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Interviste

Gerber: “Iniziai a giocare solo a 12 anni ed ho fatto tanta gavetta, volevo imitare i più forti”

L’ex portiere di Langnau e Kloten ha vissuto una carriera il cui apice è stata la Stanley Cup vinta con Carolina: “Oggi sono attivo nel settore giovanile dei Tigers, ma alla fama preferisco una bella passeggiata nel bosco”

(PostFinance/PPR/Nick Soland)

La sua è stata una delle carriere decisamente più particolari nella storia del nostro hockey. Partito da lontanissimo, con un debutto nel massimo campionato alla “veneranda” età di 24 anni dopo tanta gavetta, Martin Gerber in pochi anni è riuscito a diventare milionario e ad alzare la mitica Stanley Cup. Una trama degna di un film per uno dei portieri elvetici più rappresentativi e leggendari di sempre. In pensione da ormai sette anni, il 49enne bernese è tornato nel suo amato Emmental.

“Tinu” attualmente sei attivo nella sezione giovanile del Langnau, in particolar modo alleni la squadra U15 e ti occupi pure della formazione degli U13. I ragazzi ti conoscono ancora in qualità di portiere?
“No, sono troppi giovani, o se preferisci sono io che ormai sono troppo vecchio. Mi conoscono magari di fama, di nome per così dire, ma nessuno di loro ha vissuto i miei tempi. Il tempo passa velocemente”.

Oltre ad allenare quali sono i tuoi compiti all’interno della struttura?
“Mi occupo un po’ di organizzare il tutto, preparare dei piani, affinare la formazione e altre cose ancora. È importante aiutare i giovanissimi a compiere i primi passi nel mondo dell’hockey”.

Come mai non alleni i portieri?
“Una volta ricoprivo questa funzione, ma ho deciso di lasciarla qualche anno fa. A volte però mi capita di dare ancora una mano in questo ambito. Preferisco allenare l’intera squadra, mi piace di più questo tipo di attività”.

Cosa fai a livello lavorativo oltre a questo impegno hockeistico?
“In inverno, all’incirca per tre mesi, sono coinvolto nella gestione della pista di ghiaccio all’aperto qui a Langnau. Il concetto è semplice, permettere a tutti di poter pattinare, è una sorta di luogo d’incontro e l’entrata è gratuita. I bambini possono noleggiare gratuitamente anche i pattini, mentre gli adulti pagano 5 franchi. Accanto all’infrastruttura c’è uno chalet in legno, dove si possono gustare diverse specialità, come ad esempio la fondue. Siamo in diversi amici ad occuparci di questo progetto e siamo pure grati alle tante ditte locali che ci danno un bell’aiuto a livello di sponsoring. Inoltre con qualche amico ho fondato una ditta che si chiama “Emmenland”. Ci occupiamo di progetti immobiliari a sfondo regionale, in particolar modo nel recupero e risanamento di vecchie infrastrutture, come ad esempio la casa “Young Tigers”, dove da qualche anno alloggiano i giovani giocatori del Langnau provenienti da fuori”.

Torniamo alla tua gioventù, eri l’ultimo di sei fratelli. Come fu la tua adolescenza in una famiglia così grande?
“Fu molto bella, ho goduto di tanta libertà. I miei genitori avevano tanto da fare lavorativamente ed essendo appunto l’ultimo di sei erano anche per così dire un po’ stufi e stanchi. Quindi non mi controllavano molto e io mi divertivo assai in giro per le campagne”.

Klaus Zaugg mi ha raccontato che scegliesti di fare il portiere a causa delle vostre finanze non propriamente idilliache. È vero?
“Sì, è proprio così. La mia famiglia non aveva una situazione finanziaria cosi rosea. Un giocatore di movimento doveva pagarsi l’equipaggiamento, mentre al portiere il club lo dava gratuitamente. Non fu però l’unico motivo, c’erano anche pochi portieri e poi io non ero bravo a pattinare. D’altronde iniziai a giocare solamente a 12 anni”.

Praticamente ti sei formato da solo, non hai mai avuto a disposizione chissà che allenatore dei portieri o altro ancora…
“Una volta al mese c’era un allenamento con un preparatore di portieri, ma ai tempi era un po’ per tutti così. Non era come al giorno d’oggi, con tutti i club che mettono a disposizione un coach agli estremi difensori. Io cercavo di osservare molto i portieri affermati dell’epoca, provavo a copiarli e tentavo di sperimentare un po’ tutto”.

La tua carriera è stata incredibile. A 19 anni giocavi ancora in Seconda Lega nel Signau, a 20 anni eri in Prima Lega nel Thun. Hai debuttato in NLA a Langnau solamente a 24 anni. Un simile percorso al giorno d’oggi è ancora possibile?
“Lo è tuttora, ma è chiaro che è sempre più difficile. Ciò vale anche per gli inizi. Io come detto in precedenza cominciai solo a 12 anni. Al giorno d’oggi un giovane che vuole iniziare a giocare a hockey a questa età se lo può praticamente scordare. Non trova un posto in un club ambizioso. Le società sono già tutte piene con ragazzini che hanno iniziato molto prima”.

