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Interviste

Forsberg: “Nel 1993 ero vicino alla firma con il Lugano, ora a Zugo ho trovato la tranquillità”

Il leggendario svedese: “Slettvoll mi voleva in bianconero e passai una settimana in Ticino, ma la mia squadra del cuore era il MoDo. La finta alle Olimpiadi del 1994? Semplice, arrivato in finale avevo finito il mio repertorio”

(EVZ)

È stato uno dei giocatori più forti, spettacolari e dominanti dell’intera storia dell’hockey. La sua bacheca parla da sola. Fare un elenco di tutti i suoi trionfi sarebbe troppo lungo. Ci limitiamo dunque ad elencarne alcuni: due Stanley Cup con Colorado, due ori olimpici e due ori mondiali con la Svezia, oltre all’onore di essere il portabandiera della Svezia alle Olimpiadi 2010.

Stiamo parlando di Peter Forsberg, vera icona del nostro amato sport. Con i russi Larionov e Fetisov è inoltre l’unico membro dei “Double Triple Gold Club”, ovvero è stato capace di vincere appunto per almeno due volte la Stanley, l’oro olimpico e quello mondiale. Fonte d’ispirazione, modello da imitare per tantissimi, da qualche anno il 50enne risiede in Svizzera e abbiamo avuto l’occasione di poterci intrattenere con lui.

Peter come stai, e come stai trascorrendo la tua estate?
“Bene, sono stato a Marbella in vacanza e attualmente mi trovo in Svezia. È mio costume trascorrere sempre l’estate qui, tornerò a Zugo alla fine di agosto”.

Insomma, anche se ora abiti in Svizzera, la Svezia resta pur sempre il tuo paese?
“Certo, anche se lasciai la nazione già a 21 anni. Le mie origini sono lì e la Svezia sarà sempre un po’ la mia base. I miei genitori, mio fratello e i miei amici di gioventù vi abitano e inoltre il volo dalla Svizzera dura veramente poco, dunque è davvero molto pratico”.

Da sei anni abiti a Buonas, nei pressi di Zugo, come mai questa scelta?
“La mia ex fidanzata lavorava nel mondo della moda per un marchio di scarpe elvetico, e quindi c’era già un piccolo legame. Noi abitavamo in un appartamento in centro a Stoccolma. Ci dicemmo che saremmo emigrati oppure avremmo comprato una residenza estiva all’estero. Io cercavo un posto tranquillo, dove poter comunque dare ai miei figli una possibilità di giocare a hockey. Durante un torneo benefico di golf in Svizzera incontrai Dani Giger (ex giocatore e ora agente ndr). Mi spiegò un po’ tutti i vantaggi e le peculiarità che offre la regione di Zugo e quindi optammo per il trasferimento in questa zona. Mi piace molto la città di Zugo e più in generale il cantone. E poi l’hockey qui domina sul resto”.

Inoltre presumo che a Zugo nessuno ti riconosca per strada o nei ristoranti?
“È proprio così, vivo praticamente nell’anonimato e per me è una cosa bella, nessuno mi ferma. Solamente se esce il mio nome allora alcuni sanno chi sono rispettivamente si ricordano del giocatore di hockey”.

Sei stato un centro fantastico, dotato di capacità incredibili. Già da bambino eri il migliore e si capiva che saresti diventato una superstar mondiale?
“Non veramente. Ero molto piccolo e gracile da bambino. Avevo sì un buon talento, pattinavo bene e sapevo leggere il gioco, ma non ero nulla di eccezionale. Ero dunque bravo, ma non certo fortissimo. Prova ne è che nelle giovanili giocavo sempre con i miei coetanei, non saltavo mai le categorie, non mi ritrovai mai a sfidare ragazzi più grandi di me. L’hockey per il sottoscritto era semplicemente un divertimento, nulla più. Giocavo pure a calcio. Dai 16 ai 20 anni però andò tutto velocemente. Fino ai 16 anni mangiavo poco, poi iniziai a cibarmi bene e feci un grande recupero a livello fisico. Da lì comincio in sostanza la mia carriera”.

