LUGANO – Qualcuno ha parlato di “stagione da dimenticare”. In questo caso la ragione di chi lo ha affermato è tale solo in parte, perché dopo tutto quello che è successo, dopo un attaccamento che in fondo è stato sorprendente – senza raggiungere ovviamente livelli impensabili – e dopo alcune “sviolinate” poco eleganti nei loro confronti, gli unici ad avere il diritto di strappare questa pagina dal libro sono i tifosi.
E non sarà però comprensibilmente facile nemmeno per loro riporre altra credibilità nella società, nei giocatori e in tutto quello che gli si vuole promettere, perché la ferita stavolta è di quelle laceranti, apertasi con la morte di Geo Mantegazza e resa ancora più grave da tutto il proseguo della terribile annata.
“Le stagioni storte capitano a chiunque”. Niente di più vero. Ma quello che differenzia “chiunque” da chi invece vuole veramente dimostrare di avere coraggio di metterci faccia e sforzi – non solo quelli di comodo – è la maniera con cui si affrontano certi problemi.
La differenza la fa anche la velocità con cui si capisce che ci sono dei problemi, o ancora la differenza la fa chi sa ammettere che ci sono delle prime avvisaglie di scossoni e si prende la responsabilità di affrontarli con le giuste tempistiche (il famoso “prima di ieri”) o che sa delegare le persone preposte a farlo senza alcuna ingerenza o senza aspettare che il vento porti via la polvere dal davanzale.
I problemi del Lugano hanno un certo ordine temporale, il cui inizio con piccole scintille lo si può appuntare sul calendario in un periodo che va dal momento della discussa partenza di Calle Andersson seguita dagli infortuni di Joren Van Pottelberghe prima e di Niklas Schlegel poi. Da lì via, dopo un inizio promettente, addirittura entusiasmante per un paio di settimane, le corde dell’impianto bianconero cominciano ad annodarsi.
L’assenza dei due portieri titolari svizzeri porta Hnat Domenichelli ad ingaggiare Adam Huska, fuori condizione ma non proprio un portiere scarso. Il problema è che a quel punto Luca Gianinazzi ha a che fare con altre gatte da pelare, ci sono altri giocatori in infermeria e il coach ticinese non se la sente di buttare nella mischia lo slovacco – in effetti partito male ma che in fondo ha solo bisogno di giocare – forza uno Schlegel appena rientrato ma non pronto, si impunta su scelte tattiche che non funzionano più e che non fanno più l’unanimità nello spogliatoio, peraltro comprovate anche da risultati che sono in caduta libera. Il giovane coach fa da parafulmine unico, le sconfitte si susseguono e le prime crepe escono dallo spogliatoio.
“C’è qualcuno che non segue l’allenatore”, la frase che ha fatto tremare tutto e che esce dalla bocca di capitan Calvin Thürkauf, anche lui appena rientrato da un infortunio che ha sicuramente pesato sul momento.
E qui iniziano altri problemi, quelli comunicativi di un club che pensa di liquidare la cosa con dei presunti problemi di lingua del numero 97, ma intanto il fuoco avanza, e tutti stanno in silenzio, mettendo quella giustificazione come titolo d’apertura del lungo capitolo di una comunicazione deleteria che si protrarrà fino a questi giorni.
E si è anche andati avanti a tentativi, Gianinazzi è nel pallone, ha la squadra decimata e quando finalmente ci si decide ad andare ad ingaggiare un rinforzo straniero, l’esperto Justin Schultz ci mette settimane a mettersi a disposizione della squadra, che nel frattempo ha già l’acqua alla gola, situazione grottesca e sottovalutata.
È qui che ci si aspetta che qualcuno prenda in mano la situazione, anzi, che l’abbia già fatto, perché non è possibile che ai piani alti i malumori dello spogliatoio non siano arrivati, ed è in quel momento che qualcuno deve prendere sotto braccio Gianinazzi e chiedersi se abbia bisogno di supporto, di affrontare assieme una situazione che il coach non ha mai vissuto tra i professionisti, cercare di proteggerlo ma anche magari di correggerlo, invece è sempre lui fuori a fare da parafulmine, dentro e fuori lo spogliatoio.
