PORRENTRUY – Licenziato lo scorso febbraio dall’Ajoie dopo otto incredibili anni, il tecnico Gary Sheehan freme in attesa di una nuova sfida. Il 58enne torna sul benservito giurassiano, racconta la sua particolare estate e parla di Cereda e McSorley.
Gary Sheehan, dopo tanti anni è la tua prima estate senza squadra, che sensazione provi?
“È un sentimento molto strano. Solitamente di questi tempi ero appunto intento a costruire il team e a prepararlo in vista del nuovo campionato. A mio avviso è una della parti più belle del nostro lavoro, è come crescere un figlio. Non lo nascondo, è un momento difficile doverne fare a meno”.
Cosa fai attualmente?
“Abito ancora a Porrentruy. Seguo dei corsi per allenatori online, sono sessioni di gruppo. Si condividono le esperienze, ci sono scambi di opinioni e tanto altro. Sono corsi che durano un paio di settimane. Si parla anche dell’aspetto manageriale, ne ho appena concluso uno pochi giorni or sono. In Europa questo tipo di corsi non esistono in sostanza, sono tipici del Nordamerica. Sono molto interessanti, vi partecipano coach di tutto il mondo, ad esempio anche quelli attivi in NHL o AHL”.
Sei reduce da due esperienze entrambe durate ben otto anni, dapprima a La Chaux-de-Fonds e poi con l’Ajoie, qual è il segreto di tale longevità?
“Sono effettivamente periodi molto lunghi nel nostra ramo, lassi di tempo rari. A me piace lavorare a lungo termine, è però anche questione di fortuna e di timing, sono sempre arrivato nei posti giusti al momento ideale, ovvero in club alla ricerca di stabilità e reduci da momenti difficili. Il La Chaux-de-Fonds quando firmai era vicino al fallimento, era in atto una ricostruzione, il progetto partiva dal nulla. Quando arrivai a Porrentruy l’Ajoie era invece la cenerentola del campionato, quindi in entrambi i casi ho avuto parecchio tempo a disposizione per lavorare e costruire qualcosa a cui hanno fatto seguito dei buoni risultati”.
E a proposito di buoni risultati, con l’Ajoie hai conquistato due titoli, la promozione e vinto la Coppa Svizzera…
“Se vedo il punto di partenza e quella di arrivo è semplicemente gigantesco il percorso compiuto, è come se qualsiasi pezzo del puzzle si fosse incastrato alla perfezione. Siamo sempre riusciti ad avanzare. Il mio highlight? La vittoria in Coppa Svizzera, l’ultima grande competizione svoltasi con il pubblico primo della pandemia, in seguito il campionato fu fermato. Vivemmo delle emozioni magnifiche, difficili da ritrovare in altri contesti, nemmeno durante la promozione. In quel caso affrontavamo squadre della stessa categoria, in Coppa era invece il piccolo che sconfiggeva il grande, fu un’enorme soddisfazione, non fu solamente fortuna bensì frutto del duro lavoro. A impreziosire il successo è oltretutto il fatto che questo trofeo non esiste più”.
Purtroppo non tutte le storie hanno un lieto fine, lo scorso febbraio è arrivato il licenziamento. Sei deluso, hai dei rimpianti?
“Certo, sono ancora deluso, avrei voluto avere più tempo a disposizione e più mezzi, tutto è andato così velocemente. Passare da società semi amatoriale a professionale non è evidente, ci vuole pazienza, è un processo lungo. Noi ci ritrovammo all’improvviso in questa situazione, eravamo in sostanza una squadra di lega cadetta a militare nel massimo campionato. Era una sorta di Coppa Svizzera, ogni vittoria era un exploit. Tra la promozione e l’inizio dell’avventura in National League il periodo fu brevissimo, non c’è stato tempo a sufficienza per preparare il tutto, sia a livello tecnico, sia a livello strutturale e organizzativo. Stavolta la fortuna non è stata dalla nostra parte e ci siamo ritrovati in una situazione difficile. Gli infortuni non ci hanno aiutati. Abbiamo perso alcuni uomini chiavi come i nostri stranieri per lungo tempo. Hazen praticamente per tutta la stagione, Leduc e Asselin per una quindicina di partite. Avendo mezzi ristretti e senza relegazione non c’era nemmeno la possibilità rispettivamente la necessità di rinforzare la squadra. La coperta era corta, in difesa c’erano solamente 7-8 pedine a disposizione ad esempio. Abbiamo pagato la poco profondità della rosa e la mancanza di un partner-team. In sostanza il mio rimpianto è questo, aver avuto poco tempo a disposizione per incanalare il futuro in National League”.
