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Ambrì Piotta

Bürgler: “Per ora non rifletto sui miei traguardi, ma il prossimo anno penso sarà l’ultimo”

Venerdì la millesima partita: “Sin da piccolo mi è sempre piaciuto tirare, e questa è diventata una mia caratteristica. Del Curto? Ha avuto un grande influsso, anche a livello personale, ma ho potuto imparare da tutti i miei allenatori”

AMBRÌ – Venerdì sera Dario Bürgler entrerà nel club esclusivo e ristretto riservato ai giocatori con alle spalle almeno 1’000 partite nella massima lega. Una grande pietra miliare nella lunga e fortunata carriera del nativo di Brunnen.

Uno degli atleti del nostro hockey più rispettati e amati, con i suoi modi da grande gentiluomo, una persona con i piedi per terra e un esempio per tutti. Con il 37enne attaccante dell’Ambrì, fresco di compleanno nella giornata di ieri, abbiamo ripercorso il suo cammino che lo ha portato sin qui.

Dario, sei il 15esimo giocatore che taglia il traguardo delle 1’000 partite. Complimenti! Che effetto ti fa?
“Onestamente non mi fa chissà che effetto, non mi sono mai fatto tanti pensieri in merito a questo. Certo, disputare il millesimo match sarà una gioia, arriveranno diversi familiari e amici a vedere la partita, ma in definitiva questo è uno di quei traguardi a cui magari dai valore una volta conclusa la carriera. È vero, per contro, che in questi giorni in diversi m’interpellano a tal proposito”.

Partiamo dall’inizio. Hai cominciato a muovere i primi passi sul ghiaccio a Seewen e poi sei andato nelle giovanili dello Zugo. Si è visto subito che avevi particolarmente talento?
“Sì, un certo talento si notava, specialmente a Seewen. Il club è piccolo e la concorrenza era minore. A Zugo in seguito mi sono accorto in fretta che c’erano tanti altri ragazzi che erano bravi almeno quanto me”.

(MySports)

Il tuo tiro è diventato un po’ il tuo marchio di fabbrica. Ci hai lavorato particolarmente durante la tua carriera o è un dono naturale?
“Credo di averci lavorato, ma non di proposito. Mi è sempre piaciuto tirare, sia sul ghiaccio che contro il muro. Ho quindi sempre tirato molto. Davanti a casa i miei genitori avevano inoltre installato un impianto di tiro e dunque io mi esercitavo molto e mi divertivo un sacco. Insomma, non era un allenamento specifico improntato a migliorare, era più che altro perché mi dava gioia e mi divertivo”.

Dopo i debutti ai massimi livelli nello Zugo sposasti la causa del Davos. Fu la presenza di Arno del Curto il fattore decisivo?
“Assolutamente sì. Diciamo che il contatto lo allacciò il mio agente Dani Giger, senza di lui questo non sarebbe accaduto. Ero giovane, ci è voluto un po’ di coraggio da parte mia e un po’ di lavoro di convincimento da parte di Del Curto per fare in modo che il trasferimento andasse in porto”.

Si può dire che Del Curto sia stato l’allenatore più importante della tua carriera?
“Direi proprio di sì. Erano anche i miei primi anni da professionista. Arno mi ha formato, sono rimasto ben sette anni alla sua corte, un periodo lungo all’interno di una carriera. Lui ha così avuto un grande influsso su di me, sia hockeisticamente che a livello di personalità. Devo però dire che anche prima, già nelle giovanili, e dopo, ho avuto altri ottimi allenatori. Ho imparato da tutti”.

A Davos hai vinto anche i tuoi unici due titoli, nel 2009 e nel 2011. Eri giovane. Hai del rammarico per non essere più riuscito a riprovare il gusto del trionfo in un’età più adulta?
“È sicuramente un peccato. Ovviamente le mie speranze erano altre. Ho pure giocato in squadre forti, ma non è bastato a vincere nuovamente. Ci sono solamente andato vicino in una o due occasioni. Questo mostra come sia difficile andare sino in fondo. Certo che sarebbe stato indubbiamente speciale poter vincere ancora almeno un campionato”.

Sette anni nei Grigioni e poi il ritorno a Zugo nel 2014. Eri un po’ il trasferimento faro del club, le aspettative erano alte. Le cose però non andarono bene, fu forse il periodo più difficile della tua carriera. Dopo due stagioni il contratto venne addirittura sciolto. Dopo tanti anni hai trovato una spiegazione alle difficoltà incontrate nella tua casa?
“Una spiegazione non direi, più che altro ho dei pensieri. Quando io firmai a Zugo l’allenatore era Doug Shedden. Avevo discusso con lui, mi aveva spiegato quale sarebbe stato il mio ruolo e così via. Quando arrivai alla Bossard Arena, Shedden non era più in carica, il nuovo coach era Harold Kreis. Quest’ultimo aveva altre idee e uno stile differente. Inoltre, ebbi anche due infortuni gravi agli adduttori a complicare ulteriormente le cose. Mi resi pure conto di non essere così avanti come pensavo, sia come giocatore ma anche a livello mentale. Facevo fatica a entrare in un sistema di gioco diverso, mi accorsi appunto di avere ancora dei limiti. Aggiungerei infine il fatto che forse mi mettevo troppa pressione addosso. Quei due anni non sono certo stati belli sportivamente parlando, ma è il periodo in cui ho imparato a conoscere meglio la mia persona, il mio mentale e a capire come funziono”.