L’unico in quel momento deciso a fare qualcosa sembra essere Hnat Domenichelli, con quello scudo messo davanti alla porta dopo una sconfitta con il Friborgo: “Se ci sono dei giocatori che non vogliono fare parte di questo progetto potremmo prendere provvedimenti, perché Gianinazzi rimane e voglio cambiare mentalità”.
Bum. La dichiarazione è ad effetto, stranamente sincera quando ormai la Cornèr Arena è nel caos completo con i tifosi alle prime decise contestazioni, ma il seguito di quella dichiarazione sarà il nulla, il silenzio, con l’impressione che il direttore sportivo (forse già un po’ delegittimato dai tempi del fallimento con McSorley) sia stato costretto a prendersi da solo le responsabilità di quelle dichiarazioni e che da quel momento abbia di fatto smesso informalmente di essere il direttore sportivo del Lugano.
E intanto passano le settimane, Justin Schultz da un momento all’altro annuncia il ritiro quando stava dando il suo discreto contributo, nessuno sa le ragioni dietro a questo, nessuno lo comunica, ma è un fulmine a ciel sereno e quel che si vocifera sulla sua partenza non è certo confortante.
Poi arriva Antti Törmänen, il Senior Advisor (in parole povere, consigliere) che si mette a fianco dello staff e per qualche partita sembra arrivare qualche risultato, ma è un’illusione, Luca Gianinazzi e il suo staff – contemporaneamente a Hnat Domenichelli – vengono sollevati dal loro incarico a gennaio, e il fatto che si sarebbe potuto evitare il tutto intervenendo quando era necessario rimane comunque nelle opinioni di molti.
Secondo capitolo della deleteria comunicazione alla conferenza stampa: “I giocatori sono troppo amici”, “Appena mancano i risultati i tifosi borbottano”. Due grotteschi boomerang che non fanno altro che schierare altra parte dei tifosi contro la maniera di fare della dirigenza e che mostrano ancora le fragilità e le mancanze nel proporsi verso l’esterno e i media da parte di una società che inciampa troppo spesso in un provincialismo comunicativo inconcepibile per un club in vista come quello bianconero.
La squadra nel frattempo e distrutta moralmente, non ha alcun attaccamento a una causa comune, alcuni giocatori sono sì delle delusioni ma altri sono improponibili – le responsabilità dei giocatori stessi sull’andamento della stagione sono grandi, non dimentichiamolo – e la scossa comunque forte data dall’arrivo di Uwe Krupp si spegne presto, fino a quelle gravissime sconfitte contro avversari diretti come lo era ai tempi il Langnau e il Ginevra – due volte – che condannano la squadra ai playout, dopo aver toccato la peggior posizione di sempre in classifica.
Capitolo numero tre della saga sulla comunicazione: “Forse abbiamo preso giocatori sbagliati” afferma alla RSI la presidente Vicky Mantegazza dopo la seconda sconfitta (fatale) a Les Vernets. Un’uscita a caldo figlia della delusione, certo, ma gettare quel risultato sulle spalle di una manciata di giocatori è sembrato quantomeno irrispettoso e fuori tempo – certe analisi vanno fatte con i tempi giusti – ma soprattutto quei giocatori “sbagliati” da lì via sarebbero ancora serviti al Lugano, e con i tempi tecnologici che corrono è pura utopia pensare che quelle parole non siano arrivate in uno spogliatoio già sul chi vive facendo altri danni e minando di nuovo la sua stabilità.
Difatti l’entrata in materia con l’Ajoie è pessima, sotto per 0-2 e a meno di un minuto dallo 0-3, il Lugano si rialza con un colpo di fortuna e la caparbietà di Giovanni Morini, ma il compito assolto alla fine dai bianconeri era il minimo sindacale del momento, oltretutto contro una squadra priva di Jerry Turkulainen e Julius Nättinen, due tra i migliori scorer della lega, questo non va dimenticato.
Krupp (che di sicuro non sarà il coach della prossima stagione) in questa serie ha almeno avuto il merito – nei suoi limiti di tattico – di risollevare un Huska rivelatosi determinante, dopo aver trovato la sua “formazione tipo” che escludeva Michael Joly, ma è molto più che probabile che senza quei folli trenta secondi finali di Gara 3, oggi il Lugano starebbe preparando la sfida contro i vallesani. Famosa ancora oggi la frase “abbiamo lavorato sul loro power play”, prima di incassare tre reti su tre box play in Gara 1 dai ragazzi di Greg Ireland.