Prima del licenziamento eri il decano delle panchine, ora questo primato spetta a Cereda, un tecnico della cosiddetta nuova generazione, come lo giudichi?
“Conosco Luca già da quando era attivo in qualità di giocatore. Ho sempre seguito il suo percorso. Penso che la sua longevità in biancoblù sia dovuta alla sua capacità di lavorare bene con i giovani e grazie alla bravura nell’applicare uno stile di gioco ideale a una formazione con meno potenziale rispetto ad altre. È abile nel prendere le decisioni giuste, a mio avviso con l’Ambrì e i suoi mezzi limitati ottiene risultati sempre migliori rispetto al reale potenziale della squadra, sta facendo un lavoro considerevole. Chiaramente ora con la nuova pista il club leventinese potrebbe fare ulteriori progressi e stabilizzarsi un po’ più verso l’alto, sarà interessante vedere il seguito. L’Ambrì rimane a ogni modo un esempio da seguire per le altre piccole realtà, anche la presenza dei Ticino Rockets e la conseguente gestione penso abbia portato parecchi vantaggi al movimento sopracenerino”.
Da un giovane allenatore a un altro invece della tua generazione, ovvero McSorley. Tu e Chris, ormai due canadesi da una vita in Svizzera…
“Sicuramente questo ci accomuna. Ci siamo frequentati sempre parecchio durante le nostre carriere. In particolar modo nel 2016, quando facemmo diversi scambi sull’asse Ginevra-Ajoie come ad esempio quello che portò il portiere Gauthier Descloux a vestire la maglia giurassiana. Le nostre discussioni non si limitavano solo al mercato, si dirottavano pure su stili di gioco e tattiche. McSorley nel corso degli anni è maturato e si è adattato alla realtà elvetica, diciamo che ha aggiunto molta acqua al suo vino, per dirla in maniera divertente. Malgrado ciò non ha però mai perso il suo stile. Ora a Lugano ha la fortuna di avere una squadra con più potenziale e profondità rispetto alla realtà ginevrina. Ci si aspettava forse qualcosa di più in questo suo primo anno, ma era anche reduce da una pausa lontano dalla panchina, potrebbe aver influito. Gli restano due anni di contatto con sei stranieri schierabili di cui un portiere, sarà quindi stuzzicante osservare la sua evoluzione in quel di Lugano”.
L’ultima domanda, non potrebbe essere diversamente, è legata al futuro del 58enne originario del Quebec. Un futuro ancora nebuloso, ma perlomeno c’è una piccola certezza…
“In effetti il mio contratto con l’Ajoie scadeva nel 2023, ma io voglio tornare a lavorare il più presto possibile, non voglio rimanere con le mani in mano, ho bisogno dell’adrenalina inerente all’attività quotidiana in qualità di coach. Lo ammetto, a questo punto dell’anno pensavo che avrei già trovato qualcosa, ma purtroppo non è così. Il mio desiderio è di restare in Svizzera, conosco entrambe le leghe come le tasche dei miei pantaloni. Andare in Germania o Austria significherebbe ricominciare tutto da zero. Fortunatamente non mi sono ritrovato spesso in questa situazione, ma fa parte del nostro mestiere, bisogna essere pazienti. Spero che qualche direttore sportivo prima di contattare qualcuno dall’estero si ricordi di quello che ho fatto precedentemente e mi dia una chance”.