A 28 anni decisi di varcare il Gottardo e ti accasasti a Lugano, malgrado la barriera della lingua. Cosa ti spinse ad accettare questa sfida sportiva e privata?
“Dopo la rottura del contratto con l’EVZ la mia sola priorità era di andare in un club dove l’allenatore assolutamente mi volesse. Era importante sapere di ricevere una vera chance. Per poter veramente fornire e dimostrare qualcosa, devi prima averne l’occasione, una reale. A Lugano c’era Doug Shedden in qualità di coach. Mi aveva già ingaggiato a Zugo e mi voleva con lui anche in Ticino. Avevo un paio di altre offerte, ma optai senza indugi di firmare con il Lugano. Oltre all’aspetto sportivo mi eccitava la possibilità di poter conoscere un’altra cultura e imparare una nuova lingua. Sono contento che tutto sia andato per il verso giusto in questa lunga parentesi”.

Hai trascorso cinque stagioni nelle fila bianconere prima di approdare presso i rivali di sempre biancoblù. Non ti sei mai fatto pensieri prima di firmare ad Ambrì in merito a eventuali reazioni delle tifoserie?
“Oh sì, certamente. Io ho un grande rispetto per la storia e la tradizione hockeistica in Ticino. Mi sono fatto le mie riflessioni, ci ho pensato molto, ma a volte devi andare oltre. Decisivi sono stati gli incontri e le discussioni con Paolo Duca e Luca Cereda, davvero ottimi. Una volta parlato con loro è stata una decisione semplice da prendere. Ci tengo assolutamente a sottolineare che sono sempre stato trattato con tantissimo rispetto da tutti i tifosi ticinesi”.

Entriamo ancora un po’ più a fondo nel tuo mondo. Se le mie ricerche sono esatte, non sei mai incappato in una penalità di partita, chapeau. Da dove deriva questo tuo fairplay?
“Veramente? Nemmeno qualche penalità maggiore per bastone alto? Sai che non saprei dirti se davvero sia così, non sono sicuro di questo… Comunque io caratterialmente non sono mai stato il tipo che si buttava a testa bassa a fare certe stupidate. Da giovane giocavo praticamente sempre con ragazzi più vecchi di me, a livello fisico ero dunque inferiore a loro, idem la corporatura. Dovevo così cercare altre vie per farmi valere. Ho quindi imparato meno a usare il corpo, concentrandomi invece maggiormente su altre proprietà. Ciò mi ha permesso di progredire”.

Già da giovane davi l’impressione di essere molto maturo e tranquillo. Era veramente così?
“No fidati, all’inizio perdevo in fretta i nervi. Anche da bambino, mi agitavo subito se qualcosa non funzionava. Adesso sono migliorato, ma mi capita ancora di perdere le staffe. Di base però cerco sempre di mantenere la calma e di non mostrare la rabbia interiore. Sclerare, protestare, spaccare il bastone sono cose che a me in qualità di giocatore non portano nulla”.

È strano che tu non abbia mai ricoperto il ruolo di capitano in nessun club…
“Beh, a Davos ero giovanissimo, mentre a Zugo c’era già un capitano di lungo corso (Fabian Schnyder ndr). In quel di Lugano il capitano era Chiesa, anche se poi dopo diversi anni fu rimpiazzato da Arcobello. Io trovo una buona cosa che in Ticino il capitano sia un ticinese. Più in generale non mi sono mai fatto tanti pensieri in merito al ruolo di capitano, viene un po’ sopravvalutato da fuori. Per le dinamiche all’interno di una formazione non ha molto influsso. In fin dei conti è uguale chi sia il capitano, conta la chimica nello spogliatoio. Faccio volentieri parte del team dei capitani ad Ambrì, ma il mio ruolo all’interno della squadra sarebbe esattamente lo stesso anche senza la “A” sulla maglia”.

A mio avviso sei il miglior attaccante elvetico degli ultimi tre lustri a non aver mai disputato un Mondiale con la Nazionale. Hai giocato solo delle partite di preparazione. Come mai secondo te? Ti brucia?
“Ho potuto far parte della spedizione mondiale nel 2013 in Svezia, ma purtroppo non fui iscritto al torneo. Sarebbe stato magnifico poter scendere sul ghiaccio, ma fu comunque una bella esperienza. Io ho sempre visto tanti altri bravi giocatori, con un livello simile al mio. Da giovane a Davos ho dovuto imparare ad avere maggior fiducia in me stesso. L’allenatore mi aiutava molto in questo senso, mi supportava e ciò mi permetteva di performare al meglio. Con la Nazionale era ovviamente tutto un altro contesto. Facevo fatica, la mia fiducia veniva meno. Io giocavo bene solo quando mi sentivo a mio agio. Certo, mi sarebbe piaciuto avere più spazio e potendo tornare indietro magari farei due o tre cose diversamente, ma è andata così”.

