Social Media HSHS

Interviste

Alston: “Già da giocatore volevo diventare DS, non lo considero un lavoro ma un privilegio”

L’ex attaccante si racconta: “Ai miei tempi pochi giocatori diventavano direttori sportivi, ma a Mannheim trovai l’ispirazione di Markus Kuhl. Prima dell’Europa ero il classico tipo con Big Mac e Coca Cola”

(HCD)

DAVOS – Jan Alston è sicuramente una delle figure di peso del nostro hockey da due decenni a questa parte. Dapprima in qualità di macchina da punti nelle fila degli ZSC Lions, poi in veste di direttore sportivo a Losanna e Davos. Con il 55enne siamo tornati un pochettino sul suo percorso e discusso pure della sua attività attuale.

Jan ti ringraziamo subito per la disponibilità, sappiamo che di base non ti piace molto parlare di te stesso…
“(Alston ride ndr). È un piacere figurati, certo che sei puntuale come un orologio svizzero. Non hai sgarrato di un minuto, sono le 10 in punto, come previsto”.

Non volevo mica farti aspettare, ma ora parliamo di te. Da ormai 34 anni sei in Europa, e da 23 in Svizzera. Ti saresti mai immaginato quando lasciasti il Québec di essere ancora qui dopo tutto questo tempo?
“No, sicuramente no, è chiaro. Quando sono arrivato in Europa nel 1990 oltretutto non c’era internet per mantenere i contatti, si faceva solamente qualche telefonata. La mia idea era di restare nel Vecchio Continente per al massimo uno o due anni, e invece è stato l’inizio di una straordinaria avventura che mi ha cambiato la vita e mi ha permesso d’incontrare tante fantastiche persone”.

Tu sei nato a Granby, una cittadina a un’ora da Montréal. Come fu la tua infanzia: hockey, scuola e cibo?
“Esattamente, hai fatto una descrizione perfetta. Un po’ come tutti i ragazzini della regione, fu proprio così. Si andava a scuola, si arrivava a casa, si facevano i compiti e poi fuori a giocare a hockey sino all’imbrunire. Erano inverni molto freddi e rigidi, era bellissimo crescere così in questo ambiente, ci divertivamo tanto. Ho avuto una magnifica infanzia. In estate nei mesi caldi? Lì viravamo sul baseball”.

Giocare nei Montreal Canadiens era il tuo sogno da bambino?
“Sì, è la verità. Seguivo molto le loro partite, specie quando ero più grandicello. Da piccolo mi ricordo che i miei genitori mi lasciavano guardare la partita del sabato sera alla televisione. Il mio idolo era Guy Lafleur”.

Perché a 21 anni lasciasti le leghe giovanili canadesi per andare in Italia? Avevi qualche legame, perché proprio lì?
“Un mio ex allenatore delle giovanili si trovava lì. Ricevetti pure un’offerta dei Nordiques di Québec a quell’epoca, ma non c’era sicurezza. Era anche un altro gioco a quei tempi, spesso i club prendevano sotto contratto i grandi armadi. Arrivò questa opportunità dall’Italia e mi ritrovai quindi a Eppan. La mia vita cambiò praticamente in ogni ambito. Prima ero la tipica persona d’oltreoceano con il Big Mac e la Coca Cola in mano. Imparai a conoscere la cultura italiana. Gustai ad esempio il mio primo tiramisù e conobbi l’espresso. Prima ero abituato e conoscevo solo le grandi tazze di caffè americano. Inoltre m’interessai subito alla lingua e appresi l’italiano. Con il passare degli anni arrivò in seguito pure l’apprendimento del tedesco”.

Hai avuto una carriera lunghissima tra Italia, Germania e Svizzera e sei sempre stato una macchina da punti. Fare gol e distribuire assist era un po’ la tua droga?
“No. La mia droga era semplicemente giocare e dare il massimo al fine di fare vincere la squadra. Il mio focus è sempre stato sul collettivo. Certo che arrivai molto giovane in qualità di straniero e dunque dovetti dimostrare subito il mio valore e di meritare quel posto da import. Di base sono molto contento della mia carriera, mi sono sempre migliorato e sono diventato un giocatore più forte con il passare degli anni”.

Eccome. Nella stagione 2009/10 a 40 anni con lo ZSC totalizzasti 51 punti di cui 23 reti. Impressionate. Qual era il tuo segreto?
“Lavoravo molto sulla mia condizione fisica. Iniziavo prestissimo ad allenarmi in questo senso. All’epoca non era così, spesso s’iniziava tardi con la preparazione, io invece mi mettevo appunto già prima in moto. E poi sono stato fortunato con la mia salute, quello è pure un aspetto fondamentale per arrivare a giocare a livelli alti sino a una simile età”.

