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Interviste

Moor: “Oggi guardare le partite dell’Ambrì mentalmente è dura, era il mio sogno”

L’ex difensore ora osserva l’hockey da fuori: “Mi piace molto fare ogni tanto l’opinionista, mi trovo bene ed è una grande emozione. Il mio ex compagno Ang? Il suo stile di gioco diretto e verticale è ottimo per l’Ambrì Piotta”

Da ormai un anno Misha Moor è un pensionato dell’hockey. Una decisione presa dal difensore a soli 26 anni, ma d’altronde non è più una scelta particolarmente fuori dai canoni. Sono in effetti sempre di più i giocatori di lega cadetta che decidono d’interrompere l’attività in giovane età. Con Misha abbiamo un po’ ripercorso il suo cammino.

Misha come stai senza l’hockey e cosa fai ora nella vita?
“Tutto sommato sto bene, da ormai oltre un anno e mezzo sono un consulente assicurativo. Ci sono pro e contro a non essere più un giocatore. Per quel che riguarda la vita privata prevalgono gli aspetti positivi, certo che però l’hockey giocato un po’ mi manca”.

Quindi c’è un po’ di magone quando vedi giocare alcuni tuoi ex compagni e ti viene voglia di scendere sul ghiaccio?
“Onestamente sì. Quando guardo le partite, specialmente l’Ambrì, mentalmente è dura. Giocare in biancoblù era il mio obiettivo, il mio sogno. Ci sono arrivato vicino, ho partecipato pure a delle partite, ma non come avrei voluto. Da fuori poi sembra tutto più facile, lo ammetto. Mi viene quindi ancora più voglia di entrare sul ghiaccio perché penso di poter fare meglio. Questo è il lato negativo del tifoso. Di sicuro non mi mancano però le trasferte e la preparazione estiva. Certo che un po’ fa senso, quando tu sei ad esempio sul divano davanti alla TV e vedi i livelli raggiunti da alcuni ex compagni”.

Hai rimpianti? Alla fine hai smesso a soli 26 anni e non sei mai riuscito a fare il grande passo e a importi in National League…
“Rimpianti? È una parola grossa. Alcune cose le avrei fatte diversamente, pure alcuni comportamenti li avrei modificati, ma col senno di poi è facile riguardare indietro, oltretutto con qualche anno in più sulle spalle. È dunque sempre abbastanza semplice fare autocritica”.

A tuo avviso come mai non hai sfondato ai massimi livelli? Sfortuna, pensando agli infortuni, oppure troppo poco talento e poca caparbietà?
“Non ho una risposta chiara e diretta. Trovare un solo motivo è molto difficile. Direi che è un mix di tutte le cose da te elencate. Purtroppo i tanti infortuni, alcuni meno altri più gravi, hanno rallentato il mio sviluppo. Alla fine ho smesso anche per via di un ferimento, era l’ennesimo e mi era passata la voglia di recuperare. Un altro aspetto da considerare è che magari da giovane ero troppo abituato a fare il passaggio di categoria, era la normalitâ. Dai novizi agli Juniori Elite, da questi ai Rockets e quindi nella mia testa forse automaticamente mi aspettavo semplicemente di arrivare ad Ambrì nella prima squadra. Poi comunque ci sono anche fattori esterni non controllabili. Se arrivi al posto giusto, al momento giusto e con le persone giuste diventa tutto più facile. Non che io non lo sia stato, intendiamoci. A Rapperswil per esempio mi capitò nel 2022. Giocai solo un weekend, solamente due partite. I sangallesi erano falcidiati dagli infortuni in difesa, trascorsi un paio di giorni veramente belli attorniato da tanta fiducia. Se fossi stato nella rosa del Rappi dall’inizio magari le cose sarebbe andate diversamente”.

(JustPictures)

Il tuo ricordo più bello da giocatore?
“Sceglierne solo uno è un po’ difficile, ti posso fare un podio, dirne tre, in ordine casuale. Inizio proprio da quelle due partite a Rapperswil. Arrivai appunto per caso dal Turgovia, i Lakers erano scoperti in difesa. Fu bellissimo, mi fecero giocare tantissimo, più che in Swiss League e percepii molta fiducia, cosa per me molto importante. Un altro highlight è stata la semifinale con il Turgovia contro il Kloten. La perdemmo, ma ce la giocammo sino a Gara 6 alla pari contro un avversario nettamente più forte e che alla fine centrò la promozione. Avevamo molto meno talento degli aviatori, ma eravamo una squadra compatta e con tanto cuore, insomma un ricordo bellissimo. Infine non posso non citare i tanti bei ricordi con l’Ambrì. Penso al primo derby alla Resega e il primo alla Valascia e pure la mia unica rete, segnata nei playout contro il Kloten. Un quarto ricordo sarebbe l’anno trascorso in Canada”.

E il momento più brutto?
“L’infortunio patito nel mio primo anno a Turgovia, quando mi strappai il muscolo dall’osso prima di Natale e la mia stagione si concluse lì. Non tanto per l’infortunio in sé, non avevo molti dolori, ma proprio per il momento. Stavo giocando veramente bene e tanto, ero in crescita, venivo da anni difficili con i Rockets e l’Ambrì e poi arrivò questo brusco stop. Mi annientò”.