Si può dire che forse la storia di Connor Hughes ricalca un po’ la tua?
“Direi di sì, perlomeno per quanto concerne il percorso da adulto. Anche lui ha fatto tanta strada e gavetta. Ora a Montréal si ritrova con una bella chance. Non posso però giudicare il suo percorso da ragazzino, non conoscendolo”.

A quale età hai iniziato a guadagnare dignitosamente con l’hockey? Presumo a 24 anni con l’approdo in LNA…
“Esatto, è così”.

Certo che le cifre non saranno state esorbitanti hockeisticamente parlando. Cinque cifre? Al massimo centomila franchi?
“Hai stimato bene, le somme erano quelle”.

(Carolina Hurricanes)

Nello spazio di poco, qualche anno più tardi, sei diventato un milionario della NHL. Ad esempio a Ottava firmasti un contratto triennale da oltre 11 milioni di dollari. È pazzesco. Non è stato difficile gestire questa improvvisa ricchezza?
“Bisogna stare attenti, quello sì. Io ero già relativamente in là con l’età, non avevo 20 anni. Più avanzi con l’età e più sei capace di pianificare ed essere ragionevole nel gestire il capitale. Chiaramente si vive una sola volta, a volte bisogna concedersi qualcosa se si ha la possibilità”.

Tu comunque sei sempre stato uno umile, ad esempio le automobili costose non sono mai state una tua fissa…
“Per me un veicolo deve solamente viaggiare e basta. Con i miei soldi preferisco andare qualche volta fuori a mangiare qualcosa di buono oppure trascorrere delle belle vacanze”.

Hai giocato in tanti posti come in Svezia, dove vincesti anche un titolo con il Färjestad, in Russia e ovviamente in diversi angoli oltreoceano. Quale ti è rimasto maggiormente nel cuore?
“Direi Färjestad, rispettivamente Karlstad. È lì dove riuscii a impormi per la prima volta. Anche il luogo mi piaceva molto, assomiglia un po’all’Emmental, c’è tanto verde, molta acqua e la gente è gentilissima. Pure Mosca è molto bella, magari non per viverci, ma ha il suo fascino”.

Andiamo ancora più concretamente sulla tua carriera. Dapprima una finale persa con Anaheim nel 2003, poi la conquista della Stanley Cup con Carolina nel 2006. Che effetto ti fece portare il mitico trofeo a Langnau?
“Fu un’esperienza veramente cool, enorme. Ci furono tanti articoli, l’evento ebbe molta risonanza, ricevetti molte richieste d’interviste, fu un momento speciale e bellissimo da condividere con la popolazione. Aggiungo pure il pensiero su chi l’aveva avuta in precedenza nelle sue mani. Grandi campioni, e ora toccava a me”.

(PostFinance/KEYSTONE/Patrick B. Kraemer)

La finale mondiale del 2013 con la Nazionale resta un highlight della tua carriera o una delusione?
“È stata tra i momenti più belli della mia carriera, un’esperienza magnifica. Finalmente eravamo al ballo delle grandi e non eliminati nei quarti di finale o ancora prima. Chiaramente la sconfitta all’atto conclusivo mi dà ancora i nervi, non andò bene, non era mica quello l’obiettivo. Volevamo vincere”.

Da quando ti sei ritirato hai ancora indossato maschera e gambali?
“L’ultima volta fu nel 2021, quando ci fu la partita di addio alla IIHF in onore di René Fasel a San Pietroburgo. Un’eccezione. Non ho più gli stimoli e non mi piace più stare tra i pali, preferisco divertirmi in qualità di giocatore di movimento”.

Il Langnau lo segui regolarmente?
“Sì. Con un gruppo di amici abbiamo fondato un piccolo club di sostenitori, abbiamo una piccola loge dove gustarci le partite”.

A proposito di Langnau, un altro tuo compaesano sta provando a seguire le tue orme, ovvero Schmid. Che rapporto hai con Akira?
“La scorsa estate abbiamo avuto qualche contatto e ci siamo incontrati, ma altrimenti non ci frequentiamo molto, anche perché la differenza di età è notevole”.

Non ti si vede praticamente più in pubblico. Diversi tuoi ex colleghi fanno ad esempio gli opinionisti e commentano, mentre tu sei sparito. Non ti piace la luce della ribalta o non hai mai ricevuto offerte a tal proposito?
“Appena smisi di giocare ricevetti qualche richiesta, ma non è il mio mondo, non mi piace fare cose del genere. Non sono l’esperto nato. Lo lascio fare volentieri a chi vuole esserlo rispettivamente farlo, a chi è capace insomma”.

Meglio quindi i boschi. Da quel che so ne hai pure comprato uno…
“Era da tempo che ne cercavo uno e finalmente, per caso, ne ho scoperto uno che era in vendita. Già da bimbo vi trascorrevo molto tempo, mio papà aveva un’attività di legname e lo aiutavo molto. Il bosco è un luogo speciale, lo vedi crescere, puoi osservare il tempo che trascorre, l’evoluzione. Non puoi influenzare il suo sviluppo. Vado volentieri a passeggiare con il cane e con i figli. È anche il posto ideale per riposarsi e rilassarsi, ricaricare le batterie. Sì, i boschi li adoro veramente”.

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