Sei nato e cresciuto a Brunnen, la cui popolazione in sostanza si divide tra l’essere supporter dello Zugo o dell’Ambrì. Tu da bimbo da che parte stavi?
“(Dario ride di gusto ndr). Tifavo Zugo, il mio giocatore preferito, con il numero 37, era Wes Walz. Non andavo però molto a vedere le partite dei Tori, ero più spesso a guardare il Seewen in Prima Lega. Se tu da bambino giocavi nella squadra svittese, eri automaticamente più orientato verso l’EVZ, data la collaborazione a livello giovanile tra i due club”.

Tuo papà Toni vinse il mitico Lauberhorn nel 1981, lo zio Thomas fu pure un vincitore di circo bianco e un medagliato mondiale. Per me è più logico immaginare il piccolo Dario allo Stoos con gli sci ai piedi piuttosto che con un bastone da hockey alla Zingel di Seewen…
“Non ho mai pensato di diventare uno sciatore, il babbo non mi ha mai spinto in questa direzione. A volte andavo a sciare, ma non ero così bravo. Cominciai inoltre prestissimo a pattinare, mi piaceva molto di più, provavo un’immensa gioia. Le due discipline si praticano inoltre contemporaneamente, quindi bisognava scegliere tra sci e hockey. Io trascorrevo praticamente ogni momento libero sul ghiaccio di Seewen, come la maggior parte dei miei amici, ci divertivamo un sacco tutti insieme. Lo sci non è dunque mai stato un tema per me, eccezion fatta per l’après-ski”.

(MySports)

Viriamo sul privato. Tua moglie Melanie è al tuo fianco già da quando non eri ancora nessuno. Tanto merito della tua carriera immagino sia suo. Senza la sua presenza difficilmente saresti ancora attivo…
“È così, è ovvio. All’inizio a Davos non abitavamo ancora insieme. In estate io ero spesso a Zugo e in inverno lei era spesso nei Grigioni. Il suo supporto è sempre stato importantissimo, in particolare in seguito quando siamo diventati una famiglia. Il calendario, gli allenamenti… Tutto quello che ruota attorno all’hockey è inflessibile. Tocca quindi al partner adattarsi. Bisogna avere una grande volontà e questa persona deve veramente amarti per fare certi sacrifici. Sono felicissimo e grato di averla al mio fianco e di avere insieme un figlio sano e bello vispo”.

Hai citato vostro figlio. Louis ha 6 anni, ha cominciato a imitare il papà sul ghiaccio?
“Ebbene sì, è carico e pieno di entusiasmo. Gioca negli U9 dell’EVZ e ha appena disputato il suo primo torneo. Nei miei giorni liberi sono con lui in pista. È ovviamente difficile dirgli di fare qualcosa d’altro quando il papà fa esattamente la stessa cosa… (Dario ride ndr). Va bene così, è il suo desiderio, vedo che è felice. Mi piace guardare i suoi allenamenti, ha sempre il sorriso quando è sul ghiaccio. L’unica cosa che conta è il divertimento”.

Ultima tappa, il tuo futuro. Hai rinnovato per la prossima stagione. È già chiaro che sarà l’ultima, oppure non escludi di continuare?
“Non lo escludo, mai dire mai, ma la chance di andare oltre al 2026 è veramente molto esigua. Nella mia testa c’è già il pensiero che sarà l’ultima stagione. Non bisogna mai sottovalutare il cambiamento quando si smette di giocare. Per l’intera famiglia, non solo per me. Ci saranno parecchi mutamenti e tutto è più semplice se si pianifica relativamente in anticipo. Ma adesso non è decisamente il momento di pensarci troppo, siamo nel pieno della stagione, la cosa più importante è la squadra”.

Cosa farai una volta smesso di fare gol? Nei corridoi della Gottardo Arena si mormora che tu sia un grande cuoco…
“(Dario ride di gusto ndr). E mi piacerebbe avere un ristorante, ma preferirei limitarmi a mangiare e non essere in cucina. Scherzi a parte, vorrei rimanere legato al mondo dello sport, non necessariamente però all’hockey. Ora come ora non posso però affermare che farò un lavoro in quel senso. Ho qualche idea, tutte ruotano attorno allo sport, questo sì, ma concretamente non lo so ancora. Posso però dirti che non mi vedo in qualità di allenatore, questo lo escludo”.

E allora vedremo cosa farà Bürgler. Intanto noi continuiamo a godercelo sul ghiaccio con la speranza di vederlo ancora a lungo gonfiare le reti. Ringraziamo di cuore Dario per la disponibilità e per averci dedicato una fetta del suo tempo libero. Un ringraziamento caloroso va anche all’HCAP per averci permesso di contattare il giocatore al di fuori delle attività del club.

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