LUGANO – Più che la fine di un progetto – parola spesso abusata o male utilizzata – sembra la fine di un credo, di un ideale nel quale la società bianconera sembrava disposta a tutto pur di non cedere all’ennesimo cambio in corsa.
Stavolta però anche Patrick Fischer e Peter Andersson hanno pagato con l’esonero i risultati a dir poco deludenti sul piano numerico e pure quelli di una squadra tatticamente ormai allo sbando e senza una guida carismatica. Forse era eccessivo il potenziale messo in mano a un coach ancora così acerbo? Con molta probabilità è così, ma forse quando l’ex tecnico del Lugano ha presentato la sua idea di hockey e di squadra, qualcuno avrebbe dovuto affiancarlo meglio nel costruirla.
Oggi stridono assai le sue parole, quando dice che “la squadra è stata costruita male, con troppi doppioni”, e fanno ancora più riflettere (se non allibire) quando a proferirle è un coach che ha avuto praticamente carta bianca per fare e disfare e arrivare alle soglie di questa stagione convinto di potersi giocare qualunque obiettivo passando sopra a ogni difficoltà.
Idee che a priori, quando il momento fa male, cambiano troppo in fretta, dettate forse dallo svuotamento dopo aver comunque dato tutto, con momenti però di scarsa lucidità. Vien da pensare però che probabilmente anche Fischer e Andersson si fossero resi conto già quest’estate che la squadra aveva problemi di assetto, con la speranza, o la convinzione, che il campionato potesse risolverli e incerottarli.
Ci sono stati due segnali che inequivocabilmente – certo, ora più facile vederli – hanno mostrato le prime crepe nei disegni d’architettura stilati dallo staff tecnico: il primo è stato il rinnovo contrattuale di Fischer a inizio campionato e che forse ha scatenato i primi mugugni nello spogliatoio, probabilmente non spaccato ma che cominciava a muovere qualche dubbio e segno di sfiducia verso il coach.
Il secondo è un gesto che è sembrato quasi una resa, di quelle da disperazione in cui si contraddicono tutti i propri dettami e le convinzioni difese ad oltranza, ossia il ricongiungimento nello stesso blocco di Klasen e Pettersson. Nella partita contro il Losanna della Resega, i due svedesi sono stati riuniti per la prima volta da quando, durante l’estate, Fischer si era convinto di separarli, con il rumoreggiare dei tifosi e probabilmente qualche malumore interno, soprattutto da parte dello stesso Klasen, il più in difficoltà e spesso addirittura irritante in pista in questo inizio di stagione.
A ciò va aggiunta anche la gestione di Damien Brunner, probabilmente il giocatore più forte della squadra. L’ex Devils ha pagato con la panchina alcuni suoi errori, ma è sintomatico che Fischer non sapesse più come dosare bastone e carota per motivarlo, punendo platealmente ed eccessivamente un Brunner che comunque non ha mai fatto polemica.
Ma aldilà di queste scelte tecniche, com’è stato possibile rovinare tutto quel lavoro che aveva portato il Lugano terminare con il record di punti la scorsa regular season? Forse già la serie con il Ginevra doveva suonare come un allarme, quando McSorley ha battuto Fischer sul piano tattico e caratteriale, mettendo in mostra tutte le lacune di un coach promettente ma ancora troppo inesperto per condurre un team verso gli obiettivi più alti.
Piano piano questa squadra, da lui stesso creata e modellata, è diventata una sorta di mostro di Frankenstein sfuggitogli dalle mani e dal proprio controllo, anche a causa di alcune scelte affrettate e da qualche delusione. Tutte cose che hanno messo in mostra la sua incapacità di trovare soluzioni nei momenti di crisi, quando nemmeno Pettersson e Klasen hanno saputo chiudere le falle come nella scorsa stagione.
Alla fine la società ha ceduto, e siamo sicuri che alla presidente Mantegazza sia pesato come un macigno prendere questa decisione, a lei che per prima aveva creduto nelle idee del suo ormai ex pupillo. Sperava in almeno un altro week end, il buon Patrick, ma in vista di un derby, la dirigenza ha voluto forse evitare un’eccessiva spaccatura con i tifosi, sperando in una reazione della squadra arrivata sul piano caratteriale proprio contro l’Ambrì (e solo lì), operando una scelta che rimane sempre rischiosa e dalle risposte ancora illeggibili.
Queste risposte dovrà cercarle ora Doug Shedden, appena approdato alla Resega in cui ritroverà quattro suoi ex giocatori dei tempi di Zugo, ossia Brunner, Chiesa (che sono a certi livelli anche grazie a lui) Bertaggia e Steinmann. Le risposte dovrà darle anche e soprattutto la squadra, chiamata a fare gruppo e darsi una strigliata, con alcuni leader o presunti tali a dare per primi l’esempio.
Difficile dire se l’ex coach di Medvescak Zagabria, Zugo, HIFK, Jokerit Helsinki e Finlandia saprà raddrizzare la stagione, ma puntare su di lui pare perlomeno una scelta saggia e intelligente, dato il momento del Lugano e il profilo dello stesso canadese, grande motivatore e conoscitore dell’hockey svizzero.
Quella che Shedden ha trovato è una squadra col morale da ricostruire, priva di un sistema di gioco funzionante e con la capacità cronica di farsi del male da sola, che non ha avuto più una guida nei momenti di difficoltà, ossia quando l’allenatore deve dimostrare il proprio valore. Una squadra con il secondo peggior attacco della lega e penultima in classifica – va bene a dire che forse è costruita un po’ male, ma con certi nomi è impensabile anche che stia sotto la linea – una squadra che deve soprattutto raggiungere i playoff con la giusta motivazione e preparazione mentale per poter fare ancora qualcosa di buono, magari con un paio di nuovi innesti d’importazione.
Il neo coach bianconero sa che i risultati di questa stagione saranno decisivi per un eventuale rinnovo, e forse stavolta anche la società si prenderà finalmente il tempo giusto prima di allungare un contratto.
A Doug Shedden il lavoro non manca di certo, ma è stato troppo tempo fermo per non essere voglioso di ricominciare con questa dura sfida. In bocca al lupo per il futuro a Patrick, e per il nuovo lavoro a Doug. Entrambi ne hanno maledettamente bisogno.
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