Forse in pochi si ricordano o lo sanno: ai Mondiali del 2003, pur senza giocare, conquistasti la medaglia d’oro con il Canada al fianco di campioni come Sean Burke, Roberto Luongo, Ryan Smith, Dany Heatley e tanti altri ancora. Che ricordi hai di quelle settimane?
“Contando la preparazione fu in sostanza un mese davvero incredibile. Avevo fornito delle buone prove alla Coppa Spengler e lo staff tecnico canadese mi disse quindi che mi avrebbe selezionato pure per i Mondiali. “Jan dobbiamo prenderti”, mi comunicarono i dirigenti. Fu un grande onore, ero l’unico giocatore che militava in Europa e al mio fianco c’erano solamente stelle NHL. Fu un’avventura straordinaria poter far parte del gruppo pur non giocando. Anche durante il corso del torneo il Canada avrebbe potuto aggiungere altre star eliminate dai playoff di NHL, ma lo staff disse che non era necessario e che in caso di bisogno ci sarebbe stato Alston. Io mi sentii veramente parte del team anche senza giocare, dato che partecipavo agli allenamenti con i compagni e alla vita di tutti i giorni”.

Hai parlato di Coppa Spengler. Una competizione importante nella tua carriera: quattro partecipazioni, due vittorie tra cui quella del 2002 con una tua doppietta in finale…
“Sì, è una bella storia il mio rapporto con la Spengler. Ne ho giocate molte e ho avuto la fortuna di vincerla. Questo avvenimento è sempre marcato in rosso nel mio calendario. Mi è piaciuto pure vincerlo l’anno scorso con il Davos in qualità di dirigente. Alla Spengler c’è sempre un grande ambiente e moltissimi tifosi. È il torneo per club più vecchio al mondo… Ecco per me la Coppa Spengler è una celebrazione dell’hockey, la definirei così”.

Una volta appesi i pattini al chiodo hai praticamente sempre svolto la funzione di DS. Una decina d’anni a Losanna e ora affronti la tua quarta stagione a Davos. Cosa ti piace particolarmente di questo lavoro e come ci sei arrivato?
“Già a 28 anni mi misi in testa che avrei voluto svolgere questa funzione. A quei tempi non era come oggi, dove in sostanza tantissimi DS sono ex giocatori. Era quasi sempre una funzione svolta da persone senza una carriera alle spalle. Quando ero a Mannheim però c’era l’eccezione, rappresentata da Markus Kuhl. Lui era un giocatore e in seguito diventò appunto direttore sportivo. Mi aprì un’altra dimensione ispirandomi. Mi sono dunque già preparato a questo lavoro quando ancora ero attivo come atleta terminando gli studi e conseguendo la formazione. Per me è un attività bellissima, hai la possibilità di costruire qualcosa, è come un cantiere, vuoi sempre cercare di migliorarlo. Metti in atto una strategia, provi a inculcare una cultura. È affascinante osservare l’evoluzione e il risultato finale. E poi allacci molti contatti umani e imbastisci tante relazioni”.

Flessibilità e pazienza, sono qualità importanti per questo lavoro. Capita di arrabbiarti quando per esempio sei praticamente sicuro di avere ingaggiato il giocatore X e poi alla fine quest’ultimo firma per un altro club?
“(Alston ride ndr). Gli alti e i bassi fanno parte di questa attività. Bisogna imparare a convivere con questo tipo di situazioni. È pure una questione di fiducia. A volte la trattativa va dalla tua parte, a volte invece no, è così. Io adoro questo lavoro. Anzi, ti dirò, per me non è nemmeno un lavoro, è un privilegio dopo 20 anni di carriera poter continuare a essere nel mondo dell’hockey così. È semplicemente una passione”.

Sei reduce da due settimane di vacanza, ma sono veramente giorni di relax per un direttore sportivo? Non hai mai ricevuto telefonate o svolto trattative in questo periodo?
“Dai Marco, che domanda mi fai. Lo sai benissimo tu (Alston ride nuovamente ndr). Il business non si ferma mai, si è sempre in stand-by, non ci si spegne mai insomma. È un lifestyle”.

Hai ragione. Da una domanda banale a un’ultima classica. Quali sono gli obiettivi del Davos per l’imminente campionato?
“I soliti. Finire nel top 6. D’altronde è un po’ l’obiettivo che hanno almeno 12 squadre. Più in generale vogliamo continuare a migliorarci. Quando arrivai a Davos si trattava di rimettere un po’ tutti nei binari. Era una fase di transizione dopo la lunghissima era di Arno Del Curto. Si erano pure mancati i playoff e poi ci fu anche il periodo legato alla pandemia. Da quando abbiamo iniziato questo nuovo progetto abbiamo sempre centrato i playoff, trovando stabilità e ci siamo continuamente migliorati. Vogliamo proseguire così, abbiamo tanta fame e appunto vogliamo ottenere sempre di più”.

Click to comment

Altri articoli in Interviste