E che carriera, c’è l’imbarazzo della scelta su cosa discutere. Proviamo a ripercorrerla un pochino. È vero che prima di andare in NHL fosti vicino alla firma con il Lugano?
“Esatto, correva l’anno 1993. L’allenatore del Lugano di qui tempi, John Slettvoll, conosceva bene mio papà Kent e mi voleva con sé a Lugano. Trascorremmo diversi giorni in Ticino io e mio padre. Sicuramente sarebbe stata una bella esperienza, ma io volevo restare a casa mia e giocare nel MoDo. Avrei avuto troppa malinconia… Ma intendiamoci, nulla contro Lugano, è un bellissimo posto per giocare a hockey, semplicemente ero ancora troppo giovane e non ero pronto a staccarmi dalle mie radici”.

Continuasti dunque nel MoDo, la squadra della tua città e il tuo più grande amore hockeistico…
“Sì, il MoDo è semplicemente la mia squadra. Vi sono sono cresciuto e attualmente il mio miglior amico è il GM del club. Tutti i miei amici e familiari sono tifosissimi del MoDo”.

Un anno dopo il mancato trasferimento a Lugano facesti il debutto in NHL nei leggendari Québec Nordiques. La franchigia fu poi trasferita già la stagione susseguente a Colorado, quale fu la tua reazione?
“Non fu un’enorme sorpresa, le voci circolavano già da un po’. Io arrivai a Québec perché rientrai nel famoso scambio concernente Eric Lindros. Quest’ultimo si rifiutò in effetti di giocare con i Nordiques. Québec è una bella città, c’era un’ottima base di tifosi, ma era semplicemente troppo piccola per la NHL e per la franchigia era ormai diventato impossibile trattenere i migliori giocatori del team finanziarmente parlando. Da un lato ci fu un po’ di tristezza nel lasciare il Québec, dall’altro però ci fu anche molta eccitazione per il trasferimento in Colorado, oltretutto in una grande città come Denver, anch’essa magnifica e con maggiori possibilità economiche. Sapevamo che con questa dislocazione l’ossatura della squadra sarebbe potuta essere mantenuta”.

E con gli Avalanche facesti sfracelli vincendo anche due Stanley Cup nel 1996 e nel 2001. Sono i tuoi due maggiori trionfi, oppure valgono di più gli ori olimpici con la Svezia?
“(Forsberg ride). È una domanda difficile, onestamente non saprei dire quale sia il mio successo più importante. Ci sarebbe anche il Mondiale vinto proprio in Svizzera nel 1998 con mio papà nel ruolo di allenatore, oppure il mio primo oro mondiale conquistato a 18 anni. Non ho una classifica in questo senso, non l’ho mai stilata e non la farò mai. Ogni vittoria ha il suo valore”.

Poco dopo aver vinto la tua seconda Stanley Cup, cominciarono i problemi cronici al piede destro…
“Sì, dal nulla in sostanza. In totale mi feci operare 10 volte, ma il problema non è mai stato risolto. Consultai tantissimi dottori, diversi specialisti, provai tanti pattini, me li feci fare anche su misura, ma nulla mi aiutò. Era una sorta di mistero. Persino lo spostamento del calcagno tramite un intervento non diede frutti. Da quando ebbi i dolori al piede non fui più lo stesso, avevo molta difficoltà nel mantenere l’equilibrio quando pattinavo”.