In tutto questo forse un aiuto è arrivato anche da un Janick Steinmann che pure non ancora ufficialmente in carica, dopo Gara 2 si è preso la responsabilità di fare da scudo alla squadra (come aveva fatto Domenichelli) e forse qualcosa in termini di tranquillità lo ha portato anche lui.
Ma tra il licenziamento di Domenichelli e la fine della stagione, chi ha operato come direttore sportivo? Chi si è occupato di contratti in scadenza e di progettare un futuro non solo incerto ma molto vicino? L’augurio è che Steinmann possa veramente ricoprire un ruolo centrale e lavorare in autonomia per una strategia finalmente stabile nel tempo e non dipendente da capricci o cotte improvvise da chi gli sta sopra, in una parola: indipendenza.
Gli si dovrà dare responsabilità totali sul piano sportivo e permettergli di diventare anche quella figura di riferimento che tra un Domenichelli prima forse un po’ demotivato e poi licenziato è mancata in tutti questi mesi (senza dimenticare un CEO in silenzio da gennaio).
L’ex DS del Rapperswil dovrà anche abituarsi a un ambiente mediatico che è ben diverso dalle rive del lago di Zurigo su sponda sangallese, qui tutti sanno tutto di tutti, la pressione è forte e bisognerà misurare le parole nelle numerose interviste che rilascerà.
Al momento di oggi, l’apparato societario luganese appare ancora un po’ anacronistico, vedere le figure presidenziali e del top manager coinvolte nella gestione sportiva sembra quantomeno irragionevole nella divisione e distribuzione dei ruoli, perché occorre che dall’alto in una struttura piramidale si abbia finalmente il coraggio di delegare i compiti nella maniera più totale alle persone definite, anche da parte di chi come Vicky Mantegazza è sicuramente la persona che tiene ai colori bianconeri più di chiunque altro e vuole fare solo il bene del club.
Occorrerà un’analisi dei ruoli in ogni angolo degli uffici, sportivi (tra cui singoli giocatori, preparazione fisica e portieri) e anche in quelli di una comunicazione social che in due occasioni ha toccato il vergognoso, dal “messaggio” rivolto a Justin Schultz messo sul sito del club poi rimosso, al video sul canale ufficiale di Tik Tok che prendeva in giro l’Ajoie dopo la vittoria in Gara 6, uno scivolone di ineleganza che esce non solo dai canoni comunicativi professionali (per festeggiare cosa poi?) ma anche da quelli sportivi nel rispetto di un avversario che ha lottato con tutte le sue forze e ha messo in grande difficoltà i bianconeri.
Non sarà facile ripartire per il Lugano, sul piano sportivo di rivoluzioni non è certo facile parlare, Steinmann avrà margine di manovra tra gli stranieri, ma se tutti gli altri svizzeri presenti in squadra vorranno andare avanti (diversi hanno molto da farsi perdonare) la struttura generale non è decisamente da tredicesimo posto, e rimane una rosa competitiva – grosso nodo da sciogliere alla voce portieri – e quanto fa male vedere sprecata una stagione straordinaria come quella di Luca Fazzini in un’annata del genere.
Per far funzionare la macchina bianconera ad ogni modo servirà attenzione su ogni dettaglio, credibilità, trasparenza verso l’esterno e i tifosi, e capacità di leggere i segnali di qualsiasi problema in arrivo. La campagna abbonamenti? Bel problema per chi dovrà studiarla attentamente per recuperare quel pubblico andato sempre più verso una disaffezione, salvo riavvicinarsi per perlomeno spingere la squadra nelle ultime partite dei playout, quasi in una sorta di “finiamola insieme” tanto c’era la voglia di andare in vacanza.
No, non dimenticate questa stagione, tutto quello che è andato storto e si è gestito male va usato per imparare, per recuperare credibilità e levarsi di dosso quel mantello di una certa presuntuosità di cui il Lugano si è coperto per mesi, fino a negare persino la conferenza stampa di fine stagione, toccando un fondo che diventa perlomeno – poco esaltante – l’unica base da cui ripartire.
L’ultimo (per ora) capitolo di quella che per molti è stata un’agonia infinita.
