeggiamenti nei Grigioni, all’incredibile carovana fino in Ticino e poi al delirio di Lugano, l’uomo silenzioso non riusciva a credere in tanto calore, in tanta passione e riconoscenza da parte di quella gente. La tranquilla Lugano, che per un nordico pacifico come lui era perfetta nella sua vita scandita in silenzio si era trasformata in una bolgia. Sì, era abituato al calore della Resega, al chiasso dei derby, ma quello era inimmaginabile, con il ritorno in città scortati dalle auto della polizia.
L’uomo silenzioso è arrivato sulla porta di casa, cerca la chiave nel mazzo e in quel mentre si ferma un attimo per pensare. Pensa per un secondo lunghissimo a quello che lui e gli altri ragazzi avevano fatto quella sera, quella notte, e cosa significava per quella gente che lo aveva caricato sulle spalle.
Ripensa al suo amico Jörg Eberle con le braccia al cielo dopo aver insaccato il 5-7 a porta vuota, i festeggiamenti in panchina, Beat Kaufmann che alza la coppa, il palo di Sergio Soguel, la colonna sul San Bernardino, i clacson, i tifosi che escono dalle panetterie di domenica mattina.
Il sole si sta alzando sopra il Brè, l’aria si ammorbidisce, sarà dura dormire ripensando a tutto questo. Ma è una bella domenica mattina di inizio marzo 1986, l’uomo silenzioso decide che è meglio stare sveglio e godersela ancora un po’.