Questo problema mise poi anticipatamente fine alla tua carriera condita da 1’056 punti in 859 partite di NHL. Provi rabbia?
“Al momento ci fu un sentimento di tristezza, ma avevo davvero tentato di tutto. Certo, non presi mai dei rischi, quello no. Non volevo sottopormi a qualche operazione sperimentale e mettere in pericolo la mia salute per il resto della vita, come ad esempio perdere in modo permanente l’uso della gamba oppure il piede. Come detto fui chiaramente triste, questo problema arrivò nel momento migliore della mia carriera. Senza questo malanno avrei avuto davanti ancora circa 8 anni ai massimi livelli, avrei potuto finire alla grande indossando la maglia del mio MoDo, ma non mi lamento e sono contento di quanto ho raggiunto. Ci sono giocatori che devono interrompere l’attività a causa di infortuni magari già a 22 anni. Io perlomeno giunsi fino ai 30 senza malanni”.

Ora hai ancora problemi al piede?
“Al di fuori dell’hockey no. Posso tranquillamente camminare, correre, giocare a tennis e svolgere qualsiasi tipo di attività fisica. Solamente quando calzo i pattini il piede davvero non va, non ho l’equilibrio. A volte gioco però ancora con i veterani dello Zugo, cerco di fare bene, ma è solamente per puro divertimento”.

Nella tua carriera hai guadagnato palate di milioni di dollari. È facile gestirli? Non ci sono state magari persone che hanno provato ad approfittarsene?
“Specialmente all’inizio non à stato semplice, anche perché non ero sempre così attento ed è capitato di aver fatto magari qualche errorino. Con il passare degli anni sono diventato più accorto e tutto sommato credo di avere gestito bene il tutto, anche la dopo carriera”.

Già. A livello professionale sei ora proprietario di alcune ditte, tra cui co-proprietario con Dani Giger fra gli altri dell’agenzia 4Sports…
“È bello e piacevole avere delle occupazioni. Mi piace alzarmi al mattino sapendo di poter discutere con i miei collaboratori, valutare i compiti e scambiarsi opinioni. Mi rende felice. Quando smisi di giocare tornai pure a frequentare la scuola. Mi annoierei se trascorressi le giornate solamente al bar o in qualche altro posto a bere vino”.

Parliamo del futuro. Qual è il sogno che devi ancora realizzare?
“Fammi riflettere… Ti direi che di veri sogni non ne ho attualmente, vedremo più in là. Io cerco semplicemente di trascorrere tanto tempo con i miei figli di 12, 10 e 8 anni e aiutarli a scegliere il loro percorso scolastico e sportivo. Un altro aspetto a cui tengo particolarmente è appunto svolgere bene le mie attività in ambito lavorativo. Mi piacerebbe se l’anno prossimo la Svezia conquistasse il mondiale casalingo e se il MoDo e lo Zugo vincessero i rispettivi campionati (Forsberg ride ndr). Più seriamente, il mondo attuale non sempre è un bel posto, quindi la mia vera speranza è che ci siano meno guerre e più pace”.

Peter ti ringraziamo per averci dedicato un po’ del tuo tempo. Non possiamo però lasciarti andare senza chiederti di quel mitico rigore nella finale olimpica del 1994 a Lillehammer vinta contro il Canada. Quella mossa folle, specialmente pensando alla posta in palio, diventò poi la “Forsberg Move”. L’avevi in mente o fu spontanea?
“(Forsberg per un’ultima volta ride di gusto ndr). Sapevo già che avrei tentato quella finta. Lo sai perché? In precedenza nell’intero torneo avevo già tirato parecchi rigori e non avevo più altre mosse nel mio campionario al di fuori di questa. Ecco il motivo. Fui fortunato, il margine di successo e di riuscita è sempre molto ristretto, è questione di millimetri. Mi andò bene”.

Un rigore che fu poi celebrato in patria, con la posta svedese che creò un francobollo raffigurante Forsberg durante la realizzazione del rigore. Probabilmente l’esecuzione più famosa e iconica nella storia dell’hockey. Per gesto tecnico e importanza del contesto paragonabile forse alla rete dell’olandese Marco Van Basten contro la Russia nella finale dell’Europeo del 1988 di calcio. Una di quelle scene che non ci si stufa mai di rivedere e che più si guarda e maggiormente si apprezza. Gesti da fuoriclasse insomma, come l’immenso Peter Forsberg.

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