LUGANO – È stato uno dei giocatori simbolo e più rappresentativi del Lugano e un pilastro della Nazionale elvetica. Oltre 20 anni di carriera da professionista, due titoli svizzeri, una partecipazione alle Olimpiadi di Salt Lake City nel 2002 e sei Mondiali.
Jean-Jacques Aeschlimann ha lasciato una grande impronta nell’hockey svizzero e ticinese. Tuttora impiegato in seno all’Hockey Club Lugano, da ormai qualche anno il 57enne è attivo pure in politica.
“JJ” , lo sai la prima cosa che mi viene alla mente quando penso a te?
“I rigori?”.
Fuoco, ma più in particolare?
“Non saprei, dimmelo tu”.
Sei colui che nel 2001 ha messo la parola fine alla carriera del mitico Renato Tosio con quel rigore nella sesta partita della serie di semifinale a Berna. Cosa ti ricordi di quell’istante?
“Della serie e della partita non mi rammento nulla. Mi ricordo un po’ cronologicamente i rigori, e che avevo già segnato nella prima fase. Si andò dunque ad oltranza. Jim Koleff mi indicò di tornare sul ghiaccio. Ero sollevato dal fatto che tiravamo come secondi. Prima di me sbagliò Andreas Johansson ed ero dunque convinto di segnare. Non avevo nulla da perdere, se avessi fallito si sarebbe andati avanti, in caso contrario ci saremmo qualificati per la finale. Prima di andare a tirare il rigore dissi in panchina a Oliver Keller “abbiamo vinto”. Non era un mio tipico atteggiamento”.
E in merito a Tosio? Ti resi conto della storicità dell’istante?
“Non fu un tema sul momento. Lo diventò solamente più tardi. In diverse circostanze con il passare degli anni questa domanda è spesso tornata da parte dei media”.
La tua finta ai rigori era sempre la solita, eppure funzionava praticamente ogni volta. Com’era possibile? I portieri non ti studiavano abbastanza?
“Quando l’esecuzione di un gesto tecnico riesce al 100% ogni finta ha successo. Io credevo in quella mossa, l’allenavo con costanza. Anche in allenamento, i portieri potevano pure pararla, ma io continuavo a farla. Era un automatismo, un gesto naturale, senza riflettere troppo. Mi presentavo al rigore e la eseguivo. Tutto qui”.
Praticamente tutti ti associano al Lugano, ma tu sei nato e cresciuto a Bienne. Hai ancora uno stretto legame con la tue radici?
“Con Bienne mi lega specialmente ancora mio papà. Lui abita tuttora nella casa dove sono cresciuto. Siamo molto in contatto. Lui è stato oltre che giocatore anche ex direttore sportivo del Bienne ed è un membro d’onore del club. Si reca dunque spesso a vedere le partite alla Tissot Arena. Capita così di guardare dei match assieme e scambiarci un po’ di opinioni su quello che accade nel mondo hockeistico”.
Parlaci un po’ della tua gioventù a Bienne, c’era altro oltre all’hockey?
“Io sono cresciuto a La Heutte, un piccolo villaggio del Giura bernese, a circa 9 km da Bienne. È un paesino di circa 500 abitati, mio padre era il segretario comunale. Io lì frequentai le scuole elementari. In paese c’era un club di Cross Country che si cimentava in corse a piedi nei boschi. Una volta alla settimana ci si trovava. Partecipavo alle gare un po’ in tutta la Svizzera. Lo facevo parallelamente all’hockey, a quei tempi si cominciava a giocare attorno agli 8 anni. Lo sport è sempre stato nel DNA della nostra famiglia. Lo vuoi un piccolo aneddoto? A un certo punto il club iniziò pure a praticare il calcio. Io ero il più grande e quindi all’inizio fui mandato in porta. Poi però, durante un allenamento mentre si tirava dai 16 metri, si scoprì che ero l’unico che riusciva a calciare in porta da quella distanza senza che il pallone toccasse l’erba e quindi diventai centravanti”.
Prima parlavi del DNA. Siete effettivamente sempre stati una famiglia di sportivi, a partire da tuo nonno Georges. Fu un ciclista, gregario degli immensi Ferdy Kübler e Hugo Koblet e disputò tutti i grandi giri a tappe. Che ricordi hai di lui?