Parliamo del tuo anno trascorso a Oshawa nella stagione 2015/16. Spulciando la lista dei tuoi compagni di squadra balza agli occhi Anthony Cirelli, capace di vincere due Stanley con Tampa ricoprendo un ruolo molto importante. Si vedeva già a quei tempi che aveva qualcosa in più degli altri? Avevi un buon rapporto con lui?
“Sì, diciamo che il nostro rapporto si consolidò bene verso la fine della stagione, quando fu per me il momento di tornare a casa. Ma è un po’ sempre così, per tutti. I rapporti si costruiscono con il passare del tempo. Non è che Anthony avesse qualcosa di speciale. Non era un Connor McDavid, che dopo due sue pattinate, due finte e due tiri capivi che come difensore potevi anche tornare nello spogliatoio a cambiarti che tanto non avevi nessuna chance di contrastarlo. Anthony non era “nessuno”, non era quotatissimo ed era pure magrolino a quei tempi, non sembrava nemmeno un giocatore di hockey se lo vedevi fuori dal ghiaccio. Quello che m’impressionava di lui era la sua capacità nell’adattarsi benissimo a ogni livello e a ogni situazione e lo ha dimostrato, arrivando appunto a conquistare la Stanley giocando spesso in qualità di centro della prima linea”.

(Aaron Bell/OHL Images)

Oltre a Cirelli a Oshawa militavano tre figli di grandi ex stelle NHL, tra cui una leggenda. Parliamo dei figli di Martin Brodeur, John MacLean e Cory Stillman. Incontrasti questi tre campioni e ci scappò la foto magari con Brodeur?
“Brodeur l’incontrai, venne pure per cinque minuti nel nostro spogliatoio. Fu un momento abbastanza emozionante. Purtroppo non ci fu nessuna foto, ero una delle 200 persone a volerla e non fu possibile. Gli altri due onestamente non li vidi mai, sapevo però che il babbo di Stilmann era un grande giocatore”.

Torniamo a te, qual è stato il coach che più ti ha plasmato?
“Sicuramente Luca Cereda. Mi ha allenato dai novizi sino al mio ultimo anno in NL, quindi per circa 10-11 anni. È stato colui che più mi ha plasmato e per così dire caratterizzato durante la mia vita hockeisitica”.

E l’allenatore che più ti ha impressionato favorevolmente?
“Stefan Hedlund in quel weekend a Rapperswil. Per i Lakers quella era una stagione magica, erano davanti in classifica. Era incredibile come la squadra gli stava a dietro e come lui era capace di tranquillizzare i giocatori malgrado una rosa decimata. Aveva molta empatia e tirava fuori il massimo da qualsiasi elemento”.

Il compagno di squadra più forte mai avuto?
“Direi Brandon Hagel, l’attaccante canadese che milita a Tampa. Giocò qualche partita nel Turgovia in prestito da Chicago. Altrimenti, per quanto concerne i compagni d squadra per così dire regolari direi Dominik Kubalik, lui era impressionante”.

A Turgovia hai giocato anche con Jonathan Ang, il nuovo attaccante dell’Ambrì. A tuo avviso farà bene?
“Io penso di sì, me lo auguro. Credo che il suo stile di gioco sia ottimo per l’Ambrì con il suo sistema di gioco diretto e verticale da nord a sud. Potrà fare bene, è un giocatore estremamente veloce e dispone di una visione di gioco eccezionale. Se ha alcuni metri di spazio a disposizione difficilmente si riesce a fermarlo e può diventare letale se in linea con lui c’è qualcuno bravo davanti allo slot”.

Dunque lo vedi più come ala che come centro?
“Io l’ho praticamente conosciuto solo come ala. Giostrava al centro solo in boxplay, non saprei quindi dirti in quale della due posizioni sia più forte. Come ala offensiva ha sicuramente maggior impatto. Se schierato al centro però con il suo pattinaggio veloce arriva spesso prima degli altri in zona arretrata e può quindi recuperare molti dischi e risultare prezioso”.

Spesso ti vediamo in qualità di opinionista a Teleticino. Ti piace questo ruolo e come è cominciata la collaborazione?
“Mi piace molto, anche perché non essendo più attivo e non più legato contrattualmente posso parlare liberamente (Misha ride ndr). Scherzi a parte, mi trovo bene e sono a mio agio. È una grande emozione, malgrado l’emittente non sia gigante, quando si accendono le luci dello studio e le telecamere. Non mi ricordo bene come è iniziata la cosa, mi ricordo solo che agli inizi i miei primi collegamenti erano tramite Skype e solo in un secondo tempo ho iniziato a presenziare in studio”.

Al di fuori di questa attività non fai attualmente nulla nel mondo dell’hockey? In futuro potresti magari tornare a giocare a livello amatoriale o forse allenare dei ragazzini?
“Adesso faccio semplicemente il tifoso. Con il lavoro sono spesso impegnato sino a tardi. Non ho orari da ufficio e quindi non sarebbe semplice pianificare degli allenamenti. Lo stesso vale per le uscite con il cane o con la mia compagna. Onestamente ora come ora non ho nemmeno voglia di ricalzare i pattini. Già nei Rockets mi era passata un po’ la voglia, sia per come andavano le cose sia a causa degli infortuni. Il mio fuoco era di giocare in NL, già nella lega inferiore mi mancava quella spinta data dalle 6’000 o 7’000 persone, idealmente ad Ambrì. In Swiss League spesso si giocava in piste semivuote e io perdevo appunto questa spinta. Chi gioca ad esempio in terza lega ha veramente tantissima passione, cosa che a me purtroppo attualmente manca”.

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