“Ho grande stima del nonno. I primi anni, quando mia mamma lavorava, ero spesso da lui e dalla nonna. Avevamo un forte legame, accentuato da parte mia dal fatto di chi fosse stato come sportivo. Ho ricordi indelebili della sua figura e delle nostre uscite in bicicletta. Inoltre aveva due tessere in tribuna per seguire il Bienne e mi portava con sé alle partite, era bellissimo poter accompagnarlo. Provo nostalgia nel ricordare tutte queste cose”.
Non solo babbo e nonno sono stati degli sportivi: tuo fratello Joël militò pure per parecchie stagioni in LNA e anche l’altro fratello Frank giocò per un breve periodo in LNB. Insomma l’hockey è veramente di famiglia. Tu sei quello che ha avuto la carriera migliore. Eri davvero il più forte dei tre?
“Se si va ad ascoltare tutti gli allenatori a livello giovanile, io ero il meno forte dei miei fratelli, il meno talentuoso per quel che concerne tecnica e senso di gioco. Credo però che alla fine, spero non me ne vogliano Joël e Frank, io sia stato il più tenace di tutti e anche fisicamente il più alto. Ho sempre lavorato duramente per colmare i deficit e sono riuscito a fare una bella carriera”.
Tuo figlio Marc, 28enne, è ancora attivo nel La Chaux-de-Fonds. Credi che per lui portare un cognome così nobile sia stato un vantaggio o un peso?
“Credo che sia stato soprattutto lui a mettersi pressione. Vuole raggiungere quello che aveva fatto papà. Dall’esterno non credo sia mai stato un argomento. Marc ha sempre dovuto farsi spazio da solo e convincere le persone delle sue capacità. Non ha mai approfittato in nessun momento del fatto essere mio figlio. La prova? È riuscito a sfondare a Davos. Tra me e Arno del Curto non c’è mai stata molta amicizia, anzi. Per tanti anni c’erano stati vari duelli tra Davos e Lugano, c’era molta rivalità tra i club e i loro esponenti”.
A Lugano sei sempre stato un leader e un esempio per tutti. Hai disputato ben 14 stagioni da protagonista e hai conquistato due titoli. Ti chiedo il momento più bello e quello più brutto…
“Sicuramente il più bello è stato la conquista del primo titolo nel 1999. Ero arrivato a Lugano nel 1991 e il mio obiettivo dichiarato era di vincerlo. Ci sono voluti tanti anni, un po’ troppi per i miei gusti. Inoltre pochi giorni dopo che firmai a Lugano, mi contattò il Kloten che ne vinse ben quattro dal 1993 al 1996 (JJ ride ndr). Riuscire finalmente a trionfare fu una sorta di consacrazione, era come cancellare la frustrazione per non aver mai vinto in precedenza. Il momento più brutto fu invece quando il Lugano mi disse che non avrei più ricevuto un contratto. Non ero pronto per quel momento, soffrii molto, capivo che stava finendo un ciclo importante della mia vita e ciò mi fece riflettere molto”.
Non hai terminato la carriera in bianconero e per questo la tua maglia non è appesa sotto il tetto della Cornèr Arena. Per me è abbastanza assurdo, ti saresti meritato questo riconoscimento. Ti pesa questa cosa?
“È una cosa che non posso controllare, ma devo ammettere che ci rimasi male a non aver potuto godere di questo onore e istante. Vedere la tua maglia ritirata per me è la cosa più grande che può accadere a un giocatore, supera qualsiasi titolo. Quindi sì, come detto ci rimasi male, ma questo sentimento è ormai acqua passata e superato, con l’avanzare dell’età si cambia il modo di vedere le cose. Capisco inoltre che la società deve fare delle scelte e seguire un regolamento. Ora sono ancora qui, lavoro sempre per il Lugano e questa opportunità vale molto di più di una maglia ritirata”.
Il tuo rapporto con la Nazionale è stato particolare. Nel fiore degli anni, tra il 1996 e il 2000 non ricevesti più convocazioni. A 33 anni ci fu poi il tuo grande ritorno. Restasti in pianta stabile disputando un ultimo Mondiale nel 2003 a praticamente 36 anni. In questo lasso di tempo, a quasi 35 primavere partecipasti pure alle Olimpiadi di Salt Lake City. Che storia…
“È stato davvero tutto un po’ strano. Entrai presto nei quadri elvetici. Mi ricordo che disputai la mia prima partita in rossocrociato l’11 novembre 1988, il primo giorno di carnevale. Per diversi anni rimasi sempre un po’ nel limbo. A volte ero convocato, altre invece no. Per tre o quattro anni fui l’ultimo a essere tagliato prima dei Mondiali. Disputai la mia prima rassegna iridata nel 1994, erano i Mondiali del gruppo B a Copenaghen, dove fummo promossi. L’anno dopo in Svezia ci fu la retrocessione e da lì in poi Simon Schenk mi considerò troppo vecchio. Fa sorridere, perché a 33 anni Ralph Krueger decise di riprendermi. È la prova che l’età non vuole dire molto, contano solo le prestazioni”.
Una volta appesi i pattini al chiodo ci fu la lunga parentesi in terra rivale ad Ambrì. Sei stagioni, dal 2007 al 2013 in qualità di direttore generale e direttore sportivo. Fu un periodo difficile, forse il più delicato nella storia del club leventinese, perlomeno nell’era moderna. Che ricordi hai di quell’esperienza?
“Arrivai dapprima con il ruolo di assistente allenatore. Il piano del club era di farmi salire a poco a poco nelle gerarchie. Purtroppo le cose precipitarono. Fu un periodo molto intenso e difficile, ma fu un apprendistato importante sia a livello lavorativo che a livello umano. Non fu semplice, quando giochi la realtà è completamente diversa, una volta smesso ti ritrovi in un mondo totalmente nuovo. Da un momento all’altro non sei più quello amato da tutti, ma devi comunque mostrare di cosa sei capace e lavorare duramente. Io ho cercato di fare del mio meglio, non ho nulla da rimproverarmi. Mi rincresce solo che in tanti mi misero addosso delle colpe in merito alle decisioni sportive di tutte quelle stagioni, ma io mi occupai del mercato e delle trattative solo gli ultimi due anni, consegnando poi a Serge Pelletier la squadra che partecipò di nuovo ai playoff dopo tanto tempo”.
Come mai una volta tornato a Lugano non hai più ricoperto ruoli legati strettamente all’aspetto sportivo?
“Il ruolo di allenatore l’ho subito scartato. Non è quello che fa per me. Quando tornai a Lugano c’era Roland Habisreutinger in qualità di DS. Io volevo evitare un po’ l’errore che si fece ad Ambrì. C’era chi ad esempio era pro Peter Jaks e chi era pro JJ, la società era spaccata. I ruoli devono essere chiari. Se mi fossi chiamato Bernasconi nessuno avrebbe detto nulla e quindi ecco perché mi sono staccato dalla parte legata strettamente allo sport. In seguito non ho mai insistito per tornare a ricoprire una carica più vicina all’aspetto prettamente sportivo. Avevo aderito qualche anno fa a una richiesta del Kloten ed ebbi alcune discussioni in merito alla posizione di DS, ma non se ne fece nulla. Inoltre anche a livello di Federazione ebbi dei colloqui per il posto che poi è andato a Lars Weibel. Queste due furono le uniche discussioni un po’ concrete in questi anni”.
Da qualche anno sei attivo in politica in qualità di Consigliere comunale a Lugano. Come mai questa scelta?
“È una scelta che è arrivata in rapporto a quello che dicevo prima. Con il passare dell’età incominci a relativizzare alcuni concetti. Quando ho ricevuto la proposta dal mio partito in merito a una candidatura ci ho riflettuto a lungo. Non avevo in effetti nessuna idea di cosa volesse dire fare politica. Quando pratichi sport a livello professionale ti occupi pochissimo del lato istituzionale. Dopo tanti pensieri ho pensato che potesse essere un arricchimento della mia persona, qualcosa che potesse permettermi anche di capire e imparare quello che accade veramente nella vita di tutti. Sono felice di aver sposato la causa, mi trovo molto bene, ho raggiunto il mio obiettivo, sono cresciuto a livello umano, ho arricchito le mie conoscenze e capisco molto di più il mondo”.
Nel poco tempo libero quali sono le tue attività predilette?
“Mi occupo della mia nuova famiglia. Sono diventato papà di una bambina poco più di due anni fa e mi sono risposato, il mio tempo libero lo dedico tutto a mia moglie e mia figlia”.
Ultima domanda, hai una “bucket list” e se sì, qual è la cosa più importante sulla tua lista?
“Concretamente non l’ho. Penso semplicemente a consolidare quello che sto facendo adesso, al prossimo step insomma. Sono ancora giovane, alla bucket list posso pensarci un po’